Le dichiarazioni del terzo nell’accertamento tributario e la loro efficacia nel relativo eventuale processo

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1. L‘accertamento tributario come attività amministrativa extra-processuale
 
    Le attività di controllo della Amministrazione Finanziaria sono essenzialmente incardinate all’interno dell’art. 32 DPR 600/73 e 51 DPR 633/72 i quali elencano dettagliatamente le facoltà e le prerogative nell’ambito dei poteri "accertativi" tendenti al contrasto ed alla repressione del fenomeno dell’evasione fiscale finalizzati al recupero di base imponibile.
All’interno di tali facoltà, e posto che questa fase costituisce senza ombra di dubbio una fase amministrativa stragiudiziale non foss’altro perché non esiste a quel momento alcun processo tributario pendente, l’Amministrazione può procedere ad acquisire dati e notizie che la stessa autorità procedente ritiene utili ai fini dello scopo suddetto, anche presso soggetti terzi e comunque non direttamente interessati dalla attività di controllo. Si pensi all’invio di questionari tendenti a conoscere l’esistenza o meno di rapporti economici tra questo e quel soggetto.
Nella piena legittimità di tali facoltà, tuttavia, è stato ed è vivo il dibattito in dottrina[1] circa il potenziale utilizzo delle dichiarazioni del terzo e soprattutto le "conseguenze" che queste possono creare in capo al soggetto accertato.
Fermo restando il carattere della stragiudizialità di tali acquisizioni, una disamina del problema, a mio parere, non può non essere però necessariamente collegata all’eventuale trasposizione di tali dichiarazioni in un processo tributario d’impugnazione. E ciò perché se si guarda solo alla attività preparatoria dell’accertamento è evidente che l’efficacia, la forza e gli effetti che tali atti producono sono, per così dire, unilaterali e cioè utilizzati in tal modo dalla Amministrazione Finanziaria al fine di pervenire alle deduzioni conseguenti senza che sia, peraltro, obbligatorio un contraddittorio "amministrativo". Questo per dire, in altri termini, che pur trattandosi di una attività extra-processuale in quanto tali dichiarazioni sono acquisite al di fuori di un qualunque tipo di dibattimento, queste possono (o non possono) avere dei riflessi davanti al giudice tributario come giudice naturale in caso di impugnazione dell’accertamento da parte del contribuente.
Il dibattito dottrinale che ne è scaturito è anche frutto di una interessante sentenza della Corte Costituzionale[2],della quale si dirà innanzi, e che ha avuto il "merito" di qualificare la reale portata delle dichiarazioni del terzo ritenendole elementi indiziari e non elementi di prova. Senza voler ora entrare nel vivo della questione, deve solo accennarsi al fatto che le acquisizioni di dati e notizie di cui si diceva poc’anzi, hanno rilevanza amministrativa univoca fintanto ché, essi, non vengano contestati, nei modi e tempi opportuni, da chi è legittimato in tal senso.
Ecco dunque perché ritengo non corretto parlare di dichiarazioni del terzo nel processo tributario; a ben vedere, con il processo dinanzi al giudice tributario, il terzo, di principio, non ha nulla a che fare perché tale schema processuale, come noto, non contempla il terzo come "parte agente".
E’ più corretto, dunque, porre la questione dell’utilizzo delle dichiarazioni del terzo nella fase dell’accertamento piuttosto che parlare di dichiarazioni del terzo nel processo tributario.
Le disquisizioni sull’argomento hanno poi, in un certo senso, anche "travalicato" la reale portata della questione perché, come si accennerà, alcuni autori hanno ritenuto che queste facoltà in capo all’Amministrazione Finanziaria ledano il principio della parità delle armi perché, dalla parte del contribuente, non sarebbe prevista analoga possibilità "difensiva".
In realtà ciò non è condivisibile perchè:
  • l’attività di accertamento è una attività amministrativa di controllo che, se esplicata nel rispetto delle regole, non può non essere attività unilaterale, ancorché, in casi specifici, tale unilateralità possa essere stemperata anche da talune forme di partecipazione del contribuente (ad es. nell’accertamento "con adesione");
  • l’attività accertatrice si svolge sempre e comunque prima di un possibile ricorso al giudice ed anche in tal caso, ed in via preventiva, al contribuente è in linea di massima consentita una difesa amministrativa (cosiddetta autotutela);
  • la dis-parità delle armi di cui si parla in dottrina è un concetto non inseribile nella fase amministrativa quale è quella dell’accertamento; tale disparità potrebbe realizzarsi in sede giudiziale quando e qualora le regole processuali dovessero evidentemente favorire una parte e penalizzare un’altra;
  • il concetto di dis-parità delle armi è un concetto derivante da quello più ampio di giusto processo previsto dalla nostra Costituzione e che non ha motivi di collegamento all’interno di una fase evidentemente e semplicemente amministrativa.
  • la dis-parità delle armi che secondo la citata dottrina sarebbe intrinseca nelle conclusioni della Corte Costituzionale, è un concetto da respingere perché non sarebbe sostenibile un sistema processuale che scientemente, seppur con motivazioni non più attuali, sacrifichi la prova testimoniale ma contestualmente riconosca efficacia probatoria a dichiarazioni di scienza assunte, addirittura, senza le tipiche garanzie della prova per testimoni ed addirittura, ancora, al di fuori di un dibattimento.
 
