L’infanzia nel terzo millennio: le contraddizioni della società moderna

Redazione 27/08/03
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di D. Stanzani e V. Stendardo

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In questi ultimi anni fortemente caratterizzati da guerre fratricide, conflitti etnici, nuove violenze legate anche allo sviluppo repentino delle tecnologie, torna alla ribalta prepotentemente la necessità di definire ancora e di difendere i diritti umani fondamentali. In passato gli abomini, i massacri, gli assassinii e le relative impunità dei carnefici erano legate a forme di dominio e quindi di sottomissione ben identificabili in situazioni, luoghi e nomi. Oggi è spesso difficile stabilire responsabilità, individuare i protagonisti del bene e del male. Lo scenario internazionale appare come un alveolo impazzito, sono cadute le certezze e ciò che prima poteva apparire chiaro ora è rivestito di un’ombra scura; molti aspetti della realtà sono pervasi da ambiguità, doppi sensi, interessi, soprattutto economici, vertiginosi. Di fronte a tutto questo, la vita dell’individuo acquista un nuovo peso. Si discute allora di globalizzazione sociale, politica, economica, ma la globalizzazione non è qualcosa che prescinde l’individuo, non esiste indipendentemente da questi, anzi ha come attore focale proprio l’individuo nella sua totalità, nella sua interezza, nella sua dignità di essere umano. Si torna a parlare quindi di diritti umani e se ne parla ovunque: nelle organizzazioni internazionali come l’ONU, nei parlamenti statali, nei mass-media: se ne sottolinea l’importanza e si mettono in evidenza le violazioni di questo o quel diritto, si denunciano i governi che palesemente e grossolanamente non riconoscono neanche i diritti più elementari e si cerca di creare reti di aiuto, ma anche queste sovente non sono sufficienti perché le problematiche sottese agli avvenimenti macro e micro sociali sono sempre più complesse. Purtroppo in tutti i conflitti, di qualsiasi natura essi siano, sono sempre le parti più deboli a dover pagare il prezzo maggiore e nello specifico: donne, anziani e bambini. Ed è proprio dei bambini che si intende ora parlare, o meglio dei fanciulli, come li definisce la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia. L’articolo n.1 afferma : “Ai sensi della presente Convenzione si intende per fanciullo ogni essere umano avente un’età inferiore a diciott’anni, salvo se abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile”.
Ma chi è veramente il fanciullo? Da un punto di vista antropologico si intende l’arco di tempo della vita di un individuo che va dalla nascita biologica al raggiungimento di una certa indipendenza. Chiaramente quest’ultima cambia a seconda delle culture e “l’uso di un criterio prettamente cronologico (per definirlo) escluderebbe la possibilità di comprendere le differenze individuali e culturali dello sviluppo” (U. Fabietti, 2001). Si può affermare, quindi, che l’infanzia coincide con il momento dell’apprendimento.
In occidente, a partire dall’età classica, si sono utilizzati numerosi termini per definire il bambino: pais e puer, il primo di etimo greco da cui deriverebbero i termini ‘pediatria’ (branca della medicina che studia le malattie del bambino) o ‘pederastia’ (omosessualità specifica verso i fanciulli), il secondo latino, da cui deriverebbe l’espressione ‘puerile’. “Si è sostenuto talvolta che puer derivasse da puri, indicando purezza, ma per i romani la purezza non era l’innocenza sessuale, bensì la mancanza di peluria sulle guance” (H. Cunningham, 1997). Ancora infante, dal latino infans, letteralmente ‘privo di parola’, e bambo che, nel volgare del XIII secolo, oltre che bambino voleva indicare ‘sciocco’. Evidente, comunque, che nessuna di queste definizioni aveva un significato univoco; ciò derivava probabilmente da una difficile collocazione del fanciullo nell’ambito della società, società fatta, regolata e gestita a misura di adulto.
