Legge 11/07/1980, n. 312 e inquadramento per mansioni: Evoluzione dell’assetto del personale della P.A. – Parte terza

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            Introduzione

 

            Occorre preliminarmente differenziare fra “qualifica funzionale “ e “profilo professionale”, mentre il profilo professionale si riferisce alla singola concreta attività, al contrario la qualifica funzionale è una definizione generale ed astratta dell’attività dal che ne consegue che la qualifica funzionale contiene vari profili professionali.

            Questa distinzione si ripercuote da un punto di vista più strettamente politico nel coinvolgimento amministrativo-sindacale degli operatori della P.A. nell’individuazione dei caratteri dei singoli profili professionali e di un intervento legislativo nella declaratoria delle varie qualifiche funzionali, gli elementi essenziali per l’individuazione dei singoli profili professionali sono il tipo di attività, la preparazione professionale necessaria e il grado di responsabilità (artt. 2 e 3 della L.  312/80). (1)

            La qualifica funzionale fa la sua comparsa già nel 1951 con il progetto Lucifredi in cui viene denominata “grado funzionale”, ma solo con l’art. 11 della legge delega del 18/3/1968, n. 249 si ha l’introduzione ufficiale del concetto di “qualifica funzionale”. La prima applicazione operativa si ha con l’accordo del 17/3/1973 tra Governo e Federazioni nazionali degli statali (CGIL – CISL – UIL – UNSA), successivamente a seguito del dibattito apertosi fra sindacati, Governo e forze politiche si venne maturando l’orientamento alla abolizione dei livelli gerarchici esistenti con la sostituzione della qualifica unica professionale per ciascuna carriera.

            Ben presto anche quest’ultima fu superata con la proposta da parte sindacale della qualifica funzionale e la suddivisione in otto livelli funzionali di tutte le attività espresse dalla P.A. in sostituzione del vecchio assetto gerarchico (2), mentre fervevano questi dibattiti, in alcuni settori della P.A. si incominciò ad attuare l’elaborato modello organizzativo alternativo alle carriere. Iniziarono le Regioni a statuto ordinario, seguì il parastato con la legge n. 70/75, fino ad arrivare al personale degli enti locali inquadrato con il D.P.R. 1/6/1979, n. 191; sotto la forte spinta sindacale di quegli anni ed a seguito dei fremiti di rinnovamento e di egualitarismo che percorrevano la società alla fine degli anni ’70 si pervenne in fine alla emanazione della legge n. 312/80, coinvolgente l’amministrazione diretta dello Stato.

            L’importanza di questa legge risiede nella omogeneizzazione delle carriere e delle retribuzioni che permette di superare lo schema gerarchico ed il conseguente moltiplicarsi dei gradi indipendentemente dalle effettive funzioni, per ricollegare la qualifica dell’impiegato alla attività svolta. Oltre alla notevole semplificazione delle carriere si mettono finalmente le premesse per la mobilità orizzontale del personale altrimenti impedita sia dal difficile raffronto fra le progressioni giuridiche e le funzioni nelle varie amministrazioni che dai notevoli dislivelli economici tra amministrazione ed amministrazione, ma anche la mobilità verticale viene facilitata con l’introduzione delle riserve di posti in percentuali fisse alle qualifiche inferiori.

            Al fine di limitare la spinta verso l’alto per motivi di progressione economica l’art. 24 prevedeva inizialmente cinque classi per ciascun livello con un aumento costante del 16 per cento dello stipendio iniziale, da attribuirsi al compimento di tre, sei, dieci, quindici e venti anni di servizio, all’interno di ciascuna classe di stipendio venivano corrisposti aumenti biennali in ragione del 2,50 per cento. Il meccanismo è stato quasi immediatamente modificato con i vari rinnovi contrattuali, perdendo in parte la incisività prevista nel disegno originale.

Altro elemento consequenziale al fine del processo di trasformazione da una struttura gerarchica ad una per funzioni è dato dall’eliminazione di massima dei rapporti informativi e dei giudizi complessivi annuali fonti di attrito fra il personale (art. 17). E’ fuori dubbio che una certa valutazione dell’operato sia comunque necessaria, soprattutto per le qualifiche superiori che potrebbero ricoprire incarichi rilevanti per l’amministrazione, tuttavia il vecchio sistema previsto dal titolo III, capo I del D.P.R. 10/1/1957, N. 3, non appariva ormai dei più idonei al rilevamento sia dell’efficienza che dell’efficacia dell’attività svolta.