2. Dichiarazioni del terzo e prova testimoniale. Profili di "non collegamento".
 
    Ritengo che già fin da queste prime battute sia sufficientemente chiara la distinzione che intercorre tra la dichiarazione del terzo resa nel procedimento amministrativo e la prova per testi, che, peraltro, particolare non trascurabile, risulta essere vietata nel processo tributario italiano.
Ciò premesso, è importante, allora, approfondire seppur sinteticamente sin da subito le differenze, legali e metodologiche, tra la prova testimoniale e la dichiarazione (stragiudiziale) del terzo allo scopo, principale, di consentire all’interprete di non confondere le due differenti situazioni.
La prova testimoniale è la prova per eccellenza; è quella prova resa in dibattimento con determinate procedure e garanzie che consentono (o dovrebbero consentire) al giudice il libero apprezzamento. Si caratterizza per la oralità della deposizione, per la terzietà del teste e, come detto, per la sua processualità. Solo per queste caratteristiche è legittimo ritenere che la prova testimoniale (in qualunque processo) è una prova difficilmente confondibile con altri mezzi. Per dirla in maniera ancora più chiara ci sembra molto difficile, o meglio impossibile, confonderla con il giuramento o con la confessione anche perché l’escussione del teste normalmente segue procedure tutte tipiche e particolari di tali mezzo di prova che risiedono, ad esempio, nell’ interrogatorio del teste da parte del giudice e dunque nell’apprezzamento di quest’ultimo mediante la sua prudente valutazione.
Tutto ciò consente di sottolineare quei profili, appunto, di non collegamento tra questo mezzo di prova e le dichiarazioni del terzo all’interno del processo di accertamento effettuato dalla Amministrazione Finanziaria. Possono le due dichiarazioni confondersi? Possono le due dichiarazioni essere riposte sullo stesso piano, se non processuale, quanto meno della utilizzabilità? A queste domande deve rispondersi negativamente e senza neppure il legittimo timore del dubbio. La prova testimoniale è cosa bene diversa e non confondibile con la dichiarazione "amministrativa". E questa considerazione è valida in senso assoluto o quanto meno fintanto ché le regole individuative siano quelle oggi esistenti nell’ordinamento giuridico nazionale.
Alcuni potrebbero obiettare, allora, e chiedersi del perché possano esistere delle perplessità in ordine alle due cose. La ragione è in parte da ricercarsi nella citata sentenza della Corte Costituzionale la quale, se da un lato ha chiarito che le dichiarazioni del terzo nella fase di accertamento rivestono la qualifica di elementi indiziari, dall’altra ha ingenerato il dubbio che questi elementi indiziari possono essere poi utilizzati nel processo tributario solo ed esclusivamente a vantaggio della Amministrazione Finanziaria e non anche dal contribuente-ricorrente che finirebbe per partire in condizione di "inferiorità" in un giudizio di merito.
Vediamo, brevemente, perché ciò non è corrispondente al vero:
  • in primo luogo deve essere detto che nessuna norma processual-tributaria "vieta" anche al ricorrente di "immettere" nel processo tributario dichiarazioni del terzo. Quindi, tale possibilità così come è prevista per la Pubblica Amministrazione, non è vietata per il contribuente-ricorrente. Certamente si può condividere quella dottrina[3] la quale ha ritenuto che la "provenienza" della dichiarazione del terzo ha una genesi diversa se formata in seno alla P.A. (ad esempio perchè si ha un certo grado di certezza sulla identità della provenienza) e dunque in linea molto teorica potrebbe correre il rischio di essere meglio apprezzata;