Che la categoria di bambino non fosse definita è testimoniato anche dalla assimilazione del concetto di fanciullo agli animali, a figure umili della società e alle stagioni. “Bambino, essere incerto, perché impreciso, inquietante nei suoi silenzi di sé, stimolante a dirne e trattarne in modi assai eterogenei […] Bimbi perfetti perché sovrumani o perfettibili se ben educati dopo aver studiato la loro indole si alternano a bimbi cattivi, gelosi, bugiardi, ingordi o comunque a rischio perché continuamente insidiati dal demonio” (E. Becchi, 1994). Molti studiosi si interessavano di bambini, ma lo facevano in modo particolare estraniando questi piccoli individui dalla loro realtà concreta e contingente per portarli “in utopie solo accennate o molto elaborate” (E. Becchi, 1994). Molti bambini e molte infanzie. E le bambine? Piccole donne, educate da donne per essere donne. Cura, obbedienza e fedeltà.
Ai bambini in quanto tali, autonomi e dipendenti dal mondo degli adulti, si comincia a pensare solo in tempi molto recenti e la preoccupazione riguarda soprattutto l’impegno nell’ambito del lavoro. Fino all’inizio dell’era moderna, il bambino era considerato proprietà dei propri genitori o del padre. Erano i genitori a decidere in merito alla sua vita, alla sua formazione e all’impiego della sua forza lavoro; il bambino doveva solo obbedire. Le Rivoluzioni in America (1776) e in Francia (1789) avevano portato alla ribalta la questione dei diritti umani e ciò, a sua volta, aveva indotto a riflettere sulla condizione dell’infanzia. Dopo la Rivoluzione Industriale in Inghilterra, con l’English Factories Act del 1834, era stato vietato il lavoro in fabbrica ai bambini sotto i 9 anni e si obbligava i datori di lavoro a mandare i bambini a scuola per due ore al giorno. Nel 1842, la promulgazione del Mines Act limitava l’impiego di fanciulli nel lavoro in miniera. Nel 1874 con un provvedimento, la Francia elevava a 12 anni l’età minima per essere assunti in fabbrica, in cantiere e nelle miniere e si prevedeva il controllo da parte di ispettori. Nel 1896, nel Codice Civile tedesco fu introdotta una normativa che rendeva punibile il maltrattamento o l’abbandono dei bambini da parte dei genitori. Nel 1899, negli Stati Uniti venivano istituiti i primi tribunali minorili; fino ad allora, infatti, i fanciulli in tribunale erano giudicati come gli adulti.
La prima legge italiana sulla regolamentazione del lavoro minorile è del 1886, esattamente la n.3657 dell’11 febbraio 1986 (E. Becchi, 1994), ma è meno incisiva rispetto a quelle su citate, in quanto non prende in considerazione i numerosi mestieri diffusi tra la popolazione e non parla di obbligo scolastico. L’articolo 1 di tale legge affermava: ” E’ vietato di ammettere a lavoro, negli opifici industriali, nelle cave e nelle miniere i fanciulli dell’uno e dell’altro sesso, se non hanno compiuto l’età di 9 anni, o quella di 10 se si tratta di lavori sotterranei. I fanciulli maggiori di 9 anni e minori di 15, non potranno essere ammessi a lavoro negli opifici industriali, nelle cave e nelle miniere, se non quando risultino da certificati di medici all’uopo delegati da ciascun consiglio circondariale di sanità, che siano sani ed adatti al lavoro cui vengono destinati”. Solo con la legge n. 242 del 19 giugno 1902 il limite di assunzione nelle fabbriche sarà elevato a 12 anni e si richiederà il compimento del corso elementare inferiore per i piccoli operai; per i lavori pesanti l’età minima è di 15 anni. La legge n.1325 del 29 novembre 1961 nell’articolo 2 precisa che il livello minimo per i lavoro è di 13 anni per i lavori detti leggeri e che non pregiudichino l’assiduità della scuola. Nel 1971 (DPR del 4 gennaio 1971, n.36) l’età è fissata a 14 anni, mentre il DPR del 20 gennaio 1976 n.423, fissa a 16 anni per i maschi e a 18 per le femmine il livello di età minima per essere abilitati a lavori pericolosi, faticosi e insalubri (E. Becchi, 1994)
Nel 1923 Eglantyne Jebb, fondatrice di Save the Children, ancora oggi una delle più importanti organizzazioni non governative che si occupano di fanciulli e adolescenti, redige la prima Dichiarazione sui Diritti dell’Infanzia. Questa dichiarazione consta di cinque punti che sanciscono i diritti base ed elementari del bambino (www.leader-values.com):

1) The child must be given the means requisite for its normal development, both materially and spiritually.
2) The child that is hungry must be fed, the child that is sick must be helped, the child that is backward must be helped, the delinquent child must be sheltered and soccoured.
3) The child must be the first to receive relief in times of distress.
4) The child must be put in a position to earn a levelihood, and must be protected against every form of exploitation.
5) The child must be brought up in the consciusness that its talents must be devoted to the service of its fellow man.

Nel 1924 la Lega delle Nazioni adotta la dichiarazione della Jebb e viene così promulgata la Dichiarazione di Ginevra sui Diritti del Fanciullo. Il 20 novembre 1959 è adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite la Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo, che enuncia dieci principi fondamentali ma che, in quanto dichiarazione, non è legalmente vincolante. Il 20 novembre 1989 tale dichiarazione viene rivista e ampliata e il 2 settembre del 1990, raggiunte le 20 ratifiche necessarie, entra in vigore a livello internazionale. La Dichiarazione è riconosciuta, come si afferma nell’ottavo punto della Convenzione dei diritti del Fanciullo, nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, nel Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici in particolare negli artt. 23 e 24, nel Patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali in particolare nell’art. 10 e negli Statuti e strumenti pertinenti delle Istituzioni specializzate e delle Organizzazioni internazionali che si preoccupano del benessere del fanciullo.
Il Primo Principio della Dichiarazione afferma:” Il fanciullo deve godere di tutti i diritti enunciati nella presente Dichiarazione. Questi diritti debbono essere riconosciti a tutti i fanciulli senza eccezione alcuna o senza distinzioni e discriminazioni fondate sulla razza, il colore, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche o di altro genere, l’origine nazionale o sociale, le condizioni economiche, la nascita o ogni altra condizione che si riferisca al fanciullo stesso o alla sua famiglia” (www.unicef.it/convenzione).
Ovviamente, le condizioni dei fanciulli nel mondo sono molto diverse e non solo tra paesi e paesi e tra culture e culture, ma anche all’interno di uno stesso paese avente una medesima cultura di riferimento. Abbiamo già sottolineato come sia sempre la parte più inerme della popolazione a dover subire situazioni di degrado; la condizione dei bambini e la loro esistenza è strettamente legata alla situazione economica ancor prima che l’estrazione sociale.
Dando un’occhiata anche solo superficiale alla situazione mondiale ci rendiamo conto come ovunque ci siano grosse sacche di povertà e questo non solo in alcuni paesi africani o dell’America Latina, ma anche nel ricco e opulento occidente. “In ogni società del passato e anche del presente, le principali risorse sociali, materiali o simboliche che siano, appaiono distribuite in modo diseguale tra i suoi membri. Si tratti di reddito o di istruzione, di proprietà terriera o di potere politico, di prestigio personale o di influenza intellettuale, si osserva in ogni caso, pur con rilevanti variazioni da una società all’altra, che una quota della popolazione possiede quella certa risorsa in misura superiore o inferiore rispetto ad altre quote della stessa popolazione”(L. Gallino, 2001). Là dove c’è povertà, c’è sfruttamento minorile. Dove c’è sfruttamento minorile non può esserci un sano sviluppo psichico, spirituale e morale. Ora l’art. n. 19 della Dichiarazione dei diritti del Fanciullo afferma: “Gli Stati parti adotteranno ogni misura appropriata di natura legislativa, amministrativa, sociale ed educativa per proteggere il fanciullo contro qualsiasi forma di violenza, danno o brutalità fisica o mentale, abbandono o negligenza, maltrattamento o sfruttamento, inclusa la violenza sessuale, mentre è sotto la tutela dei suoi genitori o di uno di essi, del tutore o dei tutori o di chiunque altro se ne prenda cura. Mentre l’articolo n. 27 dice: ” 1- Gli Stati parti riconoscono il diritto di ogni fanciullo ad un livello di vita sufficiente per consentire il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale. 2 – Spetta ai genitori o ad altre persone che hanno l’affidamento del fanciullo la responsabilità fondamentale di assicurare, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro mezzi finanziari, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo”.
