Le Cc.Dd. “polizze dormienti”. In particolare, il caso poste vita s.p.a. e la clausola di non avvalimento della prescrizione ordinaria breve ex art. 2952 c.c. sostenibilità in via difensiva del termine decennale di prescrizione

Scarica PDF Stampa

 

1. PREMESSA

Da circa un decennio, si sono registrati non pochi contenziosi in merito a prodotti finanziari elaborati da vari operatori (tra cui, in particolare, l’operatore Poste Vita s.p.a.) in cui, in punto di prescrizione dei diritti derivanti dal contratto, si registra uno scostamento dal regime ordinario breve di prescrizione di cui all’art. 2952, comma 2, c.c. (fissato, per effetto della modifica ex art. 3, comma 2 – ter, legge 27 ottobre 2008, n. 166, in due anni, a fronte di un anno di cui al sistema previgente).

Questa, a titolo esemplificativo, la clausola elaborata da Poste Vita s.p.a. in molte delle sue condizioni generali di polizza dell’epoca:

«L’art. 2952 c.c. del codice civile dispone che, se non è stata avanzata richiesta di pagamento, i diritti derivanti dal contratto di assicurazione di prescrivono entro un anno da quando si è verificato l’evento su cui il diritto si fonda.

Tuttavia, trascorso l’anno di prescrizione, la politica di Poste Vita s.p.a. è quella di non avvalersi di tale diritto per i 10 anni successivi all’evento.

Poste Vita s.p.a. effettua i pagamenti entro trenta giorni dalla data di ricevimento di tutta la documentazione indicata per ogni causale di liquidazione. Decorso tale termine sono dovuti gli interessi moratori, a partire dal termine stesso, a favore degli aventi diritto».

Nel presente contributo scientifico, senza pretesa di esaustività, azzarderemo la sostenibilità del termine di prescrizione decennale in subiecta materia, fermo restando che il problema non sia di facile soluzione.

2. IL PROBLEMA: ESEGESI DELLA CLAUSOLA E CONFERIMENTO DEGLI IMPORTI DELLE POLIZZE NEL FONDO CD. A TUTELA DEI RISPARMIATORI

Ebbene, non v’è chi non veda come una clausola come quella esaminata manifesti un effetto dirompente in merito al regime prescrizionale ordinario, fissando, per il caso di decorso dell’anno dall’evento negativo della mancata richiesta di pagamento, un termine decennale; termine, peraltro, consacrato in una disposizione nella quale la Società lascia ad intendere che, piu’ che di una vera e propria rinuncia alla prescrizione, ci si trovi innanzi ad una “politica” consistente nel non avvalersi del termine legale suddetto.

Entrando in medias res, giammai sostenibile, in via di eccezione, che la decennalità del termine di prescrizione – si ripete, espressione della sua “politica” consacrata nella citata clausola -, sarebbe venuta meno per effetto della normativa sopravvenuta obbligante gli operatori al conferimento dei premi nell’apposito Fondo esistente presso lo stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze (istituito ex art. 1, comma 343, legge 23 dicembre 2005, n. 266; cd. Finanziaria 2006).

Trattasi, com’e’ noto, del Fondo istituito per indennizzare i risparmiatori che, investendo sul mercato finanziario, sono rimasti vittime di frodi finanziarie e che hanno sofferto un danno ingiusto non altrimenti risarcito (così testualmente, l’art. 1, comma 343, cit.), nel quale sarebbero confluiti tutti gli importi dovuti ai beneficiari dei contratti d’investimento come quello che ci occupa, vale a dire le cc.dd. «polizze dormienti».

Tornando a tale clausola, valga la pena di compiere una breve esegesi.

Mediante essa, la Società, pur dando atto della circostanza che il termine prescrizionale ex art. 2952, comma 2, vecchio testo, c.c., fosse fissato in un anno, manifestava preventivamente al sottoscrittore (si veda, in proposito, l’uso dell’avversativa «tuttavia …»), una volontà giuridicamente valida ed impegnativa a tenere ferma per ben dieci anni dall’evento l’eventuale termine di prescrizione maturato in danno di quest’ultimo.

Clausