L’elemento psicologico del dolo eventuale e della colpa cosciente nei contesti a rischio di base consentito

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Introduzione.

L’elemento soggettivo del reato costituisce, nel nostro ordinamento, l’espressione del principio di responsabilità penale personale, di cui all’art.27 Cost.

Nessuna imputazione può prescindere da quella componente psicologica che lega interiormente e materialmente un fatto al suo autore, pena la riviviscenza di forme di responsabilità oggettiva o arcaici prototipi di colpa d’autore, del tutto privi del requisito della rimproverabilità individuale.

La colpevolezza, in un sistema repressivo proiettato alla rieducazione del reo, impone dunque che la commissione del fatto sia assistita non solo dalla suitas, intesa come “coscienza e volontà” dell’azione, ma anche da una gradazione più o meno accentuata dell’elemento psicologico, che consente di demarcare la gravità effettiva del crimine, plasmando la sanzione “a misura” del reo.

Tale gradazione si propaga lungo tre forme tipiche di imputazione: il dolo, che ai sensi dell’art.42 comma 2 c.p. è il criterio ordinario e più grave di colpevolezza dei delitti, la colpa e la preterintenzione che rappresentano invece criteri meno gravi, ma eccezionalmente previsti dal legislatore.

Tra le estremità del dolo e della colpa sussiste una fase intermedia ove si assiste al passaggio dall’atteggiamento intenzionale del dolo a quello involontario della colpa, caratterizzata da forme di responsabilità che vengono definite di “dolo eventuale” e “colpa cosciente” o con previsione.

Queste sono distinte da una linea sottile, talvolta impercettibile, su cui dottrina e giurisprudenza hanno sviluppato numerose teorie interpretative, posto che l’imputazione al soggetto dell’una o dell’altra porta a differenze sanzionatorie radicalmente opposte.

L’essenza della questione risiede quindi nello sforzo proteso a individuare i criteri più idonei a distinguere il dolo eventuale dalla colpa cosciente, in ispecie per quei settori monitorati dall’incedere di regole cautelari, la cui violazione comporta normalmente la ricaduta sotto l’egida della responsabilità per colpa.

Allo scopo, appare opportuno muovere dalla definizione generale di dolo e colpa, onde procedere alla qualificazione delle rispettive gradazioni di dolo eventuale e colpa cosciente, sulla base delle ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali

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Il dolo e la colpa nell’ordinamento penale

L’art.43 c.p. definisce il dolo come quell’ipotesi in cui il soggetto cagiona, “secondo l’intenzione”, il verificarsi di un evento criminoso, il quale deriva causalmente dalla sua azione o omissione.

La colpa, contrariamente, viene descritta come la situazione in cui l’evento dannoso o pericoloso, anche se previsto, avviene “contro l’intenzione” dell’agente, quale conseguenza di negligenza, imprudenza, imperizia ovvero per violazione di leggi regolamenti, ordini o discipline.

Dalla lettura della norma si evince che il principale discrimen tra dolo e colpa è affidato all’elemento della volontarietà nella provocazione dell’evento; volontarietà che nel dolo è estesa a tutte le componenti della fattispecie criminosa ed è anche assistita da una rappresentazione esatta delle stesse.

Diversamente, l’essenza della colpa risiede nella non volontà dell’evento, ovvero nell’errore che conduce a un evento diverso da quello rappresentato, dando luogo in questo caso a un errore sul fatto, ex art.44 c.p.

In tale contesto la violazione da parte dell’agente delle regole cautelari, sociali o giuridiche, preposte a scongiurare la concretizzazione del rischio, si pone in rapporto di causalità con l’evento stesso.

È possibile osservare che se l’art.43 c.p. nulla dice circa il dolo eventuale, fa però riferimento alla colpa cosciente, laddove puntualizza che l’evento è colposo o contro l’intenzione “anche se previsto” dal soggetto, mentre l’art.61 n.3 c.p. prevede, quale circostanza aggravante nei delitti colposi, l’aver agito “nonostante la previsione dell’evento”.

In mancanza di un riferimento normativo, il dolo eventuale può essere ricostruito proprio a partire dalla gradazione dell’intensità, che vede la sua massima gravità nel dolo c.d. intenzionale, per poi affievolirsi verso il dolo diretto e ancor più in quello eventuale, prima di diluirsi nella dimensione colposa mediante la colpa cosciente.