Commercio, agricoltura, piantagioni, cave, miniere, vetrerie, fornaci, discariche, industrie, lavoro domestico, narcotraffico, prostituzione, pornografia, reclutamento militare. Questa è la realtà di vita di moltissimi fanciulli, questo è lo scenario sul fondo del quale si muovono le loro vite spezzate, questa è la loro cultura di riferimento.
Tantissimi sono gli esempi che si possono addurre per dimostrare quanto gli articoli che sanciscono i diritti dei bambini siano smentiti dal vivere la vita quotidiana di molti piccoli individui indigenti, come non vengano tenuti minimamente in considerazione, cose se la condizione dei fanciulli sia rimasta prigioniera di una cristallizzazione del tempo. Le contraddizioni della società moderna sono molte, ma per i bambini è come se esistessero tanti mondi paralleli, ognuno chiuso dentro sfere trasparenti: si può vedere ciò che c’è oltre il proprio spazio di vita, ma per moltissimi bambini non è possibile varcare la soglia, non è possibile giungere neanche attraverso una rinascita simbolica ad una vita migliore, diversa, normale, perché quella che loro vivono è la loro normalità.
Perché si sfruttano i bambini? Dove c’è povertà si avverte con più insistenza la necessità di sopravvivere. Da una parte, quindi, si cerca di sfruttare la forza lavoro dei fanciulli, dall’altra essi diventano vera e propria merce di scambio. Essendo merce, vendibile, acquistabile o comunque sempre scambiabile è chiaro che sottosta alla legge di mercato. Nel mercato se c’è una domanda (in questo caso la domanda di bambini) prima o poi corrisponderà un’offerta, e tutto ciò è aberrante quando ci si trova ad osservare lo sfruttamento dei minori. L’esempio più chiaro viene dalla prostituzione. Prendiamo in considerazione la Thailandia, tristemente famosa per il turismo sessuale minorile. Accade sempre più spesso che personaggi definiti sensali attraversino le campagne promettendo lavori sicuri in occidente e aiuto alle famiglie in difficoltà. I contratti si chiudono con una facilità estrema, ma il denaro che, ad esempio, viene dato in prestito raggiunge subito, per via di interessi estremamente elevati, cifre impossibili da estinguere in poco tempo. Allora avviene che vengano dati in prestito i bambini. I bambini vengono violentati e brutalizzati e poi messi sulla strada: molte sono le testimonianze che parlano anche di più di quindici clienti per notte. Essenzialmente i bambini rimangono intrappolati nella schiavitù per debito. Generalmente le bambine vengono vendute. Ma il bambino può diventare anche un altro tipo di merce, alla stregua di una manufatto in legno o di un prodotto seriale in plastica: è questo il caso relativo al commercio di organi umani.
Fino a poco tempo fa queste erano solo leggende metropolitane, si parlava in occidente di rapimenti di bambini ad opera di individui collocati ai margini della società, come gli zingari, che sottraevano i piccoli ai loro cari in luoghi affollatissimi come i mercati e i supermercati. I bambini ritornavano poi magari senza qualche organo, come occhi o cornee, ma salvi. “Il luogo deputato al rapimento, la scomparsa del bambino, le uscite bloccate, la sostituzione dei vestiti, il taglio dei capelli e il ritrovamento del rapito sono gli elementi caratteristici di una storia che circola con particolare vigore in tutto il mondo” (C. Bermani, 1991). Negli anni ’30 era la leggenda della tratta delle bianche ad essere molto nota, ma nelle leggende metropolitane il rapimento del bambino era sempre sventato e l’interpretazione che si dava a questo fatto era strettamente legato ai riti di iniziazione che “secondo lo schema evoluzionistico di Propp è la fase della comunità primitiva: i bambini venivano prelevati da uomini mascherati e trasportati nella foresta per essere coinvolti in cerimonie ad essi ignote e tanto più fonte di paura”(L.Bonato, 1998).
