Le nuove regole sull’espulsione dei cittadini stranieri dal territorio dello Stato (legge 30 luglio 2002, n. 189 Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”)

Redazione 19/09/02
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di Fabio Fiorentin
Qui l’indirizzo email di f.fiorentin@dirittopenitenziario.it
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1.Considerazioni introduttive.-2.La condizione dello straniero.-3.La legge 6 marzo 1998 (c.d. legge “Turco-Napolitano”) e il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (D.lvo 25 luglio 1998, n.286).-4.L’espulsione dello straniero.-5.La nuova disciplina dell’espulsione (legge 30 luglio 2002, n.189).-

1. Considerazioni introduttive.
All’esito di un travagliato iter parlamentare, è legge ( n.189 del 30 luglio 2002) il testo della normativa “Bossi-Fini”, pubblicata sul supplemento ordinario n. 173 della Gazzetta Ufficiale del 26 agosto 2002, recante “modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”.
La nuova legge, attraverso la tecnica della novellazione di larga parte del T.U.Stranieri (D.lvo 25 luglio 1998, n. 286) e dei c.d. “inserti” normativi, modifica profondamente l’attuale disciplina della condizione dello straniero presente sul territorio nazionale, così incidendo su un complesso tessuto normativo venutosi gradatamente a formare per effetto di una progressiva stratificazione di norme di fonte tanto interna quanto sopranazionale (e, in particolare, comunitaria).
Gli articoli da 12 a 15 della nuova legge regolano, in particolare, presupposti e procedura delle espulsioni, amministrative e giudiziarie, riscrivendo estesamente il testo della precedente normativa ( artt. da 13 a 16 del T.U. Stranieri ).
La riforma, sotto l’indicato profilo, apporta elementi di indubbia novità e rilievo nella disciplina di settore, poiché, mentre ridefinisce i contorni di istituti già esistenti (quali l’espulsione amministrativa e giudiziaria), introduce altresì fattispecie del tutto originali, quale l’espulsione a titolo di “sanzione alternativa alla detenzione” che rappresenta un inedito per il panormama giuridico e normativo italiano e conferma l’espungimento di altre ipotesi un tempo presenti nell’ordinamento (espulsione c.d. “ a richiesta” ed espulsione quale misura di prevenzione).
Tale proteiforme casistica delle fattispecie di “espulsione” rende problematico qualsiasi tentativo di razionalizzazione del quadro classificatorio dell’istituto in esame: l’espulsione quale sanzione – amministrativa, penale o di altra specie (misura di sicurezza) – è infatti comminata dall’ordinamento in rapporto ad una serie quantomai indefinita e disomogenea di fattispecie.
Una definizione del fenomeno dal punto di vista giuridico non può, in effetti, andare molto oltre l’affermazione che l’espulsione dello straniero dallo Stato costituisce un procedimento – garantito dalla giurisdizione – a carattere amministrativo o giurisdizionale, sanzionatorio della violazione delle regole –e più precisamente dei doveri – che impingono al cittadino straniero, che si realizza con la forzata estromissione, in via tendenzialmente definitiva, del soggetto colpito dal provvedimento espulsivo, dal territorio nazionale
I casi di espulsione previsti dall’ordinamento sono, infatti, accomunati in realtà da poco più che il mero nomen juris: condotte pericolose o comunque antisociali dello straniero (espulsione quale misura di prevenzione, prevista dall’abrogata legge “Martelli”); accertata pericolosità sociale del soggetto straniero in conseguenza della perpetrazione di fatti-reato (espulsione prevista, ad esempio, quale misura di sicurezza, dal codice penale, dal T.U. in materia di stupefacenti e dalla legge n. 40/98, c.d.“Turco-Napolitano”); pena inflitta allo straniero condannato per determinati reati (espulsione quale sanzione sostitutiva della detenzione, prevista dalla citata legge “Turco-Napolitano”); addirittura, richiesta del condannato o del suo difensore ( tale discusso istituto, non a caso definito dalla prassi “espulsione a richiesta”, ed ora abrogato, venne introdotto nel dichiarato intento di ridurre il sovraffollamento carcerario: cfr. sub nota 9) ); mera esistenza di una determinata quantità di pena da espiare stabilita dalla legge (la nuova ipotesi di espulsione a titolo di sanzione alternativa alla detenzione prevista dalla legge n. 189/02).
Detta indefinitezza– tale quantomeno dal punto di vista del linguaggio giuridico – del concetto di “espulsione” ha creato, com’era facile attendersi, non pochi problemi e incertezze nel momento applicativo dei singoli istituti, poiché ciascuna delle fattispecie sopra elencate è – o è stata – disciplinata dal legislatore secondo principi, presupposti, procedure e competenze affatto differenti, ingenerando una notevole ed esiziale confusione e macchinosità nella pratica attuazione delle varie ipotesi di espulsione.
Ciò ha contribuito non poco al conclamato fallimento pratico degli scopi ( tanto preventivi quanto repressivi, quanto ancora deflattivi dell’affollamento carcerario) alla realizzazione dei quali l’istituto dell’espulsione è stato, di volta in volta, finalizzato dal legislatore.
Il disorganico quadro normativo sopra accennato risulta, se possibile, ancor più complicato a motivo del concorrente e mal coordinato attivismo del legislatore sia nazionale che comunitario sul tema dell’immigrazione dai Paesi extra-UE.
Tale preoccupata attenzione, si giustifica,beninteso, alla luce della dimensione quantitativa sempre crescente del fenomeno migratorio e della correlata necessità di disciplinarne la gestione da parte degli apparati statali in termini di delicato equilibrio tra le esigenze di contingentare gli ingressi in relazione alla capacità di assorbimento dei nuovi arrivi da parte delle economie e del tessuto sociale dei Paesi europei ( intervenendo altresì a reprimere i fenomeni delinquenziali connessi in particolare al c.d. “traffico di esseri umani”) ed il rispetto dei principi di libertà di circolazione delle persone, di rispetto e tutela dei fondamentali diritti umani che formano uno degli irrinunciabili, fondamentali pilastri etici e giuridici su cui si fonda il trattato dell’Unione.
Nel prosieguo, ci si propone quindi di descrivere i tratti salienti del variegato panorama giuridico attualmente vigente in materia di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, alla luce delle nuove norme introdotte dalla legge n.189/02 da poco entrata in vigore, nel quadro della complessa normativa che disciplina la condizione del cittadino extra-UE presente nel nostro Paese.

2. La condizione dello straniero.
Il tema dell’espulsione dello straniero dallo Stato è ineludibilmente connesso con quello della condizione o status del medesimo, inteso quale fascio di diritti e doveri propri della persona non cittadina italiana, risultando costituito da un complesso insieme di disposizioni e regole derivante da fonti normative di differente origine e grado gerarchico.
Nell’ambito di questa articolata Stufenbaum, sono presenti norme sovraordinate, di fonte costituzionale, regole e trattati internazionali – più precisamente, comunitari -, e norme interne, di grado primario e secondario.
Nel procedere alla ricognizione delle fonti di grado superiore, vanno prese in considerazione in prima istanza quelle di grado costituzionale.
A questo proposito, l’art. 10, comma 2, della Costituzione stabilisce che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”.
Il successivo comma 3, sancisce il c.d. “diritto d’asilo” dello straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”(sono evidenti le implicazioni che tale salvaguardia ha in rapporto al tema delle espulsioni di cittadini provenienti da Stati a regime non democratico o comunque non in linea con i nostri standards di democrazia).
La disciplina della materia è, dunque, coperta, nel nostro ordinamento, da una riserva di legge rinforzata, posta a garanzia che la normativa interna non determini antinomie con i principi delle norme di fonte extranazionale (tanto di fonte consuetudinaria quanto, soprattutto, pattizia), suscettibili di riverberare negativi riflessi tanto sulla gestione amministrativa e giurisdizionale interna dei flussi migratori verso il territorio italiano quanto, soprattutto, sul graduale processo di aggregazione e reciproca fusione delle istituzioni giuridiche, economiche e politico-amministrative dei Paesi aderenti all’Unione europea.
Nei confronti del cittadino straniero, la riserva costituzionale riveste altresì un fondamentale ruolo di garanzia in ordine al rispetto delle procedure e delle regole stabilite dalla legge in rapporto ai diritti connessi allo status di straniero, quali l’accesso al lavoro, l’unità familiare e, non ultimo, la garanzia giurisdizionale nel procedimento di espulsione.
Per il nostro Paese, ciò significa, in altri termini, che la legislazione interna è tenuta a conformarsi ai principi, agli istituti ed alle competenze stabiliti dalla normativa dell’Unione europea e dai trattati e accordi conclusi in seno a questa, con la duplice, importante conseguenza che gli atti di normazione interna nelle materie coperte dalla citata riserva devono essere applicati e interpretati alla luce dei principi e delle norme di grado sovranazionale contenute nei trattati cui l’Italia aderisce, e che detti principi e normative dovranno essere applicati in prevalenza delle norme interne eventualmente difformi.
Più specificamente, nella materia della condizione dello straniero, il nostro Paese è principalmente vincolato dalle clausole del c.d. “Accordo di Schengen”, stipulato nel 1985 e cui l’Italia ha aderito nel 1993[1], che si propone di standardizzare, attraverso una progressiva armonizzazione delle normative nazionali sull’immigrazione, le regole d’ingresso e di circolazione nell’Unione dei cittadini extracomunitari .
L’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea impone, inoltre, al nostro legislatore il rispetto delle regole stabilite dal titolo VI del Trattato di Maastricht in materia di cooperazione fra i Governi degli Stati membri in materia di giustizia e affari interni.
A completamento della ricognizione delle fonti del diritto europeo, mette conto di segnalare il successivo passo di armonizzazione delle normative interne compiuto in seno all’Unione: con il Trattato di Amsterdam, è stata infatti prevista l’integrazione nel corpus del diritto comunitario del contenuto dell’Accordo di Schengen e delle decisioni del Comitato esecutivo Schengen (cioè l’organo deputato ad applicare l’Accordo), dando vita ad un progetto di cooperazione rafforzata in materia di immigrazione nell’ambito istituzionale dell’UE ( e dunque con progressivo passaggio di competenze giurisdizionali e amministrative rispettivamente alla Corte di giustizia UE, relativamente alle garanzie giurisdizionali, ed al Consiglio UE per quanto attiene il ruolo precedentemente svolto dal Comitato esecutivo Schengen) nel rispetto dei principi e delle regole del Trattato di Maastricht (e, in particolare, del titolo VI del trattato sopra citato).

