Lo scopo della norma di cui all’articolo 46 del decreto legislativo 163/2006 smi è quella di porre rimedio a incertezze o equivoci generati dalla ambiguità delle clausole del bando e della lettera di invito o comunque presenti nella normativa applicabile

Lazzini Sonia 01/11/07
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La disposizione di cui all’articolo 46 del decreto legislativo 163/2006 smi non ha inteso assegnare alle amministrazioni aggiudicatrici una mera facoltà o un potere eventuale, ma ha piuttosto inteso codificare un ordinario modus procedendi, volto a far valere, entro certi limiti, la sostanza sulla forma o, peggio, sul formalismo dell’esibizione della documentazione in gara), orientando l’azione amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti di partecipazione e della capacità tecnica ed economica  l’istituto comunitario di carattere generale è, pertanto, diretto ad evitare che la esigenza della massima partecipazione possa essere compromessa da carenze di ordine meramente formale nella documentazione
 
In tema di possibilità di integrazione documentale, dello scopo e dei limiti della norma, merita di essere segnalato il pensiero espresso dal Consiglio di Stato con la decisione numero 1068 del 6 marzo 2006
 
Orbene, la disposizione racchiusa nell’art. 16 del D.L.vo n. 17 marzo 1995 n. 157 _ ora articolo 46 del decreto legislativo 163/2006 smi (secondo cui <<le amministrazioni aggiudicatrici invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati >>) nel recepire la direttiva Ce 18 giugno 1992 n. 50 – che ha introdotto la possibilità di chiedere chiarimenti od integrazioni per certificati e documentazioni presentati, relativamente ai requisiti di idoneità soggettiva nonchè delle capacità economiche e tecniche per partecipare ad appalti di forniture – con l’inciso <<invitano, se necessario>>, ha chiarito e rafforzato il significato art. 34 della direttiva stessa trattandosi di una disposizione che, per le varie realtà amministrative degli Stati comunitari ed il diverso atteggiarsi delle funzioni pubbliche, è stata formulata con riferimento al concetto di potere perchè l’azione amministrativa non fosse considerata ultra vires o senza potere.
 
Ma quali sono i limiti?
 
< Merita di essere precisato, tuttavia, che tale disposizione incontra dei limiti applicativi che la giurisprudenza ha individuato:
 
a) nel limite del principio della par condicio tra i concorrenti: la disposizione de qua non può essere utilizzata per supplire alla inosservanza di adempimenti procedimentali o alla omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara
 
b) nel limite degli elementi essenziali (ovvero dei profili sostanziali), nel senso che la regolarizzazione non può essere riferita agli elementi essenziali della domanda . Tale limite deve essere, tuttavia, temperato dall’osservazione secondo cui è possibile ricorrere all’integrazione nelle ipotesi in cui gli atti tempestivamente prodotti e già in possesso della amministrazione, costituiscano ragionevole indizio (cd. principio di prova) del possesso del requisito di partecipazione, non espressamente o univocamente documentato;
 
c) in terzo luogo, la regolarizzazione trova ingresso essenzialmente quando si tratta di porre rimedio a incertezze o equivoci generati dalla ambiguità delle clausole del bando e della lettera di invito o comunque presenti nella normativa applicabile alla concreta fattispecie. In questo senso, la giurisprudenza più recente ritiene che ai sensi dell’art. 16 d.lg. n. 157 del 1995, ai fini dell’esercizio del potere dell’amministrazione di invito dei concorrenti alla regolarizzazione della documentazione dei requisiti di partecipazione ad una gara, è condizione necessaria l’equivocità della clausola del bando relativa alla dichiarazione od alla documentazione da integrare o da chiarire; pertanto, in presenza di una prescrizione chiara e dell’inosservanza di questa da parte di un’impresa concorrente, l’invito alla regolarizzazione costituisce violazione del predetto principio >
 
 
 
tratto da Cons. Stato, sez. V, 17/04/2002, n. 2017:
 
< Occorre osservare che l’art. 16 del d. lgs.vo n. 157 del 1995 non circoscrive, “nei limiti previsti” dai quattro articoli che lo precedono – e dunque con riguardo all’insieme dei requisiti che le imprese concorrenti devono possedere -, il potere discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici di chiedere chiarimenti circa il contenuto delle dichiarazioni o dei documenti presentati. L’inciso “se necessario”, contenuto nella norma, sta solo ad indicare un’esigenza di ragionevolezza, che, nel caso in esame, appare sussistente. Ciò significa che la sospensione del procedimento può legittimamente aversi, per il tempo occorrente a concludere la verifica. Questa, come risulta dagli atti di gara, atteneva alla dimostrazione delle capacità tecniche della società e, propriamente, si è concentrata sui mezzi di cui doveva disporre per garantire il servizio da aggiudicare.>
 
 
a cura di *************
 
            REPUBBLICA ITALIANA    N. 1068/06    ********
 
         IN NOME DEL POPOLO ITALIANO    N. 5723 REG.RIC.
 
Il Consiglio  di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta          ANNO 2004 
 
ha pronunciato la seguente
 
DECISIONE
 
sul ricorso in appello nr. 5723/2004 R.G., proposto dal DITTA ALFA SpA, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale impresa capogruppo mandataria della Associazione temporanea di Imprese costituita tra DITTA ALFA SpA, E****
CONTRO
 
Il Comune di Bologna, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti ***************************, ******************* e prof. avv. **********************, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest’ultimo, in Roma, Via Orti della Farnesina n. 126;
 
e nei confronti di
 
BETA ******à Consortile Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti prof. ****************************, ****************** e ************ ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’ultimo in Roma, Viale Parioli n. 180;
 
per la riforma
 
della sentenza del T.A.R. Emilia Romagna, Bologna, sez. II, 16 febbraio 2004, n. 225.
 
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
 
Vista la costituzione in giudizio del Comune di Bologna e della società consortile BETA srl;
 
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
 
Visti gli atti tutti della causa;
 
Visto l’art. 23 bis comma sesto della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, introdotto dalla legge 21 luglio 2000, n. 205;
 
Alla pubblica udienza del 1° aprile 2005, relatore il Consigliere *****************;
 
Uditi gli avvocati **********, *****************, ************** e *********** come da verbale d’udienza;
 
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
 
FATTO
Con la sentenza impugnata il TAR dell’Emilia Romagna ha rigettato il ricorso principale (iscritto al nr. 914/2003 R.G.) con cui la DITTA ALFA SpA, E ***, avevano chiesto l’annullamento del provvedimento 30 giugno 2003 P.G. n. 113280 con il quale il Comune di Bologna ha aggiudicato la gara per l’affidamento della gestione del servizio globale di manutenzione del patrimonio comunale al Consorzio “BETA” Srl nonché degli ulteriori atti connessi, presupposti o consequenziali del provvedimento di ammissione del Consorzio BETA alla gara per l’affidamento della gestione del servizio globale di manutenzione del patrimonio immobiliare e delle determinazioni assunte nelle sedute di gara del 21 novembre 2002 e 27 novembre 2002, mentre ha dichiarato irricevibile il ricorso per motivi aggiunti notificati in data 16 settembre 2003 con il quale erano stati impugnati il provvedimento di nomina della Commissione giudicatrice del 31 ottobre 2002 P.G. n. 175852/2002, i verbali tutti di gara, sia di quelli relativi all’Autorità di gara del 14, 21 e 27 novembre 2002 e del 30 maggio 2003, sia di quelli relativi alla Commissione giudicatrice del 7/29 novembre 2002, del 12 dicembre 2002, del 15 gennaio 2003, del 5, 13, 19 febbraio 2003, del 19, 20, 26 marzo 2003 e del 2/18 aprile 2003; ed altresì del verbale in data 1 luglio 2003, con il quale il responsabile del procedimento ha proceduto alla consegna anticipata dei servizi in favore della controinteressata. Infine è stata respinta respinta la domanda di risarcimento del danno.
 
La sentenza è stata appellata dalla DITTA ALFA SpA, in proprio e quale impresa capogruppo mandataria della Associazione Temporanea di Imprese, che contrasta le argomentazioni del giudice di primo grado.
 
Il Comune di Bologna e la BETA società consortile srl si sono costituite per resistere all’appello.
 
Alla pubblica udienza del 1 aprile 2005, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.
 
DIRITTO
 
1. Devono essere, in via preliminare, esaminate le eccezioni proposte da BETA società consortile srl (non scrutinate dal giudice di primo grado).
 
Con la prima, la società consortile ha eccepito la tardività del ricorso di primo grado proposto dall’odierna appellante, atteso che in data 30 maggio 2003 è stata comunicata via fax alla DITTA ALFA S.p.A. l’aggiudicazione dell’appalto alla controinteressata avvenuta nella seduta pubblica dello stesso giorno.
 
L’eccezione è priva di base.
 
Risulta, invero, che con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado l’odierno appellante impugnò il provvedimento in data 30.6.2003 P.G.n. 113280 con il quale il Comune di Bologna aveva aggiudicato la gara per l’affidamento della gestione del servizio globale di manutenzione del patrimonio comunale al Consorzio “BETA” Srl nonché degli ulteriori atti connessi, presupposti o consequenziali del provvedimento di ammissione del Consorzio BETA alla gara per l’affidamento della gestione del servizio globale di manutenzione del patrimonio immobiliare e delle determinazioni assunte nelle sedute di gara del 21.11.2002 e 27.11.2002, mentre con ricorso per motivi aggiunti notificati in data 16.9.2003 furono gravati i seguenti atti: provvedimento di nomina della Commissione giudicatrice del 31.10.2002 P.G. n. 175852/2002, verbali tutti di gara, sia di quelli relativi all’Autorità di gara del 14, 21 e 27.11.2002 e del 30.5.2003, sia di quelli relativi alla Commissione giudicatrice del 7/29.11.2002, del 12.12.2002, del 15.1.2003, del 5, 13, 19.2.2003, del 19, 20, 26.3.2003 e del 2/18.4.2003; ed altresì del verbale in data 1.7.2003, con il quale il responsabile del procedimento aveva proceduto alla consegna anticipata dei servizi in favore della controinteressata.
 