I bambini vengono comprati, venduti, utilizzati come banche-organi. Ma qui non siamo nel mezzo di una paurosa e suggestiva trama di leggende metropolitane, qui i bambini non vengono rapiti per essere iniziati a qualcosa, qui i bambini vengono rapiti per essere finiti. Devastati completamente non solo nello spirito e nella mente, ma anche nell’unica risorsa che essi possiedono: il corpo. Vengono deprivati anche di questo e, alla fine, di loro e in loro non rimane più niente di umano. Da una parte c’è il progresso medico-tecnico-scientifico che riguarda i trapianti, dall’altra, casi di mutilazione e soppressione. Fin dal 1986 circolavano notizie a riguardo, ma l’inverosimiglianza delle testimonianze addotte conduceva ad atteggiamenti scettici e soprattutto ad incredulità. È da sottolineare a riguardo come neanche l’UNICEF inizialmente avesse creduto ad un commercio di questo genere e che solo in un secondo momento, persuaso da testimonianze anche filmate, ha istituito un ufficio apposito.
Agghiacciante è stato lo scandalo della clinica psichiatrica di Montes de Oca in Argentina, dove si è scoperto che venivano prelevati organi su pazienti con disagi mentali, tra cui adolescenti e fanciulli. La pratica più corrente era l’estrazione delle cornee, ma la riesumazione di alcuni cadaveri ha attestato anche l’espianto di reni. Casi analoghi si sono avuti anche in Colombia, presso la facoltà di Medicina di Baranquilla e a Bogotà. Eppure il 4 Principio direttivo pubblicato nel 1991 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità enuncia una interdizione assoluta (con la sola eventuale eccezione relativa a tessuti rigenerabili) al prelievo “su un minore vivente di alcun organo a fini di trapianto”; e il 5 Principio vieta la commercializzazione degli organi e ogni contropartita in denaro.
I modi poi in cui questo traffico di organi a danno dei bambini si svolge, viola numerosi articoli della Convenzione Internazionale dei Diritti del Fanciullo l’art. n 6 (diritto alla vita), l’art.n. 11 (contro gli illeciti trasferimenti all’estero), l’art. n. 19 (contro la violenza e la brutalità), il 23 (tutela del disabile),il 24 (diritto alla salute),il 32 e il 36 (contro lo sfruttamento)e il 37 (contro la tortura e i trattamenti crudeli), (Tribunale Permanente dei Popoli, 1995).
C’è sempre una grande distanza tra teoria e prassi, tra ciò che è scritto e ciò che è vissuto. Si è già sottolineato come la Convenzione sui Diritti del Fanciullo abbia applicazione internazionale, ma la Convenzione convive, confligge e molto spesso soggiace a leggi varie, presenti nei diversi stati nazionali. Ancora per fare un esempio, prendiamo l’articolo 6 della Dichiarazione dei Diritti del Fanciullo: “1) Gli stati parti riconoscano che ogni fanciullo ha un diritto innato alla vita. 2) Gli stati parti si impegnano a garantire nella più ampia misura possibile la sopravvivenza e lo sviluppo possibile”. In Cina però questo principio si scontra con una legge del 1979 “Legge eugenetica e protezione della salute” che proibisce ai cinesi di avere più di un figlio in famiglia e che dà la precedenza ai maschi. Le bambine non vengono neanche registrate all’anagrafe, ma paradossalmente questa è già una fortuna in quanto molte di loro non verranno proprio alla luce, saranno uccise nel grembo materno (S. Pende, 2001).
