L’obbligo del consenso informato è desumibile (anche) dai principi generali dell’ordinamento

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Avv. Pier Paolo Muià – Dott.ssa Maria Muià

 

Riferimenti normativi: legge 281 del 1998; Convenzione di Oviedo del 1997 e Legge di ratifica in Italia n. 145 del 2001.

Precedenti giurisprudenziali: Cass. Sentenza n. 10014 del 25 novembre 1994.

Fatto

La questione esaminata dalla Corte di Cassazione nella pronuncia oggetto di commento sorge da una domanda di risarcimento danni per responsabilità sanitaria introdotta da un paziente nei confronti dell’Università presso la quale aveva eseguito un intervento chirurgico.

In particolare, il paziente aveva convenuto in giudizio, dinanzi al Tribunale di Napoli, la struttura sanitaria universitaria e il professionista che lo aveva operato, chiedendo il ristoro per i danni subiti a seguito dell’intervento chirurgico, in considerazione di un duplice ordine di motivi: (i) in primo luogo, per il fatto che detto intervento non era stato correttamente eseguito; (ii) in secondo luogo, per il fatto che non era stato fornito al paziente un valido consenso informato in ordine ai possibili esiti infausti dell’intervento stesso.

Il Tribunale partenopeo aveva rigettato la domanda nei confronti del professionista sanitario, in quanto si era ritenuto territorialmente incompetente e, a seguito dello svolgimento di una consulenza tecnica di ufficio, pur avendo ritenuto corretto l’intervento chirurgico eseguito dal professionista sanitario, aveva accolto la domanda nei confronti della Università per mancanza del consenso informato, condannando così la convenuta al pagamento di un importo di circa 500.000 euro a titolo di risarcimento danni e alla refusione delle spese di lite sostenute per il giudizio.

La convenuta soccombente aveva impugnato in Appello la sentenza di primo grado, ma anche i giudici di seconde cure avevano condiviso la mancanza di un consenso informato nel caso di specie e conseguentemente avevano rigettato l’appello e confermato la sentenza di primo grado. In particolare, la Corte di appello aveva ritenuto che la convenuta in primo grado non aveva contestato la circostanza sostenuta dall’attore in ordine alla mancanza del consenso informato e conseguentemente tale aspetto era da ritenersi pacifico e quindi da non provare. Infatti, la contestazione sul punto era stata sollevata per la prima volta dalla convenuta soltanto in appello e comunque si fondava su una deposizione generica che non permetteva di individuare con esattezza quali informazioni fossero state fornite al paziente. Pertanto, la Corte di Appello partenopea aveva ritenuto che, poiché la consulenza tecnica di ufficio espletata in primo grado aveva accertato l’esistenza di conseguenze dannose che erano derivate dall’intervento subito dal paziente – nonostante questo fosse stato eseguito correttamente -, era rinvenibile una responsabilità della struttura universitaria in considerazione del fatto che era mancato il consenso informato al paziente in ordine alle possibili conseguenze negative dell’intervento stesso.

Volume 

La decisione della Corte di Cassazione

Il ricorso promosso dalla Università si è fondato su un solo motivo, diviso in due parti, connesso proprio all’aspetto del contenuto del consenso informato.

Nello specifico, la ricorrente ha lamentato il fatto che i giudici di merito avrebbero errato nell’applicare al caso di specie una legge del 1998 e la disciplina prevista dalla Convenzione di Oviedo del 1997 (ratificata in Italia con legge del 2001), in considerazione del fatto che la fattispecie di cui è causa si sarebbe verificata prima rispetto alla entrata in vigore delle due richiamate normative. Pertanto, secondo la ricorrente, l’errore dei giudici di merito sarebbe stato applicare retroattivamente le due citate normative.

La seconda parte del motivo di ricorso, invece, è connesso al fatto che i giudici di merito non avrebbero preso in considerazione l’esistenza di una valida prova acquisita in giudizio (cioè la richiamata testimonianza), dalla quale emergeva che l’Università aveva correttamente informato il paziente in ordine alle possibili conseguenze negative dell’intervento.

Gli Ermellini hanno rigettato il ricorso promosso dalla Università ritenendolo inammissibile, ma altresì infondato nel merito. Pertanto, pur potendo definire il giudizio in rito con una pronuncia di inammissibilità, la Corte di Cassazione ha comunque deciso di entrare nel merito della censura sollevata per dimostrarne la sua mancanza di fondamento.

Preliminarmente, i giudici supremi hanno rilevato che, nel proprio ricorso, l’Università: (i) non ha contestato la statuizione della sentenza di merito per cui era da ritenersi pacifica la mancanza del consenso informato per mancata contestazione di tale circostanza da parte della convenuta; (ii) non ha neanche preso posizione sulla statuizione della sentenza di secondo grado in ordine alla tardività della affermazione della esistenza del consenso informato che era stata formulata dalla convenuta soltanto in sede di appello.

Ciò detto i giudici, con riferimento alla prima parte del motivo di ricorso, hanno ritenuto di respingere i rilievi formulati dalla ricorrente, ritenendo che le corti di merito non abbiano applicato retroattivamente la Legge del 1998 e la Convenzione di Oviedo, in considerazione del fatto che l’obbligo di un valido consenso informato era comunque già desumibile dai principi generali dell’ordinamento. In altri termini, il Tribunale di Napoli (prima, e la Corte di Appello, poi) ha correttamente ritenuto che, nel momento in cui si è verificato il fatto di cui è causa, vigesse un obbligo di fornire il consenso informato al paziente prima dell’intervento, in quanto tale obbligo era già previsto dai principi generali dell’ordinamento e non perché esso era previsto da una delle disposizioni specifiche sopra richiamate.

Con riferimento a tale aspetto, vi è comunque da rilevare che – seppur tale elemento non è stato preso in considerazione dalla Cassazione – con la introduzione della recente legge n. 219 del 2017 il principio generale della necessità di un consenso informato al paziente in ordine a qualsiasi accertamento diagnostico o intervento terapeutico è stato disciplinato in maniera analitica.

Per quanto riguarda, invece, alla seconda parte del motivo di ricorso, i giudici hanno invece ritenuto la doglianza inammissibile in considerazione del fatto che la Corte di appello partenopea aveva già valutato la prova acquisita nel giudizio di primo grado cui faceva riferimento la convenuta (cioè la dichiarazione testimoniale) e l’aveva tuttavia ritenuta non sufficiente a riformare la decisione di primo grado.

In considerazione di tali valutazioni, gli Ermellini hanno ritenuto di rigettare il ricorso promosso dalla Università e conseguentemente hanno condannato la ricorrente al pagamento delle spese di lite anche relative al giudizio di Cassazione, che sono state liquidate secondo i parametri previsti dalla recente normativa in materia.

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Sentenza collegata

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