3. La legge 6 marzo 1998, n.40 (c.d. legge “Turco-Napolitano”) e il Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (D.lvo 25 luglio 1998, n.286).
Sul piano della normativa interna in tema di immigrazione e condizione dello straniero, il legislatore italiano si è mosso per lungo tempo secondo il deprecabile – ma purtroppo consueto – costume di “inseguire l’emergenza”, in concomitanza con alcuni episodi di rilevanza particolarmente drammatica (crisi in Somalia, esodo degli albanesi), adottando in materia di politica dell’immigrazione, tra il 1995 e il 1996, sei decreti legge, tutti decaduti per mancata conversione[2].
Attraverso detta politica di reiterato utilizzo della decretazione d’urgenza[3], il governo introdusse profonde modifiche all’impianto della c.d. “legge Martelli” ( introdotta con d.l. 30 dicembre 1989, n.416, convertito in legge 28 febbraio 1990, n.39) che costituiva la normativa di settore allora vigente, ma che si profilava quale strumento normativo ormai inadeguato a gestire efficacemente l’imponente ondata migratoria già in quegli anni in atto .
Successivamente, sempre nell’ambito della medesima discontinua politica emergenziale messa in atto, venne promulgata una legge di sanatoria degli effetti giuridici realizzatisi nella vigenza dei citati decreti-legge (legge 9 dicembre 1996, n.617) .
Su questo incerto quadro normativo s’innesta la legge 6 marzo 1998, n.40 (c.d. legge “Turco-Napolitano”), che costituisce il primo il tentativo di disciplinare organicamente tutti gli aspetti del fenomeno dell’immigrazione e della condizione dello straniero.
In via di estrema sintesi, la legge n.40/98 si articola sui seguenti temi principali:
a)enuncia una serie di “principi generali”[4], tra i quali la definizione di “straniero” agli effetti della legge italiana (art.1 T.U.Str.)[5], l’attribuzione a quest’ultimo dei “diritti fondamentali della personalità” (art.2, comma 1 T.U.Str.), e di un’articolata serie di diritti civili e di posizioni giuridiche soggettive di vantaggio, la cui concreta esplicazione è, peraltro, subordinata alla regolarità del soggiorno nel nostro Paese (art.2, comma 2, T.U.Str.)[6];
b)stabilisce una disciplina organica dell’immigrazione sulla base del principio delle c.d. “quote d’ingresso” stabilite con il “documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione”;
c)stabilisce i casi di respingimento e di espulsione (artt. 10 e segg. T.U.Str.);
d)disciplina la materia del lavoro dei cittadini extracomunitari sulla base di principi di tendenziale parità di trattamento rispetto ai lavoratori nazionali (art.21 T.U.Str.);
e)pone il principio della tutela dell’unità familiare e detta norme di favore rispetto ai c.d. “ricongiungimenti familiari”(Artt.28 e segg.. T.U.Str.);
f)regola le modalità di assistenza sanitaria, di istruzione e di integrazione degli immigrati, anche attraverso la previsione di idonee politiche di sostegno (artt.34 e segg. T.U.Str.);
g)stabilisce un’articolata serie di sanzioni penali a contrasto dell’immigrazione clandestina, dello sfruttamento dei lavoratori extracomunitari e degli eventuali casi di discriminazione (art.12 T.U.Str.).
Congruente con lo sforzo di dare organicità alla normativa è il dettato delle norme finali ( art. 46) della legge “Turco-Napolitano”) che dispongono una serie di abrogazioni di norme previgenti, la delega al governo per l’emanazione di un Testo Unico a regolamentare e coordinare la materia (poi realizzato: si tratta del D.lvo 25 luglio 1998, “Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”), e l’abrogazione quasi integrale della “legge Martelli”[7].

4. L’espulsione dello straniero.
Tra le norme caratterizzanti la legge n.40/98 e il T.U.Stranieri possono essere senza dubbio annoverate le nuove regole dettate in materia di espulsione.
La disciplina introdotta dalla “Turco Napolitano” si innesta, peraltro, su un quadro normativo asistemico, frammentato in una pluralità di fattispecie di “espulsione” che possono essere sinteticamente ricondotte alle seguenti fonti :

1)espulsione prevista dagli artt. 215,comma 3, n.4); 235 e 312 del codice penale;
2)espulsione prevista dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 (Testo Unico in materia di stupefacenti): art. 86;
3)espulsione quale misura di prevenzione;
4)espulsione c.d. “a richiesta” dello straniero o del suo difensore[8].

La legge n.40/98 provvede a razionalizzare – in parte – il sistema delle espulsioni dal territorio dello Stato, articolandolo su tre diversi istituti, peraltro tra loro accomunati soltanto dal nomen juris: espulsione amministrativa (art.11 legge n.40/98, ora artt.13 e 14 T.U.Stranieri), espulsione a titolo di sanzione sostitutiva alla detenzione (art.14 legge n. 40/98, ora art.16 T.U.Stranieri) e, infine, espulsione quale misura di sicurezza (art.13 legge n.40/98, ora art.15 T.U. Stranieri).
Rispetto alla precedente disciplina (legge “Martelli”), le fattispecie risultano ridotte, poiché non viene più prevista l’espulsione c.d. “a richiesta” né l’espulsione quale misura di prevenzione[9].
La riforma del 1998 non incide, invece, sulla normativa del codice penale e della legge in materia di stupefacenti: restano quindi in vigore le ipotesi di cui ai precedenti numeri 1) e 2), di talché il sistema delle espulsioni fino all’entrata in vigore della legge “Bossi-Fini”, è costituito dalle seguenti fattispecie:

1) artt.215,comma 3, n.4), 235 e 312 c.p.;
2) art.86 D.P.R. n.309/90;
3) espulsione amministrativa (art.13 e 14 T.U.Str.);
4) espulsione a titolo di misura di sicurezza (art.15 T.U.Str.);
5) espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione (art.16 T.U.Str.).