  • in secondo luogo deve dirsi che, allora, anche il Giudice tributario ha gli stessi poteri di acquisizione dati e notizie che competono alla Amministrazione Finanziaria. Quindi, in linea teorica e non solo, anche il giudice potrebbe verificare le stesse fonti con gli stessi mezzi;
  • da ultimo deve dirsi che esiste e resta sempre il legittimo apprezzamento e la valutazione del giudice che costituiscono, in fin dei conti, l’elemento di maggiore importanza ai fini dell’utilizzo "processuale" delle dichiarazioni del terzo e dunque ai fini di una decisione giusta.
Ad onor del vero, il dibattito dottrinale che si è sviluppato sul tema, è, in un certo senso, anche paradossale per il modo in cui esso è stato e viene posto. Sarà mai possibile veramente equiparare o confondere la dichiarazione del terzo dalla prova testimoniale? Naturalmente non è possibile ignorare che l’Amministrazione Finanziaria abbia (come in effetti ha) i poteri di cui si è accennato, ma sarà poi il contribuente ad organizzare la sua difesa e poi il giudice terzo a rendere la decisione consapevole del fatto che la dichiarazione del terzo non è una prova testimoniale.
Ancora sulla questione devono registrarsi tre orientamenti prevalenti.
Il primo[4] ritiene che le dichiarazioni del terzo siano prive di valore ermeneutico ed addirittura sono considerate una sorta di "tentativo" di raggirare il divieto di prova testimoniale assumendo la stessa in via amministrativa; una seconda impostazione [5] ritiene che le dichiarazioni extra-processuali potrebbero concorrere al determinare la decisione del giudice, ma solo concorrere, sulla base anche di altre valutazioni essendo, la dichiarazione del terzo, solo elemento indiziario. Una terza teoria[6], infine, riconosce pieno ed autonomo valore probatorio perché, essendo ammessa l’acquisizione di dati e notizie per il tramite di un terzo, tali deposizioni devono poter avere un uso anche processuale.
L’orientamento che è, a parere di chi scrive, più aderente alla realtà, e che si ritiene di dover seguire, è senza dubbio il secondo, che opta, peraltro condivisibilmente, per alcune considerazioni di merito effettuate dalla Corte di Cassazione. Infatti, se la prima teoria può definirsi escludente e la terza totalizzante, quella intermedia ci sembra essere la più coerentemente vicina alla realtà sia sotto il profilo "tecnico" (amministrativo e processuale) sia sotto il profilo della ragionevolezza. Il ragionamento seguito dalla Suprema Corte inoltre non può essere considerato una sorta di "compromesso"[7] tra l’esigenza accertatrice del Fisco e tutela del contribuente. Esso è invece un ragionamento che tiene conto, correttamente, del tecnicismo dell’argomento che tuttavia trova una regolamentazione normativa chiara e, direi, facilmente intellegibile.
Le dichiarazioni del terzo non possono fornire prova di alcunché soprattutto se non sono supportate da altri indizi; non è scorretto dire che esse non sono altro che dichiarazioni di scienza acquisite fuori dal processo e come tali debbono essere considerate. Del resto a latere si aggiunga anche che, come vedremo nel successivo paragrafo, quegli stessi poteri di indagine attribuiti alla Amministrazione sono anche attribuiti in capo al giudice tributario, che, per logica, potrebbe egli stesso decidere di esercitarli al fine della medesima verifica.   
 