            La vecchia struttura gerarchica ruota intorno alla figura del “funzionario” unico titolare del potere di esternare l’amministrazione, il restante personale è solo “addetto” all’ufficio e non fornito di funzioni specifiche alla propria qualifica, sicché il rispetto della qualifica si riduce, in ultima istanza, nel rispetto del trattamento economico acquisito (3).

            Con la qualifica funzionale si ha una rivoluzione di prospettiva, da elemento assoluto, accentratore del potere di decidere ed esternare la volontà della P.A., il “funzionario”, diventa elemento coordinatore, ganglo a cui arrivano gli input dalle singole figure professionali, il cui compito principale è quello di ricondurre ad unità l’attività svolta da ciascun impiegato dell’ufficio (4).

            In conclusione può dirsi che mentre nel vecchio modello organizzativo è la procedura che viene posta al centro dell’attenzione, nel modello funzionale è l’organizzazione del lavoro che riacquista la propria centralità, ponendo la procedura quale elemento di supporto nell’analisi dell’attività amministrativa.

            Se le prospettive di rinnovamento aperte dalla normativa in esame erano rilevanti, l’attuazione ne è risultata piuttosto rallentata e frazionata in modo tale da compromettere notevolmente la carica innovativa; non si è proceduto omogeneamente per tutti i comparti, infatti mentre per il personale universitario si è data immediata attuazione alla procedura necessaria, per i restanti comparti si è avuto un inquadramento provvisorio rinviandone l’attuazione definitiva di quasi un decennio con tutte le conseguenti confusioni ed attese create.

            Alla legge n. 312/80 seguirono una serie di micro leggi settoriali che andavano dall’ampliamento delle piante organiche, in violazione del disposto dell’art. 5 della L. 11/7/1980, n. 312, alla reintroduzione di procedure e normative pre-esistenti e per lo più superate come l’art. 16 del D.P.R. 24/4/1982, n. 340. Normativa che aggiungendosi alle manchevolezze innanzi descritte, a cui può aggiungersi senz’altro la sottovalutata mancanza di incentivazioni psicologiche di status, ha fatto sì che si creasse ulteriore ambiguità nel passaggio fra vecchia e nuova organizzazione, d’altronde in presenza di uno Stato controparte non particolarmente forte le associazioni sindacali, portate per loro natura ad occuparsi maggiormente del personale che dell’aspetto organizzativo, hanno risentito delle spinte corporative della base sensibile non solo ad un ipotetico aumento salariale ma anche di status sociale.

            Il risultato ultimo è stato uno scivolamento generalizzato in avanti grazie all’art. 4 della legge in esame, con lo svuotamento delle prime qualifiche e la conseguente creazione di una ulteriore IX qualifica (art. 15, L. 29/1/1986, n. 23 e d.l. 28/1/1986, n. 9) fatto che, come dichiara Cassese “conduce ad una notevole discrasia tra declaratoria delle mansioni professionali e assetto concreto” (5). D’altronde lo scivolamento generalizzato è stato vissuto come premio economico, visione in parte favorita dall’eccessivo appiattimento delle retribuzioni che non hanno evidenziato anche economicamente il distacco tra qualifiche, favorendo al contempo la permanenza nelle stesse.

            Non si può tuttavia comprendere l’attuazione dell’ordinamento per qualifiche e profili se non si fa un breve accenno all’intervenuta legge quadro sul pubblico impiego n. 93 del 29/3/1983. La legge ha distinto tra materie che costituiscono riserva di legge (art. 2) e materie rimesse ad accordi con le organizzazioni sindacali (art. 3). Tra le prime rientrano “i criteri per la determinazione delle qualifiche funzionali e dei profili funzionali” (art. 2, n. 3), mentre tra le seconde “l’identificazione delle qualifiche funzionali, in rapporto ai profili professionali ed alle mansioni” (art. 3, n. 3).

            Si è così istituzionalizzato ed è cresciuto il ruolo delle organizzazioni sindacali come espressione delle aspettative del personale acquisendo quindi forza  determinante nella realizzazione del nuovo disegno per funzioni.

            Sempre con riferimento alla legge quadro particolare rilievo hanno alcune disposizioni “programmatiche” (artt. 17, 18 e 19), volte a fissare principi comuni tali da omogeneizzare tutti i rapporti di pubblico impiego (6).