Il primo caso di espulsione, tra quelli sopra indicati, costituisce una previsione di carattere generale: come il cittadino, lo straniero presente nel territorio dello Stato è assoggettato tanto al sistema penale sanzionatorio (e dunque soggiace all’espiazione della pena se risulta condannato con sentenza definitiva), quanto al sistema penale amministrativo (e pertanto può essere destinatario, ricorrendone i presupposti stabiliti dalla legge, delle misure di prevenzione e delle misure di sicurezza)[10].
Precisamente, l’art. 235 c.p. stabilisce che l’espulsione dello straniero dal territorio dello Stato è ordinata dal giudice, “oltre che nei casi espressamente preveduti dalla legge”[11], quando lo straniero subisce una condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a dieci anni.
Si tratta dunque di una misura di sicurezza non detentiva che viene disposta dal giudice della cognizione penale in sede di condanna e viene concretamente applicata, terminata l’espiazione della pena detentiva (art.211 c.p.), dal magistrato di sorveglianza previo esame dell’attualità e della concretezza della pericolosità sociale dello straniero[12], in esito al procedimento camerale avanti a sé (artt.666 e 678 c.p.p.) e con le garanzie difensive proprie di quella procedura.
Sull’estensione della disciplina codicistica incidono, in senso soggettivo, la disposizione dell’art.4 c.p. , che definisce “straniero” chiunque non sia cittadino italiano (escludendo pertanto gli apolidi presenti nel territorio nazionale, contemplati invece dall’art.1 della legge n.40/98); la clausola di equiparazione di cui all’art. 242, comma 3, c.p., relativa a colui che abbia perduto la cittadinanza e venga condannato per un delitto contro la personalità dello Stato uti civis ; lo status di cittadino dell’Unione europea in capo al condannato nonché, infine, la previsione generale, applicabile in ogni caso quale norma più favorevole, contenuta nell’art.19 del T.U.Str., in ordine la divieto di applicare l’espulsione a soggetti rientranti nella fattispecie di salvaguardia ivi previste in tema di “diritto d’asilo.”
La misura di sicurezza è sempre revocabile, ai sensi dell’art.207 c.p., anche qualora questa sia stata già eseguita con il rientro dello straniero nel paese di origine[13].
Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, la misura di sicurezza non è incompatibile con l’ammissione del condannato – in costanza di espiazione della pena – ai benefici penitenziari e, in particolare, alle misure alternative alla detenzione.
Previsione speciale è, invece, quella contenuta nell’art. 86 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309 (T.U. in materia di stupefacenti), che contempla una duplice ipotesi di espulsione.
La prima fattispecie ( c.d. “espulsione obbligatoria”) ricorre nell’ipotesi in cui lo straniero venga condannato per taluno dei reati previsti dagli artt.73, 74,79 e 82, commi 2 e 3 del citato T.U.Stup.: in tali casi il giudice “deve” disporre che il condannato venga espulso dallo Stato a pena espiata; il secondo caso (c.d.”espulsione facoltativa”) consente al giudice la facoltà discrezionale di disporre la citata misura “nei confronti dello straniero condannato per uno degli altri delitti previsti dal presente testo unico”.
Va considerato che , non essendovi dubbi sulla natura di misure di sicurezza di entrambe le tipologie di espulsione in esame, anche per l’ipotesi “obbligatoria” non possa prescindersi, per la sua concreta applicazione al condannato che ha terminato di espiare la pena, dall’esame di pericolosità sociale da parte del magistrato di sorveglianza, secondo i principi e le regole comuni a tutte le misure di sicurezza[14].
Anche le espulsioni comminate ai sensi dell’art.86 citato sono sempre revocabili in seguito a procedimento davanti al magistrato di sorveglianza e non sono ostative alla concessione di misure alternative alla detenzione.
Le fattispecie introdotte dalla legge “Turco-Napolitano” sono costituite – come già accennato – da una triplice casistica, accomunata, oltre che dalla denominazione, dall’evidente finalità di favorire in ogni modo l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero che si sia reso colpevole di reati.
La prima ipotesi presa in considerazione dalla citata legge è quella dell’espulsione amministrativa, disciplinata dagli artt. 12 e 13 della legge n. 40/98 ( ora artt.13 e 14 del T.U.Str.).
Essa viene disposta dal Ministro dell’interno per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (questa fattispecie era presente anche nell’abrogata legge “Martelli”).
L’espulsione viene altresì comminata dal prefetto con decreto motivato nei casi di cui alle lettere a), b), e c) dell’art. 13 T.U.Str., quando cioè lo straniero ha fatto ingresso clandestinamente in Italia, non ha richiesto nel termine prescritto il permesso di soggiorno (ovvero questo gli è stato annullato, revocato, ovvero non sia stato rinnovato alla scadenza), ed infine qualora sia accertata[15] l’appartenenza dello straniero alle categorie di cui alla legge n. 1423/56 ( persona raggiunta da misure di prevenzione e ritenuta socialmente pericolosa, o appartenete ad associazioni mafiose)[16].
La seconda fattispecie, introdotta ex novo dalla “Turco-Napolitano”, è costituita dall’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione, prevista dall’art.14 della legge n.40 /98, ora art.16 del T.U.Str. .
Detta pena sostitutiva è applicata dal giudice della cognizione penale quando si tratta di straniero cui può essere applicata l’espulsione amministrativa, quando ritenga di dover irrogare una condanna a pena non inferiore ai due anni di reclusione, non ricorrano le condizioni per disporre la sospensione condizionale della pena e non vi siano le cause ostative di cui all’art.14 del T.U. Str. citato.
In tali casi, l’espulsione può essere eseguita anche prima dell’irrevocabilità della sentenza di condanna ed eseguita dal questore tramite accompagnamento alla frontiera dello straniero.
La terza ipotesi di espulsione è quella che maggiormente si avvicina agli omonimi istituti già presenti nell’ordinamento, poiché consiste nell’espulsione applicata a titolo di misura di sicurezza, disciplinata all’ art.13 della legge n.40/98 ora art.15 T.U.Str..
La norma citata stabilisce che “fuori dei casi previsti dal codice penale, il giudice può ordinare l’espulsione dello straniero che sia condannato per taluno dei delitti previsti dagli articoli 380 e 381 del codice di procedura penale, sempre che risulti socialmente pericoloso”.
Già alla prima lettura la norma si evidenzia quale frutto di una maldestra tecnica di redazione: la clausola di salvezza iniziale, che vorrebbe essere omnicomprensiva,omette invece ogni riferimento alle ipotesi di espulsione previste dal T.U.Stupefacenti, che oltretutto, nell’applicazione pratica, costituiscono la fattispecie di gran lunga la più applicata.
Sorprende, sotto tale profilo, che il legislatore del T.U.Stranieri abbia dimenticato di inserire il caso più frequente di espulsione giudiziaria nella clausola di salvezza che costituisce l’incipit della norma in esame.
Detta svista, tuttavia, rimane confinata agli aspetti formali e non ha ricadute pratiche di rilievo, poiché l’art.86 D.P.R. n. 309/90 non può ovviamente considerarsi implicitamente abrogato dal T.U.Str. e, infatti, continua ad essere pacificamente applicato nella prassi giurisprudenziale.
Ulteriore profilo formale che urta la sensibilità dell’interprete è rappresentato dalla formula di chiusura della norma in commento, che riserva l’applicabilità dell’espulsione allo straniero “sempre che risulti socialmente pericoloso” , stabilendo un’ovvietà giuridica ( il principio in questione è infatti – come già ricordato – ius receptum, sancito dall’art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n.663, c.d. legge “Gozzini”) e rappresenta forse il frutto della peculiare attenzione nei confronti dell’affermazione della giurisdizionalizzazione dei diritti dello straniero che animava il legislatore del 1998[17].
Un elemento di novità rispetto alla previgente disciplina è rappresentato dall’estensione dei casi in cui può essere ordinata l’espulsione ai soggetti condannati anche per le fattispecie di reato previste dall’art. 381 c.p.p. (cioè quei reati per i quali è consentito l’arresto facoltativo in flagranza), oltre che per le ipotesi di cui all’art. 380 c.p.p. (che prevede, invece, i casi di arresto obbligatorio in flagranza).
Per quanto attiene al meccanismo procedurale di applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero nelle articolate ipotesi sopra brevemente descritte, esso è disciplinato dal codice di procedura penale agli articoli 658, 659, 666, 678, 679 c.p.p., 189-181 disp.att. c.p.p. nonché dall’art. 69 della legge 26 luglio 1975, n.354 (c.d. “Ordinamento Penitenziario”).
L’oggetto del procedimento di sorveglianza in materia di misure di sicurezza ( e, dunque, in caso di espulsione dello straniero) ha come oggetto l’accertamento dell’attualità della pericolosità sociale dell’interessato (art. 679 c.p.p.) [18].
Alla luce del complesso articolato sopra citato, si evidenzia che il procedimento può essere attivato dal PM competente per l’esecuzione della sentenza, se la misura è stata applicata con la pronuncia di condanna dal giudice della cognizione penale, ovvero può originarsi a iniziativa officiosa dello stesso magistrato di sorveglianza.
Nel primo caso, il PM presso il giudice dell’esecuzione trasmette gli atti al PM presso il magistrato di sorveglianza competente, che viene investito della richiesta di riesame della pericolosità sociale dello straniero al fine dell’applicazione effettiva della misura irrogata dal giudice penale (art.658 c.p.p.).
Il procedimento avanti al magistrato di sorveglianza viene celebrato con il rito camerale proprio dei procedimenti di sorveglianza (art. 666, 678 c.p.p.), con la garanzia del contraddittorio pieno e la possibilità per lo straniero, che sia detenuto nella giurisdizione del magistrato che procede, di interloquire personalmente in udienza[19].
Il provvedimento emesso dal magistrato di sorveglianza in esito all’udienza camerale prende la forma dell’ordinanza (art. 69 O.P.), impugnabile davanti al tribunale di sorveglianza, la cui decisione è ricorribile per cassazione, con la possibilità, per il tribunale citato, di sospendere l’efficacia della decisione impugnata fino all’esito del giudizio di legittimità (art.666, comma 7, c.p.p.).
I provvedimenti in materia di misure di sicurezza sono eseguiti dal PM presso il giudice di sorveglianza che li ha adottati, attraverso la comunicazione dei provvedimenti stessi all’autorità di P.S. e, se del caso, emettendo ordine di esecuzione con il quale dispone la liberazione o la consegna dello straniero (art.659 c.p.p.).
Negli altri casi di espulsione previsti dal T.U.Str., la tutela giurisdizionale è assicurata dalla espresso indicazione delle competenze giurisdizionali, riconducibili, grosso modo, al principio dell’affermazione della giurisdizione del giudice ordinario in materia di lesione dei diritti soggettivi dello straniero, e per converso del T.A.R. in rapporto alla violazione degli interessi legittimi, secondo la classica bipartizione prevista a livello generale dall’ordinamento.
Mette conto di osservare, infine, che il T.U.Str. (art.19, già art.17 legge n.40/98) prevede un’articolata serie di ipotesi che ostano in via assoluta all’eseguibilità dell’espulsione, in tutte le forme previste dalla legge.
Le fattispecie richiamate dalla norma citata attengono principalmente a profili connessi con il c.d. “diritto d’asilo” (art.19, comma 1, T.U.Str.) ovvero lato sensu umanitari (art.19 cit., comma 2, lett. a-d), che trovano tutela e copertura costituzionale nel citato art.10. comma 3 della Costituzione..

La nuova disciplina dell’espulsione (legge 30 luglio 2002, n.189 ).