La distinzione primaria risiede nel fatto che mentre il dolo intenzionale si caratterizza per la rappresentazione e volontà di quell’evento specifico così come delineato dalla norma incriminatrice, nelle forme attenuate l’azione non è finalisticamente preordinata all’evento, il quale viene rappresentato dall’agente come una conseguenza collaterale del proprio agire.

La maggior gravità si riscontra nel “dolo diretto”, alla luce del fatto che l’evento, ancorché non costituente lo scopo primario dell’azione, è voluto e accettato dal soggetto quale conseguenza certa o altamente probabile della sua condotta.

Diversamente, nel dolo eventuale la rappresentazione dell’evento collaterale è caratterizzata da una minor certezza probabilistica di verificazione ed è accompagnata da un’indifferenza del reo alla violazione del precetto penale, che si rende meno riprovevole rispetto al dolo diretto.

Nel dolo eventuale si ha dunque la previsione di un evento collaterale, verso il quale l’azione non è mirata, ma il cui verificarsi rappresenta un rischio probabile che il soggetto accetta a qualunque costo.

 

Il dolo eventuale e colpa cosciente: le tesi qualificatorie

Sull’esatta portata del dolo eventuale si sono sviluppate differenti teorie improntate a stabilire la differenziazione rispetto alla colpa cosciente, le quali possono essere essenzialmente distinte in tre poli principali: teorie intellettualistiche, teorie volontaristiche e teoria dell’accettazione del rischio.

Le teorie intellettualistiche, ormai minoritarie, fondano il dolo eventuale sull’elemento intellettivo della prevedibilità o prevenibilità dell’evento, ovvero nell’assenza dell’operosa volontà di evitare le conseguenze dannose da parte dell’agente.

Tali teorie, tutte improntate alla dimensione rappresentativa, si mostrano però carenti nella parte in cui estromettono del tutto la componente volitiva, dalla quale non può prescindersi ai fini di una concerta rimproverabilità del fatto al suo autore. La componente volitiva consente, invero, di creare quella relazione tra autore ed evento che è alla base del giudizio di colpevolezza.

Prevalenti si sono rivelate le teorie volontaristiche, poiché hanno consentito di recuperare l’elemento della volontà, allontanando l’ombra di rischiose imputazioni oggettive derivanti dalla prevalenza della sola componente rappresentativa.

In tal senso, il dolo eventuale, in virtù di quella teoria che prende nota come Formula di Frank, impone al giudice di domandandosi se il soggetto, avendo avuto la certezza che l’evento si sarebbe verificato, avesse agito lo stesso, oppure si sarebbe astenuto dal farlo.

Questa valutazione ex ante sulla componente volitiva consente così di rilevare la maggiore riprovevolezza di una condotta che è stata posta in essere dal reo “costi quel che costi” e, come tale, incapace di sfuggire alla sfera dolosa.

Detta ricostruzione, per quanto più consona al principio di colpevolezza, non può tuttavia essere esente da critiche, dovute alla difficoltà del giudice di compiere un accertamento prognostico e ipotetico, che si rende di difficile evidenza probatoria.

La netta rilevanza dell’elemento volontaristico ha portato negli anni successivi all’affermazione di una differente impostazione, denominata “teoria dell’accettazione del rischio”, la quale è stata ampiamente accolta nella giurisprudenza di legittimità.

La stessa parte dal presupposto che l’elemento distintivo tra dolo eventuale e colpa cosciente risiede nel fatto che, mentre nel dolo il soggetto si è rappresentato l’evento e ha agito accettandone il rischio di verificazione, nella colpa, diversamente, tale accettazione non sussiste, l’agente ritenendo di poter governare la situazione, mosso dalla certezza che le sue abilità saranno sufficienti a scongiurare l’accadimento.

Anche su tale elaborazione sono state evidenziate delle criticità non facilmente superabili, che hanno condotto a una nuova formula interpretativa fatta propria dalla nota sentenza ThyssenKrupp, Sezioni Unite 18 settembre 2014 n.28243.

Si evidenzia in particolare che il criterio distintivo non può essere individuato nella mera accettazione del rischio, che piuttosto caratterizza entrambe, bensì nell’adesione al verificarsi dell’evento compiuto all’esito di un differente bilanciamento degli interessi da parte dell’agente.

Da un lato il criterio dell’accettazione del rischio non tiene conto dell’elemento ulteriore, presente nel dolo eventuale, del maggiore disprezzo mostrato dall’agente nei confronti del precetto penale; dall’altro lato, l’elemento del “dubbio” che si ritiene presente nel dolo e superato nella colpa, in realtà può essere presente in entrambe le condizioni.

