Il licenziamento disciplinare intimato sulla base di prove raccolte in sede penale

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di Stefano Loconte e Barbara Ogliaruso 

Con sentenza n. 25485 del 26 ottobre 2017, la Corte di Cassazione è tornata ad affrontare la spinosa questione della legittimità del licenziamento disciplinare basatosi sulle prove raccolte nel processo penale in cui il lavoratore è imputato. Gli Ermellini, con la recente pronuncia, hanno ribadito il principio,  più volte pronunciato, secondo cui il datore di lavoro è libero di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale e di porli a fondamento di un provvedimento espulsivo, senza la necessità di ulteriore istruttoria.

La sentenza in commento, pronunciata dalla IV sezione della Corte Suprema di Cassazione, ha affrontato la questione relativa alla legittimità del licenziamento di un collaboratore dell’Agenzia Regionale per i Servizi Sanitari della Regione Piemonte condannato, in sede penale, per truffa aggravata e peculato.

Prima di procedere alla disamina dei principi esposti dalla Cassazione nella sentenza in commento, è opportuno riassumere – seppur brevemente – i fatti dedotti in causa che hanno determinato l’insorgere della controversia.

I fatti di causa

Il lavoratore, collaboratore amministrativo, era stato sottoposto a procedimento penale per truffa aggravata e peculato sul presupposto di (i) avere falsamente attestato la presenza in servizio del figlio, anch’ egli dipendente della medesima azienda e di (ii) essersi appropriato della somma di 592,80 Euro per riparare la propria autovettura.

L’azienda sanitaria veniva a conoscenza dei fatti solo quando la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino trasmetteva la sentenza di condanna in primo grado, seppur non definitiva.

L’ufficio per i procedimenti disciplinari della Asl, dopo aver esaminato gli elementi di prova sulla cui scorta era stata formulata la sentenza di condanna, avviava – su quei medesimi fatti – un procedimento disciplinare, terminato poco dopo con l’irrogazione di un provvedimento espulsivo.

Il lavoratore impugnava il licenziamento e, dopo essere risultato soccombente sia in sede di opposizione che di reclamo, proponeva ricorso per la cassazione della sentenza pronunciata dalla Corte d’Appello di Torino.

Gli orientamenti della giurisprudenza

Per comprendere l’orientamento espresso dalla Corte Suprema, occorre analizzare la seconda censura sollevata dal ricorrente. Il lavoratore, infatti, contestava l’utilizzo – ai fini disciplinari – degli elementi probatori raccolti in sede penale, sostenendo che la Pubblica Amministrazione avrebbe dovuto “condurre un’indagine parallela” ed acquisire “ulteriori e diversi atti”, non potendo una sentenza di condanna non definitiva fondare e giustificare un provvedimento espulsivo.

La Suprema Corte respingeva il motivo di censura ritenendo, anzitutto, di dar seguito ad un orientamento ormai consolidato (cfr. Cass. 2.3.2017 n. 5317 che richiama Cass. 30.1.2013 n. 2168, Cass. 8.1.2008 n. 132) alla luce del quale “venuta meno la c.d. pregiudiziale penale e regolato per legge il possibile conflitto tra gli esiti dei procedimenti giusta l’art. 55-ter del d.lgs. n. 165/2001, l’amministrazione è libera di valutare autonomamente gli atti del procedimento penale, ai fini della contestazione, senza la necessità di una ulteriore ed autonoma istruttoria”.

Sicuramente nessuna sanzione disciplinare potrà mai essere irrogata al di fuori di un procedimento disciplinare ed in questo senso è utile richiamare due risalenti ma importanti sentenze della Corte Costituzionale (la n. 971/1988 e la 197/1993) che hanno evidenziato come “la sentenza penale di condanna non può mai condurre all’automatica attivazione di misure espulsive al di fuori di una procedura disciplinare regolarmente incardinata”.

Dunque, sebbene sia pacifico che la sentenza penale di condanna non può determinare alcun automatismo espulsivo, altrettanto vero è che il datore di lavoro potrà e, a parere di chi scrive, dovrà porre a fondamento dell’irrogazione del licenziamento per giusta causa anche gli esiti delle prove raccolte in sede penale purché, ovviamente, siano oggetto di autonoma valutazione dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari.

Trattasi di un orientamento ormai consolidato e che ha trovato – da ultimo – un’ulteriore conferma anche nella pronuncia n 25485 del 26 ottobre 2017.

In chiusura, vale la pena menzionare una pronuncia della Suprema Corte del 2012 (la n. 19859) che, pronunciandosi in materia tributaria ma enucleando un principio di portata generale, legittimava l’utilizzabilità degli elementi probatori raccolti in un giudizio penale come fonte del proprio convincimento, qualificandoli come prove atipiche acquisite in altro processo ma pienamente utilizzabili.

 

 

 

 

 

Avv. Buongiorno Mariangela

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