Con la pubblicazione nella G.U. del 27 agosto 2002 è stata introdotta nell’ordinamento, nel testo approvato dal Senato della Repubblica l’11 luglio 2002, la legge 30 luglio 2002, n.189, recante norme di”Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo”, meglio conosciuta come legge “Bossi-Fini”, la quale, oltre che per svariati altri aspetti innovativi, in larga parte già anticipati dalla stampa, detta nuove regole in materia di espulsione dello straniero.
In particolare, l’art.12 (Espulsione amministrativa), contenuto nel Capo I (Disposizioni in materia di immigrazione ) della legge citata, interviene a modificare il corrispondente articolo 13 del Testo Unico Stranieri (decreto legislativo n. 286 del 1998), novellandone estese parti.
Anzitutto, è previsto che il decreto di espulsione emesso dal prefetto sia immediatamente esecutivo, anche se sottoposto a gravame o impugnativa da parte dell’interessato.
Si tratta con ogni evidenza, di una disposizione diretta a scoraggiare l’utilizzo strumentale dei meccanismi di tutela giurisdizionale previsti in rapporto ai provvedimenti espulsivi a fini meramente dilatori.
Peraltro, viene estesa la possibilità per il questore di chiedere il nulla-osta all’ autorità giudiziaria per l’espulsione dello straniero che si trova sottoposto a procedimento penale anche con riferimento al soggetto sottoposto agli arresti domiciliari: la norma, infatti, limita l’applicabilità dell’espulsione anticipata ante iudicium in esame allo straniero che “si trova in stato di custodia cautelare in carcere”.
Vengono, inoltre, precisate le “inderogabili esigenze processuali” alla luce delle quali il giudice che procede può negare il nulla osta chiesto dal questore: esse devono infatti consistere, secondo la nuova legge, nelle necessità istruttorie relative “all’accertamento della responsabilità di eventuali concorrenti nel reato o imputati in procedimenti per reati connessi, e all’interesse della persona offesa”.
Si profila dunque, in siffatti casi, l’esigenza di una motivazione rafforzata dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria di rifiuto dell’autorizzazione all’espulsione anticipata dell’ imputato straniero.
In tal caso, comunque, l’esecuzione del provvedimento è sospesa fino a quando l’autorità giudiziaria comunica la cessazione delle esigenze processuali.
Il questore, ottenuto il nulla osta, provvede all’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica ( che diviene, in seguito alle modifiche apportate dalla legge n.189/02, il mezzo ordinario di esecuzione delle espulsioni) salve le limitate deroghe previste dal novellato art.13, comma 4, in esame.
A fini di snellimento dell’iter procedimentale, la “Bossi-Fini” conferma il meccanismo previsto dalla “Turco-Napolitano” in materia di silenzio-assenso circa il rilascio del nulla osta dell’autorità giudiziaria, che si intende, dunque, concesso qualora la medesima non provveda entro quindici giorni dalla data di ricevimento della richiesta.
In attesa della decisione sulla richiesta di nulla osta, il questore può adottare la misura del trattenimento presso un centro di permanenza temporanea.
Nel caso di arresto in flagranza o di fermo, il nulla osta è rilasciato in sede di giudizio di convalida salvo che sia applicata la misura della custodia cautelare in carcere ai sensi dell’articolo 391, comma 5, del codice di procedura penale, o che ricorra una delle ragioni per le quali il nulla osta può essere negato (art. 13, comma 3 bis, T.U.Str.).
L’espulsione amministrativa si applica anche allo straniero, sottoposto a procedimento penale, dopo che sia stata revocata o dichiarata estinta la misura della custodia cautelare in carcere applicata nei suoi confronti.
Il giudice, con lo stesso provvedimento con il quale revoca o dichiara l’estinzione della misura, decide sul rilascio del nulla osta all’esecuzione dell’espulsione e il provvedimento è immediatamente comunicato al questore (art. 13 comma 3 ter, T.U.Str.).
Nei casi sopra descritti, è prevista la pronuncia di sentenza di non luogo a procedere da parte del giudice che abbia acquisita la prova dell’avvenuta espulsione, se non è ancora stato emesso il provvedimento che dispone il giudizio, (art. 13 comma 3 quater, T.U.Str.).
Si tratta di una delle, non infrequenti, ipotesi in cui la nuova legge fa emergere le conseguenze della scelta di politica giudiziaria effettuata in sede parlamentare, con la quale si è ritenuta la prevalenza dell’interesse pubblico connesso all’espulsione dello straniero sottoposto a procedimento penale rispetto all’esigenza dell’accertamento della responsabilità penale del soggetto in rapporto al fatto-reato commesso.
Detta filosofia è, nella fattispecie, mitigata in rapporto alla commissione di delitti di particolare allarme sociale: il nulla osta all’espulsione non può essere, infatti, concesso qualora si proceda per uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, nonché dall’articolo 12 del Testo Unico Stranieri (art. 13 comma 3 sexies T.U.Str.).
Come accennato, la legge “Bossi-Fini” sancisce, con il novellato comma 4 dell’ art.13 del T.U.Str., la modalità dell’accompagnamento coattivo alla frontiera quale procedura ordinaria per l’esecuzione dell’espulsione, con l’ eccezione dei casi di cui al successivo comma 5 della norma citata.
Tale disposizione stabilisce che nei confronti dello straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato quando il permesso di soggiorno è scaduto di validità da più di sessanta giorni e non ne è stato chiesto il rinnovo, l’espulsione contenga l’intimazione a lasciare il territorio dello Stato entro il termine di quindici giorni.
Tuttavia, il questore dispone l’accompagnamento immediato alla frontiera dello straniero, nei casi in cui il prefetto rilevi il concreto pdricolo che quest’ultimo si sottragga all’esecuzione del provvedimento.
La disposizione da ultimo citata rende l’eccezione alla regola dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera un evenienza quasi scolastica, tenuto conto che, nell’applicazione pratica, è verosimile ritenere che il prefetto riconoscerà nella quasi totalità dei casi la ricorrenza del pericolo indicato dalla norma in commento.
Sotto il profilo della tutela giurisdizionale, il novellato comma 8 dell’art.13 T.U.Str. prevede, quale unica istanza attivabile, il ricorso al tribunale in composizione monocratica del luogo in cui ha sede l’autorità che ha disposto l’espulsione, nel termine di sessanta giorni dalla data del provvedimento di espulsione.
Se è indubitabile che il termine decadenziale in parola risulti notevolmente ampliato rispetto all’originaria previsione della “Turco-Napolitano”, deve per converso osservarsi come il nuovo e più largo termine sia fatto decorrere non già – come nella previgente disciplina – dalla comunicazione all’interessato, bensì – come detto – dalla data dell’atto, che dunque può restare non conosciuto dal soggetto destinatario anche per fatto a quest’ultimo non imputabile.
Tale rilievo fonda il conseguente dubbio di costituzionalità della disposizione esaminata, sotto il profilo della carenza di tutela defensionale accordata, poiché fa discendere la possibilità per l’interessato di esercitare il proprio diritto di difesa non già dalla conoscenza (effettiva o legale) dell’atto a lui diretto, bensì dalla data di emissione del provvedimento.
Il tribunale in composizione monocratica accoglie o rigetta il ricorso, decidendo con unico provvedimento adottato, in ogni caso, entro venti giorni dalla data di deposito del ricorso (il legislatore della “Bossi-Fini” ha raddoppiando il termine – peraltro ordinatorio – entro il quale il giudice deve pronunciarsi).
Lo straniero che contravviene alle disposizioni in materia di espulsione sopra descritte è punibile secondo un’articolata serie di ipotesi contenute ai commi 13 e segg. introdotti ex novo dalla “Bossi-Fini” nel corpo dell’originario art.13 del T.U.Str. [20].
L’espulsione amministrativa sopra descritta non si configura quale provvedimento definitivo, rappresenta piuttosto un’interdizione temporanea dell’ingresso nello Stato, per un periodo che ordinariamente è decennale ma che può essere più breve, in ogni caso non inferiore a cinque anni.
La commisurazione della durata della misura è parametrata alla valutazione della complessiva condotta tenuta dall’interessato nel periodo di permanenza in Italia (art.13, comma 14 T.U.Str.).
L’art. 13 (Esecuzione dell’espulsione) della “Bossi-Fini” si occupa degli aspetti operativi dell’espulsione, novellando in larga misura il corrispondente art.14 del al decreto legislativo n. 286 del 1998.
In particolare, il termine massimo di trattenimento nei centri di permanenza nel caso di convalida del provvedimento del questore da parte del giudice, è innalzato a trenta giorni rispetto ai venti dell’originaria previsione della “Turco-Napolitano”
Qualora poi l’accertamento dell’identità e della nazionalità dello straniero, ovvero l’acquisizione di documenti per il viaggio presenti “gravi difficoltà”, il giudice, su richiesta del questore, può prorogare il termine di ulteriori trenta giorni.
A differenza del procedimento per il rilascio del nulla osta all’espulsione ante iudicium dello straniero – che prevede l’onere di motivazione rafforzata al giudice che nega il nulla osta all’espulsione – , nel caso in esame il legislatore ha invece lasciato al giudice un’ampia discrezionalità nello stabilire la sussistenza del presupposto di legge – piuttosto generico – costituito dalle gravi difficoltà incontrate dall’autorità di P.S. per l’identificazione dello straniero o l’acquisizione dei documenti di viaggio.
Anche prima del termine – originario ovvero prorogato iussu iudicis – in ogni caso, il questore esegue l’espulsione o il respingimento, quando sia in possesso di tutti i dati e dei documenti necessari dandone comunicazione senza ritardo al giudice.
Con previsione innovativa rispetto alla “Turco-Napolitano”, la nuova legge disciplina il caso (piuttosto frequente nella pratica) in cui non sia stato possibile trattenere lo straniero presso un centro di permanenza temporanea, ovvero siano trascorsi i termini massimi di permanenza senza aver eseguito l’espulsione o il respingimento: in tali evenienze, il questore ordina allo straniero di lasciare il territorio dello Stato entro il termine di cinque giorni.
L’ordine è dato con provvedimento scritto, recante l’indicazione delle conseguenze penali [21]della sua trasgressione (art. 14 comma 5 bis T.U.Str.).
In questo caso, per assicurare l’esecuzione dell’espulsione, il questore può disporre i provvedimenti di cui al comma 1 dell’art. 14 T.U.Str., ordinando che lo straniero sia allocato, per il tempo strettamente necessario, presso un centro di permanenza.
L’art. 14 della legge “Bossi-Fini”(Ulteriori disposizioni per l’esecuzione dell’espulsione) modifica l’articolo 15 del T.U.Stranieri, a partire dalla stessa rubrica della norma, che ora recita”Espulsione a titolo di misura di sicurezza e disposizioni per l’esecuzione dell’espulsione”.
La riforma aggiunge alla norma un ulteriore comma ( 1 bis), contenente disposizioni di raccordo tra le autorità giudiziarie ed amministrative al fine di rendere tempestivo il provvedimento di espulsione dopo la cessazione del periodo di custodia cautelare o l’espiazione della pena detentiva.
L’articolo 15 della riforma in commento novella l’articolo 16 del T.U.Stranieri, rubricato ora “Espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione”, introducendo una delle novità più significative della riforma.
La norma novellata recita:“ Il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o nell’applicare la pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, quando ritiene di dovere irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi dell’articolo 163 del codice penale né le cause ostative indicate nell’articolo 14, comma 1, del presente testo unico, può sostituire la medesima pena con la misura dell’espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni.
2. L’espulsione di cui al comma 1 è eseguita dal questore anche se la sentenza non é irrevocabile, secondo le modalità di cui all’articolo 13, comma 4.”
La nuova formulazione dei primi due commi della norma in esame è, in realtà, la mera riproposizione dei primi due commi del vecchio art.16 del T.U.Str.
Gli elementi di novità sono invece contenuti nella formulazione successiva, che introduce ben sette nuovi commi, il cui testo è il seguente:
“3. L’espulsione di cui al comma 1 non può essere disposta nei casi in cui la condanna riguardi uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero i delitti previsti dal presente testo unico, puniti con pena edittale superiore nel massimo a due anni”.
Si tratta di una previsione – non contenuta nel corrispondente articolo della “Turco-Napolitano” – che ripropone il tema generale del divieto di espulsione, già espresso nel dettato sui limiti all’espulsione ante iudicium di cui all’art.13 , comma 3 sexies, del T.U.Str., per coloro che si siano macchiati di reati particolarmente gravi, ovvero dei reati previsti dal T.U. Str.
In detti casi, evidentemente, il legislatore nel bilanciare i configgenti principi dell’effettività dell’esecuzione delle pene e dell’interesse pubblico connesso alla deflazione della popolazione carceraria, ha ritenuto – come già osservato – di far prevalere il primo, tenendo conto dell’esigenza di assicurare la punizione degli autori di crimini di particolare allarme sociale.
La disposizione dell’art.16 T.U.Str. appare tuttavia – pur nell’identica ratio – diversa da quella di cui all’art. 13 comma 3 sexies sopra ricordata, poiché limita la facoltà del giudice di applicare l’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione, circoscrivendo il divieto di applicare la citata misura in rapporto alle condanne relative ai reati di cui al T.U. Str. puniti con pena edittale superiore nel massimo a due anni.
Il successivo comma 4, introdotto dalla “Bossi-Fini” , prevede il caso di revoca della sanzione sostitutiva della detenzione con ripristino dell’originaria pena detentiva irrogata:
“4. Se lo straniero espulso a norma del comma 1 rientra illegalmente nel territorio dello Stato prima del termine previsto dall’articolo 13, comma 14, la sanzione sostitutiva è revocata dal giudice competente”.
La seconda parte (commi 5 e segg.) dell’art.16, nella sua nuova formulazione, contiene senza dubbio le novità più interessanti, seppure le disposizioni in esso contenute si collochino fra le norme che presentano maggiori difficoltà all’interprete fra quelle di nuova vigenza, sotto il profilo tanto ermeneutico quanto in ordine al loro inquadramento sistematico .
Il novellato art. 16, commi 5 e seguenti, del T.U.Str. introduce, infatti, un’originale figura di “sanzione alternativa alla detenzione” che appare a prima lettura – già nella sua stessa denominazione – essere un originale istituto, dotato, apparentemente, della duplice natura di pena o sanzione sostitutiva e insieme di misura alternativa alla detenzione.