            All’art. 17, intitolato qualifica funzionale, non può riconnettersi efficacia abrogativa con le norme in contrasto, bensì solo efficacia precettiva per il futuro, anche se difficilmente vi potrà essere una normativa in contrasto essendo ormai tutto il pubblico impiego pervaso dal modello per funzioni. Il primo comma dell’articolo distingue nettamente il momento organizzativo da quello dell’inquadramento del personale, limitando l’applicazione della norma alla seconda ipotesi, questo fa sì che, se da una parte si facilita l’applicazione immediata della qualifica funzionale, dall’altra si può ridurre questa innovazione al semplice aspetto retributivo, sganciandola da una riforma seppure necessaria dell’organizzazione degli uffici (7). Nel prosieguo la norma ribadisce elementi già pronti della qualifica funzionale così come introdotta dalla L. n. 312/80, ossia i requisiti per individuare le singole qualifiche, il raggruppamento omogeneo delle attività lavorative in modo da semplificare la struttura amministrativa ed infine il livello retributivo unitario per ogni qualifica funzionale collegato al principio della onnicomprensività. Questo ribadire solennemente principi già posti sembra preludere ad una loro possibile disapplicazione sotto le varie spinte settoriali che già dall’inizio degli anni ’80 si manifestano progressivamente.

            Il successivo art. 18 (profili professionali) non può essere letto se non rapportato al precedente articolo, anche per i profili si guarda al contenuto oggettivo della presentazione, dando sempre maggiore rilievo ai titoli professionali man mano che si sale verso i livelli più alti.

            Particolare importanza come norma di chiusura del sistema riveste l’art. 19, esso introduce il concetto di mobilità orizzontale tralasciando qualsiasi accenno alla mobilità verticale, d’altronde la mobilità verticale viene meno nel nuovo modello funzionale, rivestendo carattere del tutto eventuale e quindi eccezionale. Al contrario l’introduzione della mobilità orizzontale supera una notevole rigidità organizzativa a cui gli istituti tradizionali del trasferimento, del comando e del distacco o per il garantismo di cui sono stati circondati o per la complessità della procedura si sono rivelati inadeguati, né deve tacersi l’incomunicabilità organizzativa creatasi tra le varie amministrazioni a seguito delle loro complesse strutture gerarchiche, soprattutto per le mansioni inferiori eccessivamente ed artificiosamente parcellizzate.

            L’inquadramento per qualifiche funzionali offriva l’occasione per il recupero di una certa mobilità, tanto maggiore nelle qualifiche più basse dove è più facile l’accorpamento ed è minore il divario tra i vari profili professionali (8).

            Al principio fissato dall’art. 19 della legge n. 93/83, è seguito il tentativo di darne pratica applicazione nei successivi contratti del pubblico impiego, come nel caso minuziosamente disciplinato dall’art. 6 del D.P.R. 1/2/1986, n. 13 (9), tentativi che comunque non hanno potuto avere un seguito fino alla definitiva attuazione dell’inquadramento per funzioni che ha permesso di superare gli ostacoli organizzativi innanzi descritti.

 

 

NOTE

 

  1.  Prof. Santo Chillemi, Parliamo di qualifica funzionale (Riv. Funzione Pubblica, A.I. – n. 2/87), pp. 22 e 23
  2. Giancarlo Caiano, Lo Stato di attuazione della legge 11 luglio 1980, n. 312 (Riv. Trim. di Dir. Pubbl. 1983), pp. 496-7
  3. Mario Rusciano, La legge quadro sul pubblico impiego – Commentario della L. 29/3/1983, n. 93 (CEDAM 1985), p. 106
  4. Carmelo Maniaci, Qualifiche funzionali e profili professionali: esigenze ed aspettative nei processi lavorativi e nei modelli organizzativi (Riv. Funzione Pubblica, A. 2 – n. 1788), pp. 12-13
  5. A. Lombardo, Un sistema riformatore per l’amministrazione: normativo, gestionale, organizzativo (Riv. Trim. di Scienza dell’Amministrazione, n. 2/87), p. 25
  6. Marcello Arredi e Gabriele Auricchio, Alcune considerazioni sulla legge quadro sul pubblico impiego (Riv. Trim. di Dir. Pubblico, 1983), p. 863
  7. Mario Rusciano, citato, p.111
  8. Mario Rusciano, citato, p. 117
  9. Fiorenzo Liguori, art. 6 del D.P.R. I/2/86, n. 13 (Le Nuove leggi Civ. Commentate – CEDAM), pp. 802-5

( Rielaborazione della relazione presentata dall’autore alla SSPA- Roma)

Dott. Sabetta Sergio Benedetto

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