L’incidenza dei disturbi della personalità sulla capacità di intendere e di volere dell’imputato

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“La ricognizione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente dipende non già dal mero accertamento dell’infermità ma dall’apprezzamento della sua incidenza sulla capacità di intendere e di volere dell’agente al momento della commissione del reato, ossia dalla sua ripercussione sullo stato mentale del medesimo nell’attualità della realizzazione della condotta illecita, evidenziando così il nesso eziologico tra la prima e quest’ultima”.

Riferimento normativo: articoli 88 e 89 cod. pen.

Le Sezioni Unite, per la prima volta, con la sentenza n. 9163 del 2005[1], hanno riconosciuto ai disturbi gravi di personalità[2], la natura di infermità giuridicamente rilevante[3] perché incidenti sul funzionamento dei meccanismi intellettivi e volitivi del soggetto, statuendo che: “anche i disturbi della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, possono costituire causa idonea ad escludere o grandemente scemare, in via autonoma e specifica, la capacità di intendere e di volere del soggetto agente ai fini degli artt., 88 e 89 sempre che siano di consistenza, intensità, rilevanza e gravità tali da concretamente incidere sulla stessa[4].

Per la prima volta, dunque, si riconosceva la validità delle neuroscienze ai fini dell’accertamento dell’imputabilità. Una conclusione che ha rappresentato un punto di svolta per la determinazione della portata del vizio di mente.

Negli anni a seguire, la Cassazione ha ribadito che i disturbi della personalità possono rilevare ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, purché siano di gravità tali da incidere sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente[5], e a condizione che sussista un nesso eziologico con la specifica condotta criminosa, per effetto del quale il fatto di reato sia ritenuto causalmente determinato dal disturbo mentale[6]. Tuttavia, nonostante l’uniformità di indirizzo della dottrina e della giurisprudenza, a seguito delle pronunce citate, resta aperta la questione della valutazione dell’incidenza del disturbo sulla capacità di intendere e di volere del soggetto agente.

La vicenda processuale

Nel caso all’esame della Suprema Corte, i giudici di seconde cure avevano confermato la condanna di primo grado, per la ricorrente, per il reato di atti persecutori, aggravato ai sensi della L. n. 38 del 2009[7]. Nell’interesse della predetta imputata, il difensore di fiducia proponeva ricorso per cassazione, rilevando che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente escluso la rilevanza del disturbo di personalità[8] della donna perché ritenuto non idoneo ad influire sulla capacità di intendere e di volere rigettando, di conseguenza, la richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale così da disporre una perizia.

Con il primo motivo, deduce vizi di motivazione riguardo la ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 8, terzo comma, della L. n. 38 del 2009, in particolare la difesa della ricorrente lamenta la violazione delle regole di valutazione della prova in riferimento all’attribuzione delle telefonate anonime ricevute dall’uomo dopo l’ammonimento disposto dal Questore. A parere della Cassazione, invece, la Corte d’Appello, ha correttamente applicato il secondo comma dell’art. 192 cod. proc. pen., e, pertanto, nessuna rilevanza è stata data ad elementi di natura solo indiziaria e ciò perchè non gravi, precisi e concordanti, tali, cioè, da consentire di ricostruire il fatto in maniera univoca. L’imputata, dopo aver ricevuto l’ammonimento da parte del Questore, ha cambiato “nella forma di manifestazione” le persecuzione telefoniche.

Con il secondo motivo, la ricorrente, denuncia l’erronea applicazione della legge penale in riferimento alla ritenuta configurabilità dell’aggravante considerato che, come previsto dall’art. 8 comma primo, ci si può avvalere della procedura di ammonimento solo fino al momento in cui la vittima degli atti persecutori non abbia proposto querela mentre nel caso de quo, questa sarebbe stata presentata prima dell’avvio della procedura. Il motivo è stato ritenuto inammissibile perchè solleva una questione “non già devoluta al giudice d’appello con il gravame di merito”, nel quale la ricorrente aveva evidenziato l’insussistenza dell’aggravante ma dal lato del difetto della prova della consumazione degli atti persecutori dopo l’avvenuta comunicazione dell’ammonimento.