Ciò è comprovato dall’art.61 n.3 c.p., il quale, utilizzando il termine “nonostante” la previsione dell’evento, indica che anche nell’aggravante della colpa con previsione quel dubbio può essere presente, cosicché, la certezza di poter governare la situazione grazie alle proprie abilità non comporta necessariamente che l’agente abbia superato il dubbio del possibile accadimento dell’evento lesivo.

Si è dunque affermato un differente criterio discretivo che, partendo dal presupposto che l’accettazione del rischio è presente sia nel dolo eventuale che nella colpa cosciente, individua il maggior rimprovero nel bilanciamento d’interessi da parte dell’agente, il quale ha subordinato ai propri fini un bene giuridico di maggior rilevanza.

Il criterio de quo, fatto proprio dalle Sezioni Unite nel caso ThyssenKrupp, si accompagna a un decalogo di indizi che devono guidare il giudice verso la qualificazione del caso concreto, tra i quali spicca il contesto storico di riferimento, l’esperienza pregressa del reo, il rischio di lesione in cui lo stesso agente può incorrere e, in ultimo, il ricorso proprio alla già esaminata formula di Frank.

Gli elementi di forza dell’impostazione a stampo “volitivo” risiedono così nell’implementazione della dimensione soggettiva e nella maggior coerenza al fatto storico, tenendosi conto della personalità dell’agente e di quelle esperienze pregresse che consentono di verificare il maggiore o minore sprezzo da parte dello stesso nei confronti dell’ordinamento.

Allo stesso tempo non può sottacersi l’aspetto critico della teoria, che risiede nel paradosso di penalizzare con il dolo eventuale un soggetto che, compiendo una ponderazione di interessi, si pone in un atteggiamento più riflessivo rispetto a chi, agendo d’istinto o d’azzardo, va incontro alla colpa cosciente.

Questa criticità è tanto più evidente in certi contesti ove si evidenzia un rischio di base consentito, circoscritto dall’incedere di regole cautelari: la circolazione stradale, le malattie sessualmente trasmissibili e le attività economico-imprenditoriali.

 

I contesti a rischio base consentito: circolazione stradale, malattie sessualmente trasmissibili e attività economico imprenditoriali

 

Vi sono dei settori connotati per loro natura da un rischio intrinseco, i quali sono governati da regole, anche extra penali, quali quelle contenute nel “Codice della Strada” D.lgs.285/92, la cui violazione è causa di responsabilità colposa, così come prescritto dall’art.43 comma 3 c.p.

Il problema è comprendere quando la responsabilità colposa può assumere la connotazione qualificata di colpa cosciente o quando invece si trasforma nella forma più attenuata di dolo eventuale.

La materia della circolazione stradale, oggi riformata con la L.41/2016, ha rappresentato un terreno elettivo per l’applicazione dei criteri sopra descritti, i cui aspetti critici, tuttavia, si sono rivelati decisivi per condurre il legislatore verso un intervento di riforma mirato e capillare, che fosse in grado di colmare i paradossi delle teorie analizzate.

In particolare, prima dell’introduzione dei reati di omicidio stradale, lesioni stradali e loro circostanze aggravanti, la giurisprudenza di legittimità, a partire dal 2014, si è orientata verso la valorizzazione del carattere volitivo-soggettivizzante, tipico della teoria del bilanciamento, guardando soprattutto all’elemento indiziario dell’esposizione al rischio della propria persona in fase deliberativa.

È ragionevole ritenere che una manovra azzardata, in contromano e al buio, non può essere imputata a titolo di dolo per il sol fatto che sia caratterizzata dall’assunzione di un rischio quantitativamente maggiore, come se l’elemento quantitativo possa essere sintomatico di un maggior sprezzo della regola di condotta.

Si deve invece guardare più concretamente agli elementi del fatto storico, quali l’ora in cui il sinistro è avvenuto, il tratto stradale coinvolto e soprattutto l’esposizione al rischio da parte dell’agente, il quale, azzardando con dolo quel tipo di manovra, avrebbe dovuto anche accettare il rischio di perire egli stesso nello scontro.

Un caso del genere consente piuttosto ravvisare una colpa cosciente del soggetto, il quale, lungi dal compiere un bilanciamento d’interessi a proprio vantaggio, ha la convinzione di poter governare la situazione confidando nelle sue abilità di pilota.

In definitiva, l’orientamento richiama e accoglie il criterio discretivo del bilanciamento, ripudiando quello più prettamente “intellettualistico-rappresentativo” della quantificazione dell’azzardo nell’azione compiuta.

Diversa può essere la conclusione nel caso in cui l’automobilista sconsiderato impedisca la manovra di sorpasso del motociclista, stringendo la curva in modo da provocarne l’incidente, ovvero proceda a velocità elevatissima nel centro cittadino, o in prossimità di una scuola, per timore di arrivare tardi all’appuntamento.

In entrambe le ipotesi è configurabile il dolo eventuale poiché l’agente, aderendo al rischio di verificazione dell’evento, pospone un proprio immeritevole interesse, il “dispetto” nel primo caso e la “puntualità” nel secondo, alla tutela dell’integrità altrui.

Una soluzione improntata al “bilanciamento” lascia tuttavia spazio a dubbi non ancora sopiti, che inducono l’interprete a domandarsi come sia possibile concepire un’imputazione a titolo di dolo in un ambito, quale quello della circolazione stradale, ove la repentinità di verificazione degli eventi rende impossibile per il soggetto effettuare quella deliberazione che lo porta a sacrificare beni di più ampia importanza, come l’integrità fisica.

Il rischio che ne consegue può essere dato dalla prevalenza di imputazioni a titolo di colpa cosciente nonostante l’intenzionalità dell’azione, per il sol fatto che può essere difficile se non impossibile provare il momento deliberativo del bilanciamento, dovendosi così optare per una sanzione più lieve.

Altro ambito, particolarmente delicato è rappresentato dalle malattie a trasmissione sessuale, come l’HIV, da parte di colui che ha rapporti non protetti, nonostante la consapevolezza della malattia.

Nel caso di specie la regola cautelare, che qualunque individuo di media intelligenza è tenuto a osservare, è di carattere sociale.

La violazione della stessa, invero, può essere inquadrata nella negligenza, nel senso di trascuratezza e superficialità, oppure nell’imprudenza, per essa intendendosi una scorretta ponderazione di interessi dovuta a mancanza di accortezza.

Ancora una volta è opportuno individuare l’esatto passaggio tra la colpa cosciente e il dolo eventuale, nella commissione di una condotta che rientra a pieno titolo tra le “lesioni gravissime” ex art.583 comma 2 c.p.

Applicando il criterio del bilanciamento a cui si accompagna l’osservazione degli elementi indiziari, tra cui i pregressi storici del reo, è possibile ritenere che un soggetto incorra nel dolo eventuale quando, consapevole della sua storia clinica, si rappresenta con elevata probabilità le conseguenze dannose del suo agire e, nonostante ciò, accetta il rischio di infettare il partner con cui ha rapporti abituali, dando rilevanza ai propri interessi egoistici.

È interessante rilevare l’ulteriore differenza della fattispecie con l’ipotesi di dolo intenzionale da contagio, la quale è stata purtroppo al centro di recenti fatti di cronaca.

In essa, il soggetto, consapevole da anni della propria condizione e spinto da folle rancore, ha rapporti sessuali con l’intenzione specifica di infettare le proprie vittime, così “volendo” finalisticamente cagionare lesioni gravissime.

Si può invece ravvisare la colpa con previsione nel c.d. “rapporto occasionale”, quello caratterizzato da un’eventuale assunzione del rischio da parte dell’agente che però, confidando nel fato o nelle proprie abilità, ritiene di poter evitare il contagio, nonostante il permanere del dubbio.

La regola cautelare che viene in considerazione nel caso di specie, che come si è detto, è una regola prettamente sociale, sulla cui violazione la giurisprudenza ha escluso che un soggetto ammalato, sottopostosi più volte agli esami clinici, possa essere qualificato alla stregua di un “uomo della strada”, ignorante circa l’eziologia della propria condizione e le potenzialità di trasmissione.

Allo stato attuale, invero, la diffusione degli strumenti di informazione e la valorizzazione dell’educazione sessuale nei corsi di studio non consentono più di qualificare la maggior parte degli individui “mediamente intelligenti” come soggetti che ignorano le modalità di trasmissione del contagio da HIV.

Di talché, è consequenziale che l’elemento soggettivo colposo può essere escluso quante volte l’agente non sia a conoscenza delle proprie condizioni al momento del rapporto sessuale a rischio.