Originale istituto, questo in esame, poiché l’ordinamento conosce bensì le “sanzioni sostitutive alla detenzione” e le “misure alternative alla detenzione”, mentre ora l’interprete deve confrontarsi con un inedito tertium genus, costituito dalle “sanzioni alternative alla detenzione”.
Tuttavia, l’esame delle disposizioni in commento contribuisce a dissipare molti dubbi classificatori.
La norma citata stabilisce infatti:
“5. Nei confronti dello straniero, identificato, detenuto, che si trova in taluna delle situazioni indicate nell’articolo 13, comma 2, che deve scontare una pena detentiva, anche residua, non superiore a due anni, è disposta l’espulsione. Essa non può essere disposta nei casi in cui la condanna riguarda uno o più delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, ovvero i delitti previsti dal presente testo unico”.
6. Competente a disporre l’espulsione di cui al comma 5 è il magistrato di sorveglianza, che decide con decreto motivato, senza formalità, acquisite le informazioni degli organi di polizia sull’identità e sulla nazionalità dello straniero. Il decreto di espulsione è comunicato allo straniero che, entro il termine di dieci giorni, può proporre opposizione dinanzi al tribunale di sorveglianza. Il tribunale decide nel termine di venti giorni.
7. L’esecuzione del decreto di espulsione di cui al comma 6 è sospesa fino alla decorrenza dei termini di impugnazione o della decisione del tribunale di sorveglianza e, comunque, lo stato di detenzione permane fino a quando non siano stati acquisiti i necessari documenti di viaggio. L’espulsione è eseguita dal questore competente per il luogo di detenzione dello straniero con la modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica.
8. La pena è estinta alla scadenza del termine di dieci anni dall’esecuzione dell’espulsione di cui al comma 5, sempre che lo straniero non sia rientrato illegittimamente nel territorio dello Stato. In tale caso, lo stato di detenzione è ripristinato e riprende l’esecuzione della pena”.
9. L’espulsione a titolo di sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione non si applica ai casi di cui all’articolo 19″.
L’espulsione introdotta dalla “Bossi-Fini” – è evidente dal tenore della norma – si colloca nella fase dell’esecuzione, e presuppone, conseguentemente, l’esistenza di un titolo esecutivo, che deve essere costituito da una condanna a pena, anche residua, non superiore ai due anni di reclusione.
Sono peraltro fatti salvi- a motivo delle sopra ricordate esigenze di prevalenza del principio di certezza della pena in relazione a delitti di particolare allarme sociale – i casi di condanne per i delitti previsti dall’art.407, comma 2 lett.a) del c.p.p. e i delitti connessi all’immigrazione clandestina previsti dal T.U.Str. .
Quanto sopra induce a ritenere che il legislatore abbia in realtà voluto creare una nuova forma di pena sostitutiva alla detenzione applicata in sede esecutiva piuttosto che una vera e propria misura alternativa alla stessa.
Infatti, l’applicazione della nuova figura di espulsione si configura quale potere-dovere del giudice (“è disposta l’espulsione”) assumendo quel carattere necessitato, tipico dell’applicazione della pena, che è, invece, estraneo all’istituto delle misure alternative alla detenzione: che riveste, al contrario, opposte connotazioni di eventualità e discrezionalità nell’applicazione congruenti con la struttura e le finalità del diritto penitenziario.
Non può inoltre non osservarsi – anche se il rilievo è al limite dell’ovvietà – che l’essenza stessa dell’espulsione si pone in contrasto insanabile con le finalità delle misure alternative alla detenzione, che – come è noto – sono strutturate dall’ordinamento quale strumento di risocializzazione e pertanto tendono a favorire, anche attraverso la formulazione di opportune prescrizioni, il reingresso del condannato in quel tessuto sociale dal quale, invece, la misura dell’espulsione tende ad allontanarlo in via tendenzialmente – anche se non necessariamente – definitiva.
L’unico, flebile, aggancio con il momento dell’esecuzione penitenziaria in senso proprio, e dunque con il mondo delle misure alternative alla detenzione, è costituito dall’attribuzione della competenza ad applicare la “sanzione alternativa” dell’espulsione al magistrato di sorveglianza e, in sede di eventuale gravame, al tribunale di sorveglianza.
Detta liaison con la fase dell’esecuzione si giustifica peraltro alla luce della considerazione che l’applicazione dell’espulsione, nella fattispecie in esame, costituisce ad ogni effetto una nuova ipotesi di vicenda modificativa della pena nel rapporto di esecuzione, e come tale si è evidentemente ritenuto da parte del legislatore di attribuirne la competenza al giudice di sorveglianza.
Pare difficile negare che abbia inoltre pesato, nella scelta dell’autorità giudiziaria da indicare quale giudice competente a disporre l’espulsione in esame, la considerazione che il magistrato di sorveglianza rappresenta il giudice di prossimità dei soggetti stranieri detenuti, cui immediatamente si applicherà il nuovo istituto, e, come tale, costituisce l’organo giudiziario maggiormente idoneo a gestire la procedura prevista dall’art.16 in esame[22], anche sotto l’aspetto istruttorio.
Sotto un profilo sistematico più generale, la nuova figura di espulsione va ad aggiungersi al novero delle fattispecie modificative del rapporto di esecuzione penale, vale a dire dello specifico ambito di competenza del giudice di sorveglianza .
La materia delle vicende modificative del rapporto esecutivo comprende invero un duplice profilo: possono aversi, infatti, cause modificative in senso qualitativo della pena irrogata nella sentenza di condanna, e cause modificative in senso quantitativo.
Sotto il primo aspetto, fattispecie emblematiche e – potremmo dire- eclatanti di modificazioni qualitative della pena detentiva stabilita nella sentenza di condanna sono rappresentate dagli interventi del magistrato e tribunale di sorveglianza quando applica, revoca o dichiara cessate le misure alternative alla detenzione (art.70 O.P.).
Il giudice di sorveglianza opera, in tal modo, una vera e propria trasformazione della specie dell’originaria pena stabilita nella sentenza di condanna, giudicando della sussistenza dei presupposti per l’espiazione della pena, irrogata dal giudice della cognizione, in forme differenziate – anche prescindenti dal carcere –in rapporto all’evoluzione della personalità del condannato ed alle esigenze rieducative e specialpreventive proprie del soggetto sottoposto ad espiazione della sanzione penale.
Il potere del giudice di sorveglianza di incidere in maniera così profonda sulla decisione del giudice della cognizione pone evidenti problemi di compatibilità con il principio di immutabilità della decisione fissata definitivamente nella sentenza di condanna una volta che questa sia divenuta irrevocabile con il passaggio in giudicato e, in definitiva, appare confliggere con il valore primario costituito della certezza del diritto e della pena[23].
Sotto l’aspetto quantitativo, invece, l’ipotesi paradigmatica di fattispecie modificativa del rapporto di esecuzione penitenziaria è rappresentata dalla riduzione progressiva della durata della pena da espiare per effetto della concessione, da parte del giudice di sorveglianza, della riduzione della pena a titolo di liberazione anticipata, sul presupposto ed a riconoscimento della regolare condotta del condannato e della sua partecipazione all’opera di rieducazione (art.54 O.P.).
La fattispecie di espulsione introdotta dall’art. 16 del T.U.Str. novellato, può quindi essere ricondotta al primo profilo considerato, e dunque può definirsi un caso di intervento del giudice di sorveglianza di tipo modificativo della pena .
Deve, peraltro, osservarsi che mentre le ipotesi di modificazione qualitativa del rapporto esecutivo (e in buona sostanza della pena) diremmo “classiche” cioè le misure alternative alla detenzione si pongono in rapporto diretto con il principio costituzionale che impone la finalizzazione rieducativa delle pene medesime, l’espulsione prevista dalla “Bossi-Fini”, pur incidendo pesantemente sul principio di certezza della pena e di necessaria integrale esecuzione della stessa, non ha fondamento in analoga fonte costituzionale che possa giustificare la rottura con il principio di certezza della pena sopra ricordato.
Alla luce dell’inquadramento sistematico sopra svolto, pare similmente criticabile la scelta del legislatore di aver subordinato l’applicazione dell’espulsione all’unico e mero presupposto della presenza di una condanna a pena anche residua non superiore ai due anni, senza arricchire la previsione normativa di ulteriori parametri valutativi collegati alla meritevolezza dello straniero interessato al provvedimento (come avviene nelle altre ipotesi di modificazione qualitativa della pena: misure alternative alla detenzione; sanzioni sostitutive alla detenzione).
Di più, si è introdotta – come sopra ricordato – una previsione di sostanziale vincolatività del dato oggettivo rappresentato dalla dimensione quantitativa della condanna, nei confronti della decisione che il giudice di sorveglianza è tenuto ad adottare,ciò che confligge una volta ancora con il sistema e con i principi che lo reggono.
Ulteriore elemento distonico della fattispecie di espulsione in esame con il sistema dell’esecuzione penale è costituito dalla mancata previsione di un contraddittorio immediato in sede di applicazione della misura: invero, l’art.16, comma 6, del T.U.Str. modella un procedimento a contraddittorio differito al momento dell’eventuale investitura del tribunale di sorveglianza in seguito ad opposizione dello straniero cui è stato comunicato il decreto di espulsione emesso inaudita parte dal magistrato di sorveglianza.
L’istituto, così come sta, si pone in contrasto con quel progressivo e garantistico processo di giurisdizionalizzazione della fase dell’esecuzione penale che postula la tutela del contraddittorio pieno (con la possibilità dunque per l’interessato di interloquire fin dall’inizio della procedura con il giudice).
Un caso non dissimile si verificò all’indomani dell’entrata in vigore della legge n.165/98 (c.d.”legge Simeone”), che, novellando l’art.656 c.p.p. aveva introdotto, al comma 10 della norma citata, un procedimento – di competenza del tribunale di sorveglianza – di eventuale applicazione della misura alternativa della detenzione domiciliare inaudita parte, sollevando analoghi dubbi e perplessità, soprattutto da parte della giurisprudenza di merito.
La novella della legge n. 4 del 20 gennaio 2001 ha, comunque, ricondotto a compatibilità costituzionale il procedimento disciplinato dall’art 656 comma 10 c.p.p. : ratificando la prassi giurisprudenziale “garantista” creatasi contra legem, la nuova formulazione della norma citata stabilisce, eliminando l’inciso presente nella versione originaria -“senza formalità” – che la decisione in ordine all’eventuale applicazione al condannato delle misure alternative previste al comma 5 dello stesso articolo venga assunta dal tribunale in seguito a procedimento di sorveglianza, celebrato con il rito a contraddittorio pieno, previsto dall’art. 678 c.p.p .
Tale doverosa correzione dell’originaria lettera della norma, nell’espungere dall’ordinamento un rito atipico, privo di contraddittorio e incompatibile con i più elementari principi di civiltà giuridica, ristabilisce il principio del pieno contraddittorio anche in relazione al procedimento ai sensi dell’art. 656 c.p.p.[24] .
E’ da ritenere che analoga prassi giurisprudenziale e analoghe iniziative legislative possano intervenire a sanare l’attuale vulnus nel diritto di difesa degli interessati alla procedura di espulsione in commento.
La procedura introdotta dalla “Bossi-Fini” prevede che, nel caso di opposizione dell’interessato al decreto di espulsione nel termine decadenziale previsto dalla legge, il caso passa alla cognizione del tribunale di sorveglianza competente, individuato secondo le regole di cui all’art.677 c.p.p. .
Il tribunale procede a norma dell’art.678 c.p.p. e pronuncia con ordinanza, che può essere ricorsa per cassazione.
E’ da ritenere che il tribunale possa disporre, ai sensi dell’art.666, comma 7 c.p.p., la provvisoria sospensiva dell’ordinanza impugnata in cassazione, qualora ricorrano i presupposti tipici del fumus boni iuris e del periculum in mora .
L’istruttoria che il giudice di sorveglianza è chiamato a svolgere secondo la nuova legge è limitata all’acquisizione delle necessarie informazioni presso gli organi di polizia in ordine “all’identità e alla nazionalità dello straniero”.
A prescindere dalla pleonastica formulazione della disposizione (il concetto di identità contiene in sé quello di nazionalità),
Sul piano pratico, l’accertamento dell’identità dello straniero presenta, com’è noto, notevoli difficoltà, per il diffuso utilizzo di svariati alias da parte degli stranieri non regolari.
A complicare le cose si aggiunge la circostanza che spesso lo straniero, all’atto del primo controllo di polizia, non è stato correttamente identificato (anche il cambiamento di una sola lettera del nome – spesso di difficile comprensione per gli operatori – può causare enormi problemi di identificazione corretta dell’individuo) e che ben difficilmente vi sono precedenti rilievi dattiloscopici depositati presso le questure.
E’ da ritenere peraltro che, qualora si raggiunga certezza in ordine all’identità fisica dello straniero interessato alla procedura di espulsione in commento, sia doveroso estendere l’indagine istruttoria all’acquisizione dei precedenti penali del soggetto ed alla sua esatta posizione giuridica, particolarmente sotto il profilo della (probabile) sussistenza di più titoli in esecuzione concorrente sia pure sotto diversi alias a carico della medesima persona.
Tale profilo, posto in rapporto con il potere-dovere del PM che cura l’esecuzione di provvedere alla formazione del c.d. “cumulo delle pene”, è suscettibile di incidere sull’accertamento dell’unico presupposto fondante l’espulsione de qua (pena anche residua non superiore agli anni due di reclusione) potendo determinare, infatti, il superamento del limite normativo citato e – per conseguenza – l’interdizione all’espulsione.
Ulteriore fattispecie interdittiva – che ragionevolmente dovrà formare oggetto anch’essa di adeguata istruttoria – che interessa la descritta ipotesi di espulsione è costituita dal generale divieto di applicazione della stessa nei confronti di soggetti tutelati dal c.d. “diritto di asilo” (art.16 comma 9, T.U.Str.), il cui fondamento è sancito, nell’ordinamento interno, dall’art.10 comma 3, della Carta costituzionale.
L’art.16, comma 8, del T.U.Str. stabilisce che la pena è estinta decorsi dieci anni e qualora lo straniero non abbia fatto reingresso clandestino in Italia (in tale caso, la pena riprende il suo corso ordinario con il ripristino dello stato detentivo).