Con il terzo motivo, vengono dedotti vizi di motivazione per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche di cui all’art. 62 cod. pen., n. 5 : in particolare, si lamenta che i giudici non abbiano tenuto conto del comportamento provocatorio e manipolatorio della vittima che ha approfittato della conclamata fragilità psichica della donna. La Corte ha ritenuto il motivo inammissibile. In riferimento alla configurabilità dell’attenuante del concorso doloso della persona offesa, la ricorrente solleva una richiesta di valutazione delle prove che non può ammettersi in un giudizio di legittimità. Neppure può ravvisarsi un vizio di travisamento per non aver preso in considerazione alcune risultanze processuali avanzate dalla difesa. Il ricorso si limita ad estrapolare stralci di conversazioni intercorse tra autore e vittima, il cui significato è tutt’altro che  inequivoco e che, in ogni caso, non possono essere prese in considerazione laddove si consideri che non sono state riportate nella loro integralità. Ulteriori vizi di motivazione sono stati sollevati con riferimento al rigetto della richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, così da predisporre la perizia sulla capacità di intendere e di volere dell’imputata. La difesa evidenzia come la Corte d’Appello abbia, inizialmente, riconosciuto il disturbo di personalità in capo alla ricorrente per poi declassarlo a semplice anomalia caratteriale e dichiararne l’inidoneità ad influire sulla capacità dell’imputata. Quest’ultimo motivo ha ricevuto accoglimento. La Cassazione ricorda che le ipotesi contemplate dagli artt., 88 e 89 cod. pen., presuppongono l’accertamento di una infermità, fisica o psichica, in grado di incidere sullo stato mentale dell’agente tanto da escludere o far grandemente scemare la sua capacità di intendere e di volere:“ la ricognizione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente dipende non già dal mero accertamento dell’infermità, ma dall’apprezzamento della sua incidenza sulla capacità di intendere e di volere dell’agente al momento della commissione del reato, ossia dalla sua ripercussione sullo stato mentale del medesimo nell’attualità della realizzazione della condotta illecita, evidenziando così il nesso eziologico tra la prima e quest’ultima”. Ciò che i citati articoli richiedono di accertare è se il rimprovero mosso per quello specifico fatto – nel caso de quo gli atti persecutori – trovi “la sua genesi e la sua motivazione nel disturbo mentale (anche per la sua, eventuale, possibile incidenza solo “settoriale”), che in tal guisa assurge ad elemento condizionante della condotta”. Secondo la costante giurisprudenza che si è originata dalla sopra citata sentenza Raso, n. 9163/2005, solo il giudice è tenuto ad avvalersi delle conoscenze tecnico-scientifiche opportune al fine di accertare l’infermità e ogni altro, ulteriore, elemento valutativo. La Corte d’Appello ha mancato di intraprendere una indagine in questo senso, avvalendosi di “considerazioni parascientifiche di cui non viene rilevata la fonte”.

Per i motivi esposti, la Corte ha annullato la sentenza impugnata per la parte relativa all’impugnabilità ed ha rinviato, per un nuovo esame sul punto, ad altra sezione della Corte d’Appello.

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Il testo è aggiornato a: D.Lgs. 75/2020 (lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione); D.L. 76/2020 (c.d. decreto semplificazioni); L. 113/2020 (Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nell’esercizio delle loro funzioni) e D.L. 130/2020 (c.d. decreto immigrazione).   Fabio PiccioniAvvocato del Foro di Firenze, patrocinante in Cassazione; LL.B., presso University College of London; docente di diritto penale alla Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali; coordinatore e docente di master universitari; autore di pubblicazioni e monografie in materia di diritto penale e amministrativo sanzionatorio; giornalista pubblicista.

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Note:

[1]   Cfr. in tal senso M. Bertolino, L’infermità mentale al vaglio delle Sezioni Unite, in Dir. Pen. Proc., n. 7, 2005.

[2]Il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder, noto anche con la sigla DSM,  elenca 10 tipi di disturbi di personalità, raggruppandoli in 3 cluster (A, B, C). Il cluster A  comprende  disturbi di personalità paranoide, schizoide e schizotipico; il cluster B riguarda i disturbi di personalità antisociale, borderline, istrionico e narcisistico; infine, il cluster C comprende il disturbo di personalità con caratteristiche evitante, dipendente e ossessivo-compulsivo.

[3]Per un approfondimento sul tema, si veda  U. Fornari, I disturbi gravi di personalità rientrano nel concetto di    infermità, in Cass. pen., fasc.1, 2006 “L’infermità (da in-firmus = non-fermo) in senso psichiatrico forense non individua più semplicisticamente un “disturbo mentale”, ma ricomprende i riflessi di questo sul funzionamento psichico del soggetto e, quindi, sul suo comportamento. Ne consegue che un “malato” può anche non essere un “infermo”. Uno schizofrenico ben compensato, che abbia recuperato un soddisfacente livello di funzionamento psico-sociale, come non viene più ritenuto clinicamente malato, così non può essere considerato infermo se commette o subisce un reato che non sia sintomatico di una sua specifica patologia mentale. L’infermità giuridicamente rilevante è dunque costituita dalla confluenza nel reato di un disturbo funzionale che consegue a un disturbo mentale, al punto di compromettere in concreto la capacità di autodeterminazione del soggetto, incidendo in maniera rilevante e grave sulla sua autonomia funzionale (il “quid novi” o “quid pluris”) e conferendo in tal modo
“significato di infermità” all’atto agito o subito (lo stesso ragionamento psichiatrico forense vale infatti anche
per la vittima di reato)”.

[4]“Per converso, non assumono rilievo ai fini della imputabilità le altre anomalie caratteriali e gli stati emotivi e passionali che non rivestano i suddetti connotati di incisività sulla capacità di autodeterminazione del soggetto agente; è inoltre necessario che tra il disturbo mentale e il fatto di reato sussista un nesso eziologico, che consenta di ritenere il secondo causalmente determinato dal primo”.

[5]Vedi Cass. Pen. Sez.,I, sentenza n. 52530/2014.

[6]Vedi Cass. Pen. Sez., II, sentenza n. 188/2020.

[7]“Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”.

[8]Il DSM-5 offre la seguente definizione : “Un disturbo di personalità è un pattern permanente di esperienze interne (pensieri, sentimenti ed emozioni) e comportamenti che sono marcatamente differenti da quelli definiti dalla propria cultura, è pervasivo e inflessibile, ed emerge in adolescenza o nella prima età adulta. E’ stabile nel tempo e conduce a sofferenza o disabilità”.

Sentenza collegata

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francesca de carlo

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