Come evidenziato (anche) nelle difese dell’amministrazione comunale, l’aggiudicazione in favore di Consorzio “BETA” Srl avvenne con provvedimento in data 30 giugno 2003; ne discende che anche supponendo che il provvedimento in data 30 maggio 2003 costituisse atto di aggiudicazione provvisoria, il ricorso di primo grado sarebbe stato comunque ricevibile. Invero, come recentemente affermato da questa Sezione (Cons. Stato, sez. V, 28 maggio 2004, n. 3465) l’aggiudicazione provvisoria, in quanto atto preparatorio e non conclusivo del procedimento, non obbliga all’immediata impugnazione (cfr. altresì, Cons. Stato, sez. V, 09/06/2003, n. 3243 e Cons. Stato, sez. V, 21/06/2002, n. 3404; cfr. Cons. Stato, Sez.V, 24/05/2002, n. 2863, secondo cui il termine per ricorrere contro l’aggiudicazione di un pubblico contratto, pertanto, decorre dalla piena conoscenza di quella definitiva, con la possibilità di far valere nel relativo giudizio anche i vizi propri di quella provvisoria).
 
2. Non meritevole di essere accolta è, altresì, l’altra eccezione con la quale la BETA Società Consortile Srl si duole dell’omessa dimostrazione – da parte dell’odierna appellante – della prova di resistenza e, dunque, dell’interesse al presente gravame. Invero, in linea di principio, ai fini della sussistenza dell’interesse a ricorrere avverso gli atti di aggiudicazione di un appalto pubblico è sufficiente un interesse strumentale realizzabile mediante l’attività di riedizione del potere da parte della Pubblica Amministrazione – non occorrendo all’uopo la positiva certezza che il contratto venga aggiudicato al ricorrente; ne discende che al fine dell’interesse al ricorso in materia di aggiudicazione di contratti della Pubblica Amministrazione, è sufficiente l’interesse strumentale al rinnovo delle operazioni di gara, dal quale deriva una nuova chance di partecipazione e di aggiudicazione.
 
3. Deve essere, a questo punto, esaminata la questione concernente l’interpretazione e l’applicazione della regola dettata dall’art. 16 del D.L.vo n. 17 marzo 1995 n. 157.
 
Merita di essere ricordato che con l’originario ricorso di primo grado l’odierna appellante ha censurato l’ammissione del consorzio controinteressato (vincitore) in quanto l’offerta risultava carente della dichiarazione prevista dal punto 2.1.2 della lettera di invito con riferimento a due delle imprese raggruppate nel consorzio *** consorzio a sua volta raggruppato nel consorzio concorrente “BETA”.
 
Il punto 2.1.2 della lettera d’invito prevedeva la dichiarazione “di non trovarsi nello stato di imprese controllate e/o controllata ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile” da presentarsi a cura del legale rappresentante dell’impresa concorrente o della mandataria in caso di raggruppamento o del consorzio/società consortile. La lettera di invito precisava, al medesimo punto, che nel caso di raggruppamenti già costituiti o di consorzio/società consortile le dichiarazioni sub 2.1.1 e sub 2.1.2 sarebbero potute essere redatte dal rappresentante della capogruppo o del consorzio anche con riferimento alle imprese raggruppate o a quelle imprese consorziate che fossero state indicate come quelle per le quali il consorzio concorreva.
 
Orbene, in sede di gara, esaminata la documentazione presentata da “BETA”, emerse che la dichiarazione di cui sopra, oltre che dal raggruppamento concorrente, era stata presentata dal consorzio (partecipante al raggruppamento BETA) ** senza che fosse stato specificato che la dichiarazione valeva anche per tutte le società ad esso consorziate.
 
Per due di dette società, che non avevano presentato in proprio la dichiarazione, la commissione ha esercitato la facoltà cui all’articolo 16 del decreto legislativo n. 157/1995 chiedendo che la dichiarazione fosse estesa anche alle due suddette imprese consorziate nel consorzio Co.ge.ma. L’odierna appellante censura il comportamento della commissione.
 
Orbene, la disposizione racchiusa nell’art. 16 del D.L.vo n. 17 marzo 1995 n. 157 (secondo cui <<le amministrazioni aggiudicatrici invitano, se necessario, i concorrenti a completare o a fornire chiarimenti in ordine al contenuto dei certificati, documenti e dichiarazioni presentati >>) nel recepire la direttiva Ce 18 giugno 1992 n. 50 – che ha introdotto la possibilità di chiedere chiarimenti od integrazioni per certificati e documentazioni presentati, relativamente ai requisiti di idoneità soggettiva nonchè delle capacità economiche e tecniche per partecipare ad appalti di forniture – con l’inciso <<invitano, se necessario>>, ha chiarito e rafforzato il significato art. 34 della direttiva stessa trattandosi di una disposizione che, per le varie realtà amministrative degli Stati comunitari ed il diverso atteggiarsi delle funzioni pubbliche, è stata formulata con riferimento al concetto di potere perchè l’azione amministrativa non fosse considerata ultra vires o senza potere.
 
La disposizione in esame, dunque, non ha inteso assegnare alle amministrazioni aggiudicatrici una mera facoltà o un potere eventuale, ma ha piuttosto inteso codificare un ordinario modus procedendi, volto a far valere, entro certi limiti (come si dirà fra breve), la sostanza sulla forma (o, peggio, sul formalismo dell’esibizione della documentazione in gara), orientando l’azione amministrativa sulla concreta verifica dei requisiti di partecipazione e della capacità tecnica ed economica (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 14 novembre 2003, n. 7275); l’istituto comunitario di carattere generale è, pertanto, diretto ad evitare che la esigenza della massima partecipazione possa essere compromessa da carenze di ordine meramente formale nella documentazione (Consiglio Stato sez. V, 17 febbraio 1999, n. 177).
 