Anche in India ci sono casi simili e così in Africa. Più che una problema, le bambine sono un peso, non sono abbastanza forti per lavorare nei campi, non possono essere impiegate in lavori pesanti e poi un eventuale loro matrimonio significherebbe anche la necessità di trovare una dote da portare alla famiglia e al futuro marito. Atteggiamenti simili si ritrovano anche in popolazioni che vivono ai margini della società cosiddetta moderna, ma con significati culturali profondamente diversi. In modo particolare presso i gruppi non stanziali, come i boscimani o i gruppi artici, il controllo delle nascite è fortemente motivato dal tipo di vita condotto, vivendo di caccia e di pesca le donne non possono, pena proprio la sopravvivenza, mettere al mondo nuovi figli, finché quelli che hanno non sono diventati autosufficienti. In questo caso si tratta di preservare la discendenza. “L’infanticidio ossia la soppressione diretta (per soffocamento, disidratazione, esposizione alle intemperie) o indiretta (mancanza di cure) o in fase prenatale (aborto) di bambini e bambine appena nati è una pratica a cui ricorrono molti gruppi per controllare la frequenza e il numero delle nascite in rapporto sia all’equilibrio tra l’energia impiegata da una madre nella crescita del neonato e quella spesa per le attività di produzione domestica, sia ai beni, ai limiti del potenziale produttivo del gruppo domestico e alle risorse ambientali disponibili” (U. Fabietti, 2001). Tuttavia, il diritto alla vita è universale ed è sancito dalla Dichiarazione dei Diritti Umani. L’articolo n. 3, infatti, afferma: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”. I significati culturali dati “al controllo delle nascite” possono anche essere i più diversi, ma l’esistenza dell’individuo è comunque sacra e l’inalienabilità della sua persona è imprescinbile in tutte le culture, in tutti i gruppi umani, in ogni tempo.
Molti sono gli esempi, come abbiamo già detto, che si possono fare per mostrare quante infanzie infelici e negate ci siano nel mondo. I bambini sono soggetti a fame, carestie, malattie, guerre, violenze. La storia dell’infanzia non è una storia felice o facile, basti pensare ai bambini malati. Oggi molti fanciulli muoiono per malattie congenite, malattie che hanno nel genoma; alcuni di loro, i più fortunati, quelli che vivono in società opulente che cercano di proteggere i loro discendenti, società che hanno a disposizione i ritrovati più moderni della medicina, riescono a sopravvivere. Ma per chi, invece, vive ai margini di quelle società non c’è futuro. Le malattie contratte sui posti di lavoro sono terribili e mortali e si vanno poi ad aggiungere alle consunzioni prodotte dagli orari massacranti di lavoro. E questo non differisce molto dalla vita dei bambini nei secoli scorsi, ad esempio in occidente. Bambini malati, deboli e con poca salute hanno da sempre attraversato la storia, ma la pediatria antica individuava in modo preciso (in occidente) solo poche malattie e solo nel ‘700 e ‘800 definiva in modo dettagliato alcune di esse: rachitismo, difterite, meningite, scarlattina, scrofola e accanto a queste quelle ancora più terribili quali tubercolosi, vaiolo, tifo. Quasi tutte dovute a denutrizione e carenza di igiene. Per quanto riguarda poi altre malattie si individuavano solo i sintomi più vistosi: convulsioni, fortissima debolezza, consunzioni. Ma nella cultura occidentale molto spesso le malattie erano lette come segni del destino o meglio come la volontà compiuta di Dio.
Accanto a queste c’erano poi le deformità fisiche e le insanità mentali. Anche la nascita di un bambino handicappato era interpretato come un segno di Dio, il Dio che doveva punire chi aveva commesso peccato o al contrario il bambino deforme era figlio dell’unione della donna con il diavolo. Non c’era ovviamente futuro per i bambini diversi, spessissimo venivano abbandonati e se le loro particolarità fisiche erano molto accentuate venivano esposti al pubblico o in strada o di più nei circhi itineranti come grandi attrazioni. In questo modo si distruggeva per sempre la dignità del bambino.
Anche oggi spesso la malattia deforma e offende la dignità del bambino, costretto a rinnegare la sua infanzia, esposto alla mercé di chiunque voglia abusare di lui. Ma gli abomini cui sono soggetti i fanciulli non sempre sono così evidenti; c’è violenza anche nella vita quotidiana di tante famiglie normali. Basti pensare che la più alta percentuale di casi di pedofilia avviene proprio tra le mura domestiche. I bambini non vengono violentati solo fisicamente ma anche mentalmente: spesso sono soggetti a maltrattamenti verbali continui, a deprivazioni forti e spessissimo alla solitudine. Molti piccoli muoiono per incuria dei genitori o dei loro tutori, perché giocano in strada lasciati completamente a loro stessi, oppure annegano, cadono nei pozzi lasciati incustoditi, smarriscono la strada e non riescono a tornare a casa.