3. I poteri del Giudice tributario in ordine all’utilizzo delle dichiarazioni del terzo tra il principio del "giusto processo", le disposizioni codicistiche e l’orientamento della Corte Costituzionale
 
    Nel proseguire la disamina dell’argomento, è opportuno soffermarsi, dunque, anche a quelli che sono i "poteri" del giudice tributario in ordine ad un effettivo e possibile "utilizzo" nel relativo processo, delle dichiarazioni rese dal terzo. Quale deve essere l’atteggiamento del giudice? Quale sarà la "gestione" di tali dichiarazioni ai fini della decisione?
Per dare risposta a questi ed altri interrogativi, è opportuno, a mio avviso, considerare l’azione del giudice tributario a largo spettro nel senso che sono richiamabili e perfettamente applicabili alla giurisdizione di quest’ultimo tanto le norme del codice di procedura civile (perché lo dice la legge di riforma del processo tributario) tanto, ovviamente, le disposizioni della Carta Costituzionale.
Proprio relativamente a quest’ultima, ed in particolare all’art. 111, deve dirsi preliminarmente che nulla osta alla applicazione del concetto di giusto processo anche al processo tributario e dunque, anche nei confronti di questo, devono ritrovarsi quelle caratteristiche salienti che sono il principio di legalità, lo svolgimento del processo in contraddittorio tra le parti in condizioni di parità ed in fine la ragionevole durata del processo stesso.
Ai fini del discorso che qui si prosegue, è interessante, proprio soprattutto ai fini della attività probatoria, sottolineare come, tanto il concetto del contraddittorio pieno che quello della parità delle parti testimonierebbero già da soli la illegittimità di qualunque limitazione probatoria. E questo è un fatto che, già di per sé, contrasta con l’art. 7 del D.Lgvo 546/92.
Tuttavia, nel processo tributario tale limitazione esiste (anzi, resiste) e dunque occorre misurarsi con essa non essendone dispensati.
Ed allora è assolutamente fondamentale rimandare il problema ai poteri di cui la legge dota il Giudice tributario sempre nell’ambito del principio di legalità (come parte fondante del giusto processo) che deve vedere decisa la controversia da un giudice terzo ed imparziale.
Questa considerazione risulta essere a mio avviso importante perché ci consente o dovrebbe consentire, di stemperare la negazione della prova testimoniale che, come detto, pur tuttavia esiste.
E dunque ritorniamo a chiederci, facendo appello alla imparzialità ed al libero convincimento del giudice (tributario), come possano avere efficacia probatoria le dichiarazioni del terzo rese durante il procedimento amministrativo.
In effetti devono essere misurate dal giudice per quelle che sono e non soltanto perché già la Corte Costituzionale lo ha affermato nella richiamata sentenza ritenendole meri elementi indiziari, ma anche a seguito di una più ampia riflessione; può attribuirsi dignità di prova a delle dichiarazioni che non sono rese in dibattimento senza le tipiche garanzie della prova per testimoni quando questa è poi espressamente vietata nel processo tributario?
La risposta non può che essere negativa.
Come addenda si dica anche che il Giudice tributario, nell’ambito dei suoi poteri potrebbe, a mio avviso, "aggirare" il divieto ex art. 7, disponendo l’interrogatorio non formale delle parti di cui all’art. 117 del Codice di Procedura Civile.
 
www.studioferraria.com
 
 
   


[1] Ferraù-Pace "Casi e questioni della riforma tributaria"caso nr.534/2007- Amatucci "Corriere Tributario" nr. 30/2000- Battistoni Ferrara "Rassegna Tributaria" nr. 5/08
[2] Corte Cost. Sent. nr. 18/2000
[3] Battistoni Ferrara in Rassegna Tributaria nr. 5/08
[4] Battistoni Ferrara "Appunti sul processo tributario", Padova 1995 pag. 63
[5] Graziano "Corriere Tributario" nr. 28/03
[6] Glendi "Rivista trim. dir. Proc.civ." 1985
[7] Pistolesi

Ferraria Alessandro

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