E’ dubbia, in tal caso, la necessità di un’ulteriore pronuncia da parte del giudice di sorveglianza, dovendosi ritenere che la fattispecie preveda un’ipotesi di revoca automatica del provvedimento di espulsione.
In tale caso, infatti, il PM incaricato dell’esecuzione provvederebbe ad emettere ordine di esecuzione per la pena residua da espiare e l’interessato potrà interloquire eventualmente attraverso lo strumento generale dell’incidente di esecuzione.
A tale conclusione induce il raffronto tra il comma 4 dell’art.16 in esame, che prevede, testualmente, l’intervento del giudice competente, che revoca la sanzione sostitutiva dell’espulsione in rapporto al rientro clandestino dello straniero nel territorio dello Stato; e quanto prevede, invece,il comma 8 della norma citata, che omette qualsiasi riferimento ad un intervento – sia pure a carattere ricognitivo della sussistenza dei presupposti previsti dalla legge – dell’autorità giudiziaria.
Resta, conseguentemente, irrisolto il problema connesso con la ravvisata esigenza di effettuare un compiuto accertamento dell’esistenza dell’antecedente fattuale (ingresso illegittimo dello straniero espulso in Italia prima che sia decorso il termine decennale) che, combinandosi con il provvedimento del magistrato o del tribunale di sorveglianza, va a costituire il titolo esecutivo che il PM pone in esecuzione con l’emissione dell’ordine di esecuzione, cui si è fatto sopra cenno.
Lasciare tale incombente all’ufficio del PM competente per l’esecuzione rappresenterebbe una soluzione confliggente con il ruolo del PM nella fase dell’esecuzione e disarmonica, in particolare, rispetto al principio della giurisdizionalizzazione dell’esecuzione penale: verrebbe, infatti, ammesso l’intervento del PM a unilaterale modifica di una situazione giuridica (sostituzione della pena residua espianda con l’espulsione) generata da una pronuncia giudiziale (del magistrato ovvero in seconda istanza del tribunale di sorveglianza), senza che, a sancire detta interversione vi sia una nuova pronuncia dell’organo giurisdizionale.
Appare pertanto ineludibile un intervento del legislatore in relazione al delicato profilo sopra evidenziato, al fine di riportare coerenza sistematica e razionalità all’interno di un istituto – l’espulsione a titolo di “sanzione alternativa alla detenzione” – che, per l’infelice mano del legislatore, rischia di essere il “figlio di un dio minore” nel panorama della riforma della normativa sugli stranieri appena varata dal Parlamento.
Fabio Fiorentin
Note:
[1] Il 19 giugno1990 i Paesi contraenti dell’originario Accordo del 1985 stipularono una Convenzione che regolamentava compiutamente la materia oggetto dell’Accordo. L’Italia ha aderito, assieme ad altri Stati, alla citata Convenzione, con legge 30 novembre 1993, n.388, che ha autorizzato la ratifica dell’Accordo e della Convenzione di Schengen, consentendone dunque l’applicazione nel nostro ordinamento. A causa della necessità di adeguare alcune norme interne ai principi europei, l’effettiva applicazione dell’Accordo per il nostro Paese decorre dal 26 ottobre 1997.
[2] La decadenza ex tunc dei citati decreti-legge si è verificata per il mancato rispetto del termine dei sessanta giorni dalla pubblicazione per la conversione in legge dei decreti medesimi :cfr. Corte Costituzionale, ordinanza 30 ottobre 1996, n.366.
[3] La citata prassi governativa venne censurata dalla Corte Costituzionale, che ribadì l’incostituzionalità della reiterazione dei decreti-legge: cfr. Corte Costituzionale, 24 ottobre 1996,n.360, riportata da Canzio in “Il Foro Italiano”, 1997, 295.
[4] Tali principi hanno efficacia vincolante per la legislazione delle Regioni, costituendo “principi fondamentali” secondo la previsione dell’art.117 della Costituzione (art.1, comma 4, legge n. 40/98).
[5] Una definizione normativa di colui che è considerato “straniero” ai fini della legge si è resa necessaria per un verso dalla difficoltà di enucleare un concetto unitario del termine e, per l’altro, di distinguere opportunamente, nell’ambito degli “stranieri” tradizionalmente intesi, i cittadini appartenenti agli Stati che aderiscono all’Unione Europea. A tal fine, il legislatore della “Turco-Napolitano” stabilisce che sono da considerarsi “stranieri” e destinatari della legge n.40/98 i cittadini degli Stati non appartenenti all’Unione Europea e gli apolidi. Le disposizioni della legge n.40/98 si applicano ai cittadini dell’Unione, se più favorevoli rispetto alle norme vigenti, mentre viene rinviato ad altro provvedimento normativo – da emanarsi – di regolare compiutamente la condizione dei cittadini “stranieri” appartenenti all’UE.(cfr. art.45 legge n.40/98).
[6] E’ opportuno osservare che, secondo un principio di civiltà più volte ribadito dalle pronunce della Corte Costituzionale, che ha esteso il principio di uguaglianza e di pari dignità sociale di tutti i cittadini (art. 3 Cost.) anche agli stranieri per quanto concerne il profilo della tutela dei c.d. “diritti fondamentali della personalità” quali diritti inviolabili dell’uomo (art.2 Cost.) , questi ultimi sono comunque assicurati dal nostro ordinamento agli stranieri, anche se in posizione di irregolarità o clandestinità (art.2, comma 1, l.egge n. 40/98) . Agli stranieri che si trovino in condizioni di regolarità sono inoltre assicurati ulteriori diritti (in materia di accesso al lavoro, tutela sanitaria, copertura assicurativa e previdenziale).
[7] Della “Martelli” è stata fatta sopravvivere soltanto la norma a tutela dei rifugiati (art.1): cfr. art.47 lett.e) T.U.Stranieri.
[8] Sulla quale vedi nota successiva.
[9] In particolare, l’espulsione c.d. “a richiesta” era disciplinata dall’art.7, comma 12 ter, del d.l. 30 dicembre 1989, n.416, convertito con modificazioni dalla legge 28 febbraio 1990, n.39, nel testo introdotto dall’art.8, comma 1, del d.l. 14 giugno 1993 n.187, convertito dalla legge 12 agosto 1993, n. 296. Il procedimento era attivato a richiesta dell’interessato o del difensore, si svolgeva in camera di consiglio avanti al giudice procedente – nel caso di soggetto imputato – ovvero avanti al giudice dell’esecuzione nel caso di persona condannata in via definitiva, concludendosi con la pronuncia di ordinanza, ricorribile per cassazione. Detta ipotesi di espulsione si configurava quale istituto di sospensione della custodia cautelare ovvero della condanna, motivato dall’interesse pubblico connesso all’esigenza di ridurre il sovraffollamento carcerario. Era previsto altresì l’automatico ripristino dell’esecuzione in caso di mancata esecuzione dell’espulsione ovvero di illecito rientro dello straniero nel territorio dello Stato. : cfr. in tema Cass.,I, 9 febbraio 1995, Rozan. Lo studio della citata ipotesi di espulsione appare tutt’oggi non privo d’attualità, poiché rappresenta una – sia pure discutibile – soluzione del contrasto tra l’interesse pubblico alla riduzione del sovraffollamento carcerario e il principio di indefettibilità dell’esecuzione delle pene, con prevalenza del primo in danno del secondo: una politica legislativa che pare trovare ulteriore espressione e rilancio anche nella legge “Bossi-Fini”.
[10] Si realizza in tal modo il c.d. “sistema del doppio binario”, dove accanto alla pena intesa in senso tradizionale, inflitta sul presupposto dell’accertamento giudiziale della colpevole commissione di un fatto previsto dalla legge come reato, si pone la misura di sicurezza, che viene applicata in rapporto all’accertata pericolosità sociale del soggetto (su cui cfr. artt. 133, 202 e 203 c.p.).. Il sistema del doppio binario venne introdotto nel 1930 sotto la spinta ideologica che privilegiava le istanza di difesa sociale, nell’intento dunque di neutralizzare la pericolosità dei soggetti autori di reati anche dopo che essi avessero terminato di scontare la pena.
[11] Si tratta dei casi di condanna dello straniero per delitti contro la personalità dello Stato ovvero contro i diritti politici dei cittadini (art.312 c.p.).
[12] E’ opportuno ricordare che l’applicazione di una misura di sicurezza, detentiva o non detentiva, comporta in ogni caso la doverosa attivazione del procedimento camerale di sorveglianza davanti all’omonimo magistrato, ai fini dell’accertamento della persistente (cioè concreta ed attuale) pericolosità sociale del soggetto, in forza del disposto dell’art.31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663 (c.d. legge “Gozzini”) che ha abrogato l’art.204 c.p. (il quale prevedeva ipotesi di presunzioni legali di pericolosità sociale).
[13]Le misure di sicurezza, applicate dal giudice della cognizione penale ovvero dal magistrato di sorveglianza in seguito a procedimento di sorveglianza non hanno, infatti, durata temporale predeterminata. Tale principio è stabilito appunto dall’art. 207 c.p. che stabilisce “le misure di sicurezza non possono essere revocate se le persone ad esse sottoposte non hanno cessato di essere socialmente pericolose.”La valutazione della persistenza della pericolosità sociale in capo al soggetto è valutata dal magistrato di sorveglianza attraverso i due procedimenti del riesame obbligatorio di pericolosità ( alla fine della durata provvisoria della misura: art. 208 c.p.) e del riesame eventuale (art.69 O.P.), quest’ultimo disposto su istanza del Procuratore della Repubblica ovvero dell’interessato ai fini della revoca anticipata della misura di sicurezza.
[14]Cfr. Cass.,I, 22 ottobre 1994, n. 5577 in CED ,IMP. P.M. in proc. Trabelsi PM. (Conf.) .Secondo tale pronuncia, che riflette l’orientamento giurisprudenziale dominante, l’’espulsione dello straniero dallo Stato, nei casi previsti dai commi primo e secondo dell’art. 86 del T.U. delle norme in materia di stupefacenti emanato con D.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 é da considerare, a differenza di quella prevista dal comma terzo del medesimo articolo, una vera e propria misura di sicurezza, la cui applicazione effettiva richiede quindi, secondo le regole generali, l’accertamento della pericolosità del soggetto. (Nella specie, in applicazione di tale principio, la corte ha annullato il provvedimento con il quale il magistrato di sorveglianza, sull’assunto che l’espulsione in questione sarebbe stata una semplice conseguenza automatica del reato commesso, aveva dichiarato inammissibile la richiesta di accertamento della pericolosità avanzata, ai sensi dell’art. 679 cod. proc. pen., dal pubblico ministero). Successivamente, è intervenuta la Corte Costituzionale che, con sentenza del 24 febbraio 1995, n.58, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.86, comma 1, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n.309, nella parte in cui non subordina l’espulsione a pena espiata del condannato straniero all’accertamento giudiziale – di competenza del magistrato di sorveglianza – della sussistenza della pericolosità concreta e attuale della pericolosità sociale in capo al soggetto destinatario dell’ordine di espulsione.
[15] A tale proposito la giurisprudenza amministrativa ha stabilito che il decreto prefettizio deve dare congrua motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti che giustificano il provvedimento espulsivo (T-.A.R. Veneto, I, 24 marzo 1995, n.49),
[16] Si tratta anche in questi casi della riproposizione di ipotesi generali già contemplate dalla legge “Martelli”.
[17] Peraltro, lo snobistico disprezzo dell’interprete per il drafting del legislatore del 1998 rientra immediatamente laddove si osserva come la giurisprudenza non sempre ha affermato principi congruenti con il doveroso accertamento della pericolosità sociale del soggetto in limine all’applicazione delle misure di sicurezza: cfr. T.A.R. Toscana, I, 29 gennaio 1996, n.31, che ha ritenuto non necessaria la valutazione della pericolosità sociale dell’interessato poiché la stessa è desumibile dalla sentenza di condanna; Cass., 26 settembre 1990, Marzucco, che ha ritenuto superfluo l’accertamento della pericolosità sociale del soggetto qualora intervenga a distanza di poche ora dal medesimo accertamento effettuato dal giudice di merito.
[18]In particolare, la pericolosità sociale di un soggetto è ricondotta alla perpetrazione di un reato ovvero di condotte che con i primi hanno elementi in comune (cfr. artt. 49 e 115 c.p.), e presuppone un giudizio prognostico da parte del giudice in ordine alla probabile commissione di nuovi illeciti penali da parte della stessa persona. L’art. 203 c.p. stabilisce infatti che è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso un reato o un “quasi-reato (artt.49 e 115 c.p.) “quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”.
Lo scopo delle misure di sicurezza non è la punizione per un illecito commesso, ma la modificazione dei fattori umani e sociali che hanno portato il soggetto a delinquere.
Le misure di sicurezza hanno dunque come scopo primario la risocializzazione della persona e il suo controllo.
A somiglianza delle pene tradizionali, anche per le misure di sicurezza vige la doppia riserva costituzionale (art.13 e 25 Cost.), nel senso che le misure di sicurezza possono essere irrogate soltanto nei casi e con le procedure previste dalla legge e soltanto dall’autorità giudiziaria. I presupposti per l’applicazione delle misure sono dunque due: la commissione di una fatto reato o “quasi-reato” e la pericolosità sociale della persona. L’accertamento della pericolosità sociale viene compiuto una prima volta dal giudice della cognizioni all’atto di irrogare la misura di sicurezza con la sentenza che chiude il giudizio di merito avanti a se. Tuttavia, l’ordinamento impone che la pericolosità sociale sia accertata nel momento in cui la misura di sicurezza deve essere in concreto imposta al soggetto, cioè, nella maggioranza dei casi, successivamente all’integrale espiazione della pena detentiva applicatagli con la medesima condanna che ha irrogato anche la misura di sicurezza.Ne deriva che sarà il magistrato di sorveglianza a dover procedere al nuovo esame di pericolosità sociale accertando la sussistenza dell’attuale pericolosità sociale del condannato, desunta dai parametri legali stabiliti dall’art. 133 c.p.
Essi sono:
1)natura, specie, mezzi, oggetto, tempo, luogo e ogni altra modalità del reato;
2)gravità del danno arrecato o del pericolo cagionato alla persona offesa dal reato;
3)l’intensità del dolo o dal grado della colpa;
4)i motivi a delinquere e il carattere del reo;
precedenti penali e giudiziari e la condotta di vita del reo anteriore al reato;
5)condotta contemporanea e susseguente al reato;
6)condizioni di vita individuale, familiare e sociale del reo.
Su tali elementi di giudizio si fonderà la valutazione prognostico-criminalistica che il giudice è chiamato ad effettuare, cioè una “proiezione del futuro criminale” del soggetto cui verrà applicata la misura di sicurezza personale.