Merita di essere precisato, tuttavia, che tale disposizione incontra dei limiti applicativi che la giurisprudenza ha individuato:
 
a) nel limite del principio della par condicio tra i concorrenti: la disposizione de qua non può essere utilizzata per supplire alla inosservanza di adempimenti procedimentali o alla omessa produzione di documenti richiesti a pena di esclusione dalla gara (ex multis, Cons. Stato, sez. V, 22/04/2002, n. 2191);
 
b) nel limite degli elementi essenziali (ovvero dei profili sostanziali), nel senso che la regolarizzazione non può essere riferita agli elementi essenziali della domanda (Consiglio Stato, sez. IV, 9 dicembre 2002, n. 6684). Tale limite deve essere, tuttavia, temperato dall’osservazione secondo cui è possibile ricorrere all’integrazione nelle ipotesi in cui gli atti tempestivamente prodotti e già in possesso della amministrazione, costituiscano ragionevole indizio (cd. principio di prova) del possesso del requisito di partecipazione, non espressamente o univocamente documentato;
 
c) in terzo luogo, la regolarizzazione trova ingresso essenzialmente quando si tratta di porre rimedio a incertezze o equivoci generati dalla ambiguità delle clausole del bando e della lettera di invito o comunque presenti nella normativa applicabile alla concreta fattispecie. In questo senso, la giurisprudenza più recente ritiene che ai sensi dell’art. 16 d.lg. n. 157 del 1995, ai fini dell’esercizio del potere dell’amministrazione di invito dei concorrenti alla regolarizzazione della documentazione dei requisiti di partecipazione ad una gara, è condizione necessaria l’equivocità della clausola del bando relativa alla dichiarazione od alla documentazione da integrare o da chiarire; pertanto, in presenza di una prescrizione chiara e dell’inosservanza di questa da parte di un’impresa concorrente, l’invito alla regolarizzazione costituisce violazione del predetto principio (Consiglio Stato, sez. V, 4 febbraio 2004, n. 364; Consiglio Stato, sez. V, 4 luglio 2002, n. 3685).
 
Alla luce del superiore quadro normativo e del relativo corredo giurisprudenziale, il collegio ritiene la sussistenza di elementi che rendono incerta sia l’individuazione dell’effettiva previsione del punto 2.1.2 della lettera di invito, sia della portata della dichiarazione della Co.ge.ma..
 
Invero, come correttamente statuito dal giudice di primo grado, dal citato punto 2.1.2 non emerge in modo chiaro se l’onere ivi contemplato riguardava esclusivamente il consorzio e le imprese ad esso raggruppate, oppure anche le imprese raggruppate o consorziate ad uno dei soggetti partecipanti al consorzio. Tale dubbio, discende dal fatto che il punto 2.1.1 della lettera d’invito, nel prevedere un altro tipo di dichiarazione, contempla espressamente l’ipotesi in cui i consorziati siano a loro volta un consorzio e prevedeva, in questo caso, l’obbligo di indicare i consorziati per cui concorrono.
 
L’esame congiunto dei punti 2.1.1 e 2.1.2, evidenzia, dunque, come solo nel primo caso l’ipotesi in cui al raggruppamento principale che concorre alla gara partecipi un soggetto che è a sua volta un consorzio viene presa in considerazione ai fini della dichiarazione da produrre: può sussistere, pertanto, nel soggetto che partecipa alla procedura di gara il (ragionevole) dubbio in ordine all’estensione dell’onere di dichiarazione di cui al punto 2.1.2 (che non prevede l’ipotesi del “consorzio di consorzio”), anche alle imprese consorziate al soggetto a sua volta partecipante al raggruppamento principale.
 
A sua volta la dichiarazione del consorzio Co.ge.ma., che con dichiarazione separata aveva indicato le imprese partecipanti al consorzio (ex punto 2.1.1), non è interpretabile in modo chiaro ed univoco sul punto della estensibilità della sua portata a tutte le imprese ad esso consorziate, stante l’espressa facoltà di rendere tale dichiarazione per tutte le partecipanti prevista dalla lettera d’invito.
 
In tale contesto esistevano – come correttamente statuito dal giudice di primo grado – i presupposti per esercitare la facoltà di chiedere un’integrazione documentale ai sensi dell’articolo 16 del decreto legislativo n. 157/1995 applicabile – come nel caso che ci occupa – anche quando esistono difficoltà interpretative del bando o dei documenti presentati.
 
Infine non risultano pertinenti le ulteriori censure formulate dall’appellante: la prima (concernente gli aspetti essenziali della domanda), perché temperata dalla sussistenza del cd. principio di prova; la seconda (concernente una asserita situazione di controllo), perché fuoriesce dall’esame del presente motivo; l’ultima (concernente la limitazione del potere di richiedere l’integrazione solo con riferimento agli articoli 12 – 15 del d.lg. 17 marzo 1995 n. 157), atteso che l’art. 16 d.lg. 17 marzo 1995 n. 157 non circoscrive nei limiti previsti dai quattro articoli che precedono il potere discrezionale delle amministrazioni aggiudicatrici di chiedere chiarimenti circa il contenuto delle dichiarazioni o dei documenti presentati (cfr. Cons. Stato, sez. V, 17/04/2002, n. 2017).
 