Fortunatamente, non tutte le infanzie sono così, esistono ovunque “luoghi elettivi per far crescere l’infanzia, spazi protetti e di controllo, dove il bambino non solo trova sostegno alla crescita e soddisfazione dei suoi bisogni fisiologici e psichici, ma anche governo delle sue condotte, selezione degli atti funzionali alla sua integrazione sociale, modelli tutto sommato univoci da introiettare per svilupparsi secondo paradigmi propri della collettività entro cui è nato” (E.Becchi, 1994). Sono i luoghi sorti proprio per i bambini, per la loro vita infantile e sono i luoghi della socializzazione primaria, la famiglia, la scuola, la religione. Sono luoghi dove predomina la cultura della convivenza, della conoscenza, dell’apprendimento in genere. Ma c’è anche lo spazio aperto, lo spazio dell’incontro, la strada e i non-luoghi che sono oggi prescelti dagli adulti per vivere la loro individualità socializzata. Nel tempo sociale della giornata, il bambino vive e apprende i rituali della propria cultura, i simboli di riferimento; impara ad apprendere i comportamenti nei rapporti tra spazi diversi e fa esperienza delle categorie altre rispetto a quelle familiari. Convive con una realtà più grande che è quella degli adulti e c’è un’inculturazione continua, “fondata sull’interazione sociale, sull’imitazione e sull’inferenza. Il processo di essere incorporati all’interno di una cultura specifica e di imparare le sue norme e i suoi modelli continua per tutta la vita, accompagnando i cambiamenti di ruolo e status” (U. Fabietti, 2001). Per questo motivo bisogna prendersi cura ed educare all’uguaglianza e alla conoscenza i bambini di oggi. Bisogna intervenire in maniera più incisiva là dove vengono violati anche i più elementari diritti umani. Il bambino di una donna Maya è il bambino di tutta la comunità è un antico detto del Guatemala e sta ad indicare come la nascita di un bambino non è solo un fatto meramente privato, ma anche della comunità tutta che riconoscendo il valore di una nuova vita se ne prende cura già dal momento della nascita, che diventa una rinascita rituale collettiva.
La vita quotidiana è lo scenario pedagogico in cui si agitano i vari attori, è fondamentale quindi prendersi cura oggi dei fanciulli, indipendentemente dalla cultura di riferimento per avere dei futuri adulti capaci a loro volta di capire, interpretare e sollecitare le potenzialità dei bambini. Solo una cultura dell’uguaglianza e della conoscenza può garantire il miglioramento della vita. Si riparte dall’individuo quindi e dalla società per renderla meno ambigua, meno paradossale, meno disumana.

D. Stanzani
V. Stendardo

BIBLIOGRAFIA
Bales K., I nuovi schiavi, Feltrinelli Ed, 2000.
Becchi E., I bambini nella storia, Laterza Ed, 1994.
Bermani C., Il bambino è servito, Dedalo Ed, 1991.
Bonato L.,Trapianti, sesso, angosce. Leggende metropolitane in Italia, Meltemi Ed,1998.
Cassese S., I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza Ed, 1988.
Cunningham H., Storia dell’infanzia XVI – XX secolo, Il Mulino, Ed, 1997.
Fabietti U., Remotti F., Dizionario di antropologia, Zanichelli, Ed, 2001.
Gallino L., Globalizzazione e disuguaglianze, Laterza, Ed, 2001
Gruppo Abele, Violazione dei diritti dei bambini: un metodo di approccio, Gruppo Abele ed., 1995.
www.mondadori.com/panorama: Infanzia violata, S. Pende, 30 marzo 2001.
www.rai.it/società/inchieste: L’Italia dell’infanzia negata, a cura di A. Solario
www.unicef-suisse.ch: Diritti dell’infanzia a cura del Comitato svizzero per l’Unicef
www.unicef.it/convenzione: convenzione sui diritti del fanciullo.
http://boes.org/un/itaun-b.html: convenzione sui diritti del fanciullo.
www.leader-values.com: Eglantyne Jebb.
http://www.comune.macerata.it/pubblica/uffici/sentei.htm: La violazione dei diritti fondamentali dell’infanzia e dei minori”, sentenza del Tribunale Permanente dei Popoli, 1995.

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