[19]Qualora l’interessato sia detenuto fuori della giurisdizione del magistrato di sorveglianza che procede, potrà comunque essere sentito, prima dell’udienza, dal magistrato di sorveglianza del luogo di detenzione, con il sistema impropriamente detto della “rogatoria”, ai sensi dell’art.127 c.p.p., con le garanzie defensionali di cui all’art. 101 disp.att. c.p.p.
[20] Il testo della nuova legge ( cfr. art.13,comma 13 e segg., T.U.Str.) prevede infatti che:” Lo straniero espulso non può rientrare nel territorio dello Stato senza una speciale autorizzazione del Ministro dell’interno. In caso di trasgressione lo straniero è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno ed è nuovamente espulso con accompagnamento immediato alla frontiera.” “ Nel caso di espulsione disposta dal giudice, il trasgressore del divieto di reingresso è punito con la reclusione da uno a quattro anni. La stessa pena si applica allo straniero che, già denunciato per il reato di cui al comma 13 ed espulso, abbia fatto reingresso sul territorio nazionale” (art.13, comma 13bis).Per tali reati è previsto l’arresto in flagranza dell’autore del fatto e, nell’ipotesi di cui al comma 13-bis, è consentito il fermo. In ogni caso contro l’autore del fatto si procede con rito direttissimo.