La qualificazione in termini di dolo eventuale, piuttosto che di colpa cosciente, risiederà, oltre che nell’adesione all’evento, anche nella maggior “sfrontatezza” con cui l’individuo ha violato la regola cautelare, ponendo in essere una pluralità di rapporti non protetti col medesimo partener, nonostante la consapevolezza della malattia e le sue potenzialità lesive.

La terza questione concerne le attività economico imprenditoriali, settore di riferimento ove si sono sviluppati i criteri distintivi tra le due forme di imputazione.

L’analisi di questa fattispecie rende imprescindibile richiamare il modello “ThyssenKrupp”, poiché detta pronuncia si è resa foriera di innumerevoli spunti interpretativi, che hanno trovato applicazione in casi altrettanto noti, quale ad esempio la sentenza “Eternit bis”, Cass. Pen., sez. I, 16 maggio 2018.

Il caso di specie ha visto un tentativo di riqualificazione del reato da “omicidio colposo con previsione” ex art.589 c.p. a “omicidio volontario”, inerente alla morte per patologia tumorale polmonare di un elevato numero di lavoratori, esposti per decenni alle polveri dell’amianto.

Orbene, in disparte la questione collaterale inerente all’individuazione del nesso causale tra l’attività lavorativa e l’innesco della prima cellula tumorale, l’aspetto oggetto di disamina tocca l’elemento soggettivo del datore di lavoro che, secondo l’accusa, pur prevedendo le conseguenze nocive dell’esposizione alle polveri, ha accettato il rischio e aderito alle possibili conseguenze letali, a qualunque prezzo.

La giurisprudenza di legittimità pronunziatasi in merito al ricorso disattende la tesi della riqualificazione del reato, richiamando e applicando proprio la teoria del bilanciamento di cui al caso ThyssenKrupp e Espenhahn.

La Suprema Corte, in particolare, evidenzia il fatto che tutti gli elementi indiziari nei confronti del datore di lavoro, quali l’introduzione di una legislazione cautelare postuma al fatto storico, la scarsa conoscenza delle reali conseguenze d’esposizione all’amianto, il carattere lungolatente della malattia e il tentativo dell’imprenditore di ridurre l’esposizione al rischio dei lavoratori, non possono considerarsi elementi sufficienti a dimostrare l’adesione dell’agente all’evento “costi quel che costi”.

Di contro, si deve osservare come questi aspetti indiziari, in primis il tentativo di contenimento del rischio, se da un lato dimostrano una limitata consapevolezza della nocività delle polveri, dall’altro evidenziano la “non adesione” al reato, avvalorata dal tentativo di contenimento del rischio che, al più, può essere tacciato di imprudenza.

Su quest’ultimo aspetto può essere utile ricordare che il tentativo operoso di evitare l’evento ha costituito, come visto in precedenza, una delle tesi “intellettualistiche” più interessanti con cui la dottrina ha tentato di circoscrivere la colpa cosciente.

Alla luce dell’orientamento ad oggi maggioritario il “tentativo operoso” è stato ricondotto tra quelle condizioni indiziarie che, insieme al bilanciamento, possono coadiuvare l’interprete ad optare per la colpa piuttosto che per l’imputazione più grave.

La prevalenza di una colpa cosciente nell’attività economico-imprenditoriale è altresì dimostrata dell’introduzione postuma della regola cautelare sui limiti d’esposizione alle polveri di amianto, la quale non consente di stabilire con quale atteggiamento psicologico il datore di lavoro ne abbia violato il contenuto, al tempo non definito.

La ricerca del dolo eventuale dovrebbe semmai spostarsi verso l’indagine psicologica più interiore del reo, quella volta cioè ad accertare se egli avrebbe agito nonostante la certezza dell’esito nefasto. Una siffatta lettura, fondata sull’applicazione della formula di Frank, apparirebbe però eccessivamente difficoltosa a causa della sua struttura prognostica, non del tutto in linea con il principio di colpevolezza.

In definitiva, nel caso di specie, appare più conforme e garantista una soluzione che, lungi dal fondarsi su mere rappresentazioni dell’agente o su valutazioni prognostiche opinabili, ricerchi l’atteggiamento volitivo all’interno della dimensione psicologica del reo, mediante l’ausilio di tanti elementi indiziari, legati alla storia degli eventi, che consentono di pervenire a una colpevolezza il più possibile contingente e concreta.

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Dott.ssa Angela Marinangeli

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