4. Venendo al motivo d’appello con il quale la DITTA ALFA SpA si duole della declaratoria della irricevibilità dei motivi aggiunti proposti in primo grado, appare necessario – in via preliminare – svolgere alcune considerazioni. E’ noto che nel giudizio amministrativo (tradizionalmente qualificato come processo di parte) i motivi di ricorso fissano il thema decidendum (cfr. <<Il thema decidendum è sempre fissato dai motivi del ricorso in ordine al provvedimento impugnato>> Cons. Stato, sez. VI, 22/12/1983, n. 906, e la più recente Cons. Stato, sez. V, 16/06/2003, n. 3381). In tal senso l’art. 6 del Regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 (Regolamento per la procedura dinanzi alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato) prevede che <<Il ricorso deve essere diretto alla sezione giurisdizionale competente e deve contenere […] la esposizione sommaria dei fatti, i motivi su cui si fonda il ricorso, con la indicazione degli articoli di legge o di regolamento che si ritengono violati e le conclusioni […]>>.
 
Orbene, prima delle novità introdotte dall’art. 1, comma 1, della legge 21 luglio 2000, n. 205, la giurisprudenza e la dottrina distinguevano, rispetto ai motivi racchiusi nell’atto introduttivo del giudizio, i motivi nuovi (definiti, anche, motivi integrativi) dai motivi aggiunti.
 
I motivi nuovi venivano configurati dalla giurisprudenza amministrativa come gli ulteriori elementi su cui il ricorrente poteva fondare le proprie pretese e, dunque, le ulteriori censure – integrative delle doglianze già formulate con l’atto introduttivo del giudizio – che con un nuovo atto notificato alle controparti, purché entro il termine di impugnazione dell’atto amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 27/07/1987, n. 455) il ricorrente poteva avanzare in giudizio. La giurisprudenza affermava, infatti, che i motivi nuovi costituivano semplicemente un’ulteriore manifestazione del potere di ricorso originario ed erano, quindi, deducibili solo entro il termine decadenziale originario (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 4 novembre 1995 n. 343).
 
Diversamente, la proposizione di motivi aggiunti – configurata come temperamento di carattere eccezionale al principio della determinazione del thema decidendum sulla base dei motivi indicati nell’atto introduttivo del giudizio – veniva ricondotta alle ipotesi nelle quali la condotta processuale della controparte avesse messo in luce, mediante l’esibizione di documenti o l’allegazione di elementi di fatto, nuovi vizi dell’atto impugnato. Con i motivi aggiunti, pertanto, il ricorrente avanzava doglianze nuove a seguito dell’acquisizione di ulteriori conoscenze in un termine di decadenza successivo a quello proprio del ricorso originario.
 
In forza di un orientamento, divenuto sempre più robusto negli anni immediatante precedenti la riforma recata dalla legge 21 luglio 200, n. 205, la giurisprudenza ritenne ammissibile l’impugnazione dei provvedimenti sopravvenuti, purché collegati al provvedimento impugnato originariamente, con conseguente possibilità per l’interessato di scegliere tra il ricorso autonomo e la forma dei motivi aggiunti ed un indubbio vantaggio sotto il profilo della speditezza del procedimento e dei conseguenti costi processuali (ex multis, Cons. Stato, V, 23 marzo 1993, n. 398; ********** 26 febbraio 1987, n. 61 e 4 novembre 1995, n. 343), mentre, in base all’originaria impostazione giurisprudenziale, l’intervento di nuovi atti, successivi a quelli oggetto dell’impugnazione pendente, comportava la cessazione della materia del contendere o l’improcedibilità dell’impugnazione e la necessità d’instaurare nuovo giudizio, notificando autonomo ricorso avente ad oggetto il provvedimento sopravvenuto. L’indirizzo giurisprudenziale innovativo – che si fondava sulla concezione di un simultaneus processus con riunione di azioni connesse ed ampliamento dell’ambito originario (presupponendo però che la domanda e l’oggetto nuovi rientrino nella giurisdizione del giudice amministrativo adito, non esistendo la necessità costituzionale che, dopo l’avvio di un giudizio tra due soggetti, tutti i rapporti e le pretese successive vadano concentrati avanti ad un unico giudice in deroga alle usuali previsioni di riparto di giurisdizione ed al principio di precostituzione del giudice stesso: cfr. Corte Cost., ord. 18 dicembre 2001, n. 414) – è stato consacrato dalla novella di cui alla legge n. 205/2000 il cui articolo 1 comma 1 ha inserito nel corpo dell’articolo 21 comma 1 della cd. legge TAR la previsione secondo cui <<Tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti>>.
 
La formalizzazione della censurabilità delle determinazioni amministrative adottate nelle more dello svolgimento di un processo già pendente, avente ad oggetto la medesima vicenda che aveva portato a richiedere l’intervento del giudice amministrativo, oltre a rispondere all’intento spesso posto alla base degli istituti di elaborazione giurisprudenziale, e quindi alla soddisfazione di esigenze concrete (nella specie la necessità di fronteggiare la possibilità per l’amministrazione resistente di sottrarsi alle preclusioni ed agli obblighi conformativi che potrebbero derivare da una decisione di accoglimento del ricorso principale utilizzando l’espediente dell’emanazione di un nuovo provvedimento), involge certo il più generale principio che vuole che il reale oggetto del giudizio amministrativo sia costituito dalla pretesa azionata e dall’accertamento della sua fondatezza, superando, in tal guisa lo “schermo” dell’atto amministrativo.
 
Venendo alla fattispecie che ci occupa, non può essere accolta le tesi dell’appellante in ordine alla qualificazione dei motivi proposti in data 16 settembre 2003 come “motivi integrativi” e non come “motivi aggiunti”. Invero, osta a tale qualificazione non solo l’espressa qualificazione data all’atto da parte del suo autore ma, soprattutto, il fatto che con il ricorso in data 16 settembre 2003 la DITTA ALFA S.p.A. ha impugnato atti ulteriori e diversi rispetto a quelli impugnati con il ricorso introduttivo (senza che rilevi, a differenza di quanto sostiene il Comune appellato, che tali atti siano stati adottati non “in pendenza del giudizio” ma anteriormente ad esso).
 
Deve, tuttavia, accogliersi il motivo d’appello con il quale la DITTA ALFA SpA censura la gravata sentenza nella parte in cui ha ritenuto dimidiato il termine per la proposizione dei motivi aggiunti e, conseguenzialmente, li ha dichiarati irricevibili.
 
*** conosce il Collegio il precedente della Sezione (Consiglio di Stato, V, 6 luglio 2002 n. 3717), in base al quale <<il Legislatore, confermando la regola sancita dall’art. 19 del d.l. 67/97, ha sancito la dimidiazione dei termini processuali, introducendo tuttavia un’unica espressa, e quanto mai rilevante, eccezione per il solo termine di proposizione del ricorso introduttivo. Tale eccezione non è stata esplicitamente estesa all’istituto dei motivi aggiunti, seppur al medesimo, come accennato, la novella legislativa ha incisivamente riservato una nuova configurazione […] In realtà, dinanzi alla logica acceleratoria che permea l’intero provvedimento legislativo, l’eccezione al dimezzamento dei termini introdotta dalla l. 205/00 va interpretata secondo canoni di rigida tassatività, tanto più che nel caso dei motivi aggiunti non sussiste la necessità di dare seguito a quelle esigenze di tutela del diritto alla difesa in settori nevralgici, finalizzate a concedere al privato cittadino ed al soggetto imprenditoriale il tempo necessario per imbastire ed articolare la propria difesa con l’assistenza ed il patrocinio ritenuti più idonei, atteso che tra l’altro nella specie – come sopra accennato – si può fare a meno di affidare un nuovo mandato>>.
 
Il Collegio è a conoscenza, altresì, dell’esistenza di un indirizzo interpretativo “intermedio”, secondo cui, la valorizzazione dello strumento dei motivi aggiunti quale espressione del principio di concentrazione processuale e di speditezza procedimentale introdotto dall’art. 1 della stessa legge n. 205/2000, non priva lo stesso dei caratteri di autonomia, con la conseguenza che, ove con i motivi aggiunti sia censurato un nuovo e distinto provvedimento rispetto a quelli originariamente impugnati, non v’è ragione (ricorrendo la eadem ratio) per sottrarre tale impugnazione al medesimo regime della proposizione del ricorso originario, il cui termine è rimasto fissato, anche nel rito abbreviato di cui all’art. 23 bis, in sessanta giorni dalla data della avvenuta conoscenza (Cons. Stato, Sez. VI, 1.10.2003, n. 5707).
 
Si ritiene, tuttavia, di doversi discostare dai richiamati indirizzi giurisprudenziali ed affermare – in qualunque ipotesi – la non dimidiazione del termine per la proposizione dei motivi aggiunti).
 
Infatti va in primo luogo messo in rilievo il mutamento del quadro normativo vigente rispetto a quello disegnato dall’art. 19, D.L. 67/97. La normativa del 1997 disponeva infatti la dimidiazione di tutti i termini processuali (significativamente, la precisazione “tutti” fu aggiunta in sede di conversione del D.L. 25 marzo 1997 n. 67, convertito nella l. 23 maggio 1997 n. 71 mentre l’odierna previsione normativa contempla una importante eccezione alla regola del dimezzamento: <<I termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso>>. In questo modo, la nuova formulazione impone di estendere la normativa dettata per il ricorso principale ai motivi aggiunti, considerato che essi, ancorché cronologicamente collocati nel corso di un giudizio già pendente, concernono la definizione della domanda e, quindi, non possono non essere attratti nella disciplina propria del ricorso introduttivo.
 
Anche nei motivi aggiunti sussistono quelle finalità di garanzia e tutela del diritto di difesa che costituiscono la ratio della eccezione medesima: l’esclusione del termine di proposizione del ricorso dal disposto dimezzamento mira ad assicurare alla parte ricorrente l’ordinario spazio temporale per la migliore impostazione della causa, sicché tale esigenza sussiste anche in relazione alla ipotesi in cui la possibilità di dedurre ulteriori vizi sorga dopo la proposizione del ricorso originario, tanto più ove si consideri che la rinnovata configurazione dell’istituto dei motivi aggiunti consente, attraverso gli stessi, di impugnare provvedimenti distinti da quelli gravati con il ricorso introduttivo.
 
In secondo luogo, argomenti testuali depongono nel senso della non dimidiazione del termine per la proposizione del ricorso per motivi aggiunti; invero, l’originario disegno di legge governativo (A.S. 2934, XIII legislatura) prospettava testualmente la riduzione alla metà di tutti i termini processuali, salvo “quello” per la proposizione per il ricorso; nell’iter legislativo parlamentare il sopraindicato pronome è stato trasformato in “quelli”. Da tale modificazione non può non discendere che l’eccezione alla riduzione riguarda tutti i termini di proposizione del ricorso, e quindi anche quelli attinenti al ricorso incidentale ed ai motivi aggiunti.
 
Appare decisiva, inoltre, la considerazione, svolta anche da parte della dottrina, che l’opinione opposta porterebbe al singolare risultato che, essendo lo strumento dei motivi aggiunti, così come delineato nell’art. 21 l.Tar come modificato dall’art.1 l. n. 205/00, puramente facoltativo, nel caso in cui la parte decida di intentare un ricorso autonomo si applicherebbe il termine ordinario, mentre se si avvalesse del rimedio dei motivi aggiunti, quello dimezzato. Potrebbe, dunque, accadere che, decaduto dal ricorso per motivi aggiunti, l’interessato impugni il nuovo atto (ossia eserciti la stessa azione dalla quale è stato dichiarato decaduto) con autonomo ricorso, chiedendo poi la riunione a quello c.d. principale.
 
A tale ricostruzione dei termini per proporre ricorso nel rito ex art. 23 bis non osta il pensiero espresso dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nelle decisioni n. 5/2002 e n. 5/2004, secondo il quale l’eccezione al dimezzamento dei termini va interpretata secondo canoni di rigida tassatività e riguarderebbe, pertanto, (solo) il ricorso principale e quello incidentale, posto che anche il ricorso per motivi aggiunti partecipa della medesima natura dei suddetti ricorsi, è cioè atto di esercizio dell’azione giurisdizionale attraverso la contestazione di un provvedimento.
 
Anzi, alla stregua della ricostruzione logico sistematica della normativa in esame contenuta nell’Adunanza Plenaria n. 5/2002, da cui emerge che <<il Legislatore …ha escluso dal dimezzamento, previsto per tutti i termini, il dimezzamento dei termini <per la proposizione del ricorso>… mentre l’uso del plurale <quelli> appare dovuto al fatto che il Legislatore ha inteso riferirsi anche al ricorso incidentale nel processo di primo grado…>>, deve logicamente inferirsi che anche il termine per la proposizione dei motivi aggiunti, sia in quanto “domanda”, sia in quanto “incidente” del processo, sfugge al principio del termine dimidiato ex art. 23 bis comma 7 l. n. 205/2000.
 
A riprova di ciò si osservi, infine, che qualora dal ricorso per motivi aggiunti scaturisca l’occasione per presentare ricorso incidentale, seguendo la tesi non condivisa dal Collegio, avremmo la irragionevole e discriminante situazione che il ricorrente con motivi aggiunti sarebbe soggetto al termine ridotto di trenta giorni per la notificazione, mentre il controinteressato, ricorrente in via incidentale, fruirebbe del termine di sessanta giorni.
 
Deve pertanto affermarsi che il termine per la proposizione dei motivi aggiunti, nel rito ex art. 23 bis della cd. legge TAR rientra nella eccezione al dimezzamento dei termini previsto dal comma 2 della prefata disposizione (<<I termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso>>).
 
Alla luce delle superiori considerazioni perde rilievo l’eccezione di legittimità costituzionale proposta – in via subordinata – dall’appellante.
 
Deve pertanto giudicarsi ricevibile il ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado dalla DITTA ALFA SpA con conseguente necessità di esaminare le censure avanzate con il predetto atto.
 
5. Carattere assorbente riveste il motivo concernente l’omessa verbalizzazione delle dovute cautele nella custodia delle buste a salvaguardia dell’integrità dei plichi. Merita di essere premesso che nei verbali della commissione non è stata riportata alcuna indicazione circa le cautele predisposte dall’amministrazione appaltante a salvaguardia della integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti.
 
Il Collegio non ignora l’indirizzo giurisprudenziale ai sensi del quale in presenza dell’obbligo di custodia dei documenti di una gara pubblica da parte della stazione appaltante, è da presumere che lo stesso sia stato assolto adottando le normali garanzie di conservazione degli atti amministrativi tali da assicurare la genuinità ed integrità dei plichi, per cui la doglianza secondo la quale le buste contenenti le offerte non sarebbero state adeguatamente custodite è irrilevante allorché non sia stato addotto alcun elemento concreto e specifico atto a far ritenere che possa essersi verificata la sottrazione o la sostituzione dei pieghi, la manomissione delle offerte o un altro fatto rilevante ai fini della regolarità della procedura; tuttavia, si deve premettere che l’obbligo di predisporre cautele a tutela dell’integrità delle buste contenenti le offerte delle imprese partecipanti, in mancanza di apposita previsione da parte del legislatore, discende necessariamente dalla stessa ratio che sorregge e giustifica il ricorso alla gara pubblica per l’individuazione del contraente nei contratti della pubblica amministrazione, in quanto l’integrità dei plichi contenenti le offerte delle imprese partecipanti all’incanto è uno degli elementi sintomatici della segretezza delle offerte e della par condicio di tutti i concorrenti, assicurando il rispetto dei principi – consacrati dall’articolo 97 della Costituzione – di buon andamento ed imparzialità cui deve informarsi l’azione amministrativa. In mancanza di una specifica previsione da parte del legislatore di apposite misure cautelari da adottarsi nel caso di prosieguo delle operazioni di gara, l’individuazione delle doverose cautele deve essere rimessa al prudente apprezzamento dell’amministrazione appaltante.
 
Non può non rilevarsi, tuttavia, che in concreto delle misure cautelari adottate deve essere data menzione nel verbale di gara, proprio al fine di assicurare l’effettivo ed ordinato svolgimento del prosieguo delle operazioni. Nel caso di specie, non è stata fatta menzione dell’adozione di tali misure cautelari, per quanto sia stato genericamente, ed inammissibilmente ai fini che qui interessano, affermato che si è provveduto, senza fornire, tuttavia, alcuna prova (essendo, altresì, priva di rilievo la riserva di richiesta di testimonianza e la dichiarazione della dott.ssa Bartolini richiamata dall’amministrazione appellata).
 
Né vale ad escludere la illegittimità del comportamento tenuto dall’amministrazione la considerazione che non si sarebbe concretamente verificata alcuna manomissione dei plichi contenenti le buste, atteso che la tutela giuridica dell’interesse pubblico al corretto svolgimento delle gare pubbliche, secondo i principi di cui all’articolo 97 della Costituzione, deve essere assicurata in astratto e preventivamente e non può essere considerata soddisfatta sulla base della mera situazione di fatto del mancato verificarsi di eventi dannosi (cfr. Cons. Stato, Sezione Quarta, 18 marzo 2002 n. 1612).
 
6. In ordine alla richiesta di risarcimento del danno (ovvero di reintegrazione in forma specifica), deve essere osservato che la domanda risarcitoria non risulta sostenuta dalle necessarie allegazioni in ordine al danno subito e all’accertamento della responsabilità dell’amministrazione risulta proposta in modo generico e, quindi, va respinta. Sul punto la giurisprudenza prevalente si è andata orientando nel senso dell’attenuazione dell’onere probatorio del privato.
 
In particolare, sotto il profilo della colpa, si è affermato (Consiglio di Stato, Sez. V, decisione 10 gennaio 2005 n. 32) che il privato danneggiato, ai fini di ottenere il risarcimento dei danni derivanti da lesione di interessi legittimi, ancorchè onerato della dimostrazione della "colpa" dell’amministrazione, risulta agevolato dalla possibilità di offrire al giudice elementi indiziari – acquisibili, sia pure con i connotati normativamente previsti, con maggior facilità delle prove dirette – quali la gravità della violazione, qui valorizzata quale presunzione semplice di colpa e non come criterio di valutazione assoluto, il carattere vincolato dell’azione amministrativa giudicata, l’univocità della normativa di riferimento ed il proprio apporto partecipativo al procedimento. Così che, acquisiti gli indici rivelatori della colpa, spetta poi all’amministrazione l’allegazione degli elementi, pure indiziari, ascrivibili allo schema dell’errore scusabile e, in definitiva, al giudice, così come, in sostanza, voluto dalla Cassazione con la sentenza n. 500/99, apprezzarne e valutarne liberamente l’idoneità ad attestare o ad escludere la colpevolezza dell’amministrazione.
 
Tale attenuazione dell’onere probatorio non esclude tuttavia la necessità che le pretese risarcitorie presuppongano l’indicazione degli elementi che possano indurre il giudice a valutare in termini di responsabilità la condotta della pubblica amministrazione. Allegazione che nel caso di specie non è dato riscontrare con conseguente impossibilità, allo stato, di accoglimento della domanda risarcitoria.
 
Assorbito quant’altro, il ricorso va pertanto accolto nei termini di cui sopra, con conseguente accoglimento del ricorso di primo grado quanto ai motivi aggiunti.
 
Si ravvisano giusti motivi per compensare le spese di giudizio.
 
P.Q.M.
 
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione V, accoglie l’appello e, in riforma della sentenza di primo grado, accoglie nei termini di cui in motivazione il ricorso di primo grado.
 
Compensa le spese di giudizio.
 
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.
 
Così deciso in Roma, palazzo Spada, sede del Consiglio di Stato, nella camera di consiglio del 1 aprile 2005, con l’intervento dei sigg.ri
 
*****************          Presidente
 
******************          Consigliere
 
*********          Consigliere
 
********************       Consigliere
 
*****************           Consigliere Est.
 
 
L’ESTENSORE    IL PRESIDENTE
 
f.to *****************    f.to *****************
 
 
IL SEGRETARIO
 
f.to ***************
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
 
Il 6 marzo 2006
 
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
 
 
IL DIRIGENTE
 
f.to **************
 
 N°. RIC. 5723/2004. 
 
 
 
FDG
 

Lazzini Sonia

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