[21] La “Bossi-Fini” introduce a tal fine due nuove fattispecie di reato, previste dall’art. 14, comma 5-ter ( “Lo straniero che senza giustificato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell’ordine impartito dal questore ai sensi
del comma 5-bis è punito con l’arresto da sei mesi ad un anno. In tale caso si procede a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica”) e comma 5 quater.(“ Lo straniero espulso ai sensi del comma 5-ter che viene trovato, in violazione delle norme del presente testo unico, nel territorio dello Stato è punito con la reclusione da uno a quattro anni.”). In entrambi i casi si procede con il rito direttissimo.
[22]Ciò non toglie che l’attribuzione al giudice di sorveglianza della competenza sulla fattispecie di espulsione in commento desta non poche perplessità in quanto materia del tutto estranea ai profili di attenzione su cui opera la citata figura di giudice: cfr. in proposito la relazione preliminare del codice di procedura penale del 1998, la quale, illustrando il contenuto del Capo II del Titolo III del Libro X (Esecuzione) del codice, avente ad oggetto la magistratura di sorveglianza, osserva che alla magistratura di sorveglianza vengono devolute quelle materie, facenti parte del diritto penale sostanziale… in cui prevalente appare il giudizio sulla funzionalità della pena in relazione al fine specifico di rieducazione del condannato nonché quelle ove appare necessario l’accertamento della pericolosità del soggetto. Dalle considerazioni svolte nel presente commento è evidente che né il profilo rieducativo né l’aspetto della pericolosità sociale vengono prese in considerazione nel caso dell’espulsione di cui all’art.16 del T.U.Str. novellato dalla “Bossi-Fini”.
[23] E’ del resto –alla luce del disposto dell’art.656 comma quinto, c.p.p.- proprio il giudice di sorveglianza a stabilire, nella grande maggioranza dei casi, il destino penitenziario concreto delle condanne (e dei condannati) dal giudice del processo penale.Detto progressivo svuotamento del principio dell’intangibilità del giudicato ha avuto per l’appunto un’improvvisa accelerazione per effetto della legge n.165/98 (legge “Simeone”): in base alla riforma introdotta dalla citata normativa, nel nostro ordinamento le condanne fino a tre anni di reclusione (e fino a quattro anni nel caso di condannati tossicodipendenti) non vengono più eseguite dal pubblico ministero competente attraverso l‘ordine carcerazione,al contrario il medesimo organo avvia un articolato procedimento giurisdizionale destinato a culminare nella decisione del tribunale di sorveglianza in ordine all’applicazione di una misura alternativa alla detenzione.Ciò avviene, statisticamente, per l’ottanta per cento delle condanne (e delle pene detentive) che ogni anno vengono irrogate nel nostro Paese.Si può pertanto a ragione affermare che il principio dell’intangibilità e immutabilità del giudicato penale e del corollario della certezza della pena hanno ceduto il passo, nel nostro ordinamento, all’opposto principio della flessibilità della pena .Tale “rivoluzione copernicana” nel campo dell’esecuzione penale si è imposta in seguito ad una matura riflessione sul significato cogente del principio, stabilito nell’art.27 della Costituzione, a mente del quale le pene” devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Sulla scorta di tale assunto, la Corte Costituzionale, con una celebre sentenza (sent.27 giugno 1974, n.74,in Appendice giurisprudenziale del Capitolo Secondo ) ha stabilito che la pretesa punitiva dello Stato (dunque l’esecuzione delle pene) deve trovare il suo limite ed insieme la sua finalità prevalente nello scopo di rieducare i condannati. Essi, pertanto, hanno diritto a che un giudice verifichi se “la quantità della pena espiata abbia o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo”poiché, se la rieducazione del reo è completa,la pretesa punitiva dello Stato non ha più ragione di persistere.Da tale dirompente pronuncia, che scardina ab imis il principio dell’inderogabilità dell’integrale espiazione della pena, si è sviluppato il sistema dell’ordinamento penitenziario attuale, che, attraverso un articolato sistema normativo, ha disciplinato la facoltà del giudice di sorveglianza di modificare in sede di esecuzione penitenziaria, tanto la quantità che le modalità di espiazione della pena irrogata dal giudice della cognizione penale.
Anche in tema di misure di sicurezza comminate con le sentenze penali si è introdotto progressivamente un meccanismo di periodiche valutazioni – effettuate dal magistrato di sorveglianza- sulla persistenza della pericolosità sociale della persona assoggettata alle misure stesse, al fine di confermarne o trasformarne (in melius ovvero in peius) la durata e la specie.

[24] Per la verità, in questo caso, i giudici di merito si sono dimostrati… più realisti del re, poiché la Corte costituzionale, investita sul punto con alcune ordinanze di rimessione, ha sostenuto la compatibilità costituzionale della procedura de plano originariamente prevista dall’art. 656 co. 10 c.p.p., ritenendola una procedura a contraddittorio differito o eventuale e dunque consentita soltanto in ipotesi di effettiva concessione della misura alternativa, dovendosi in caso contrario celebrare udienza con la procedura in contraddittorio tanto qualora il tribunale non ritenga di concedere la misura quanto nel caso il condannato non “accetti” la detenzione domiciliare applicatagli: cfr. Corte Cost., sent. 27 ottobre 1999, n. 422. In giurisprudenza, cfr. Cass. , I, 15 aprile 1999, n. 3005, citata nella sentenza della Corte.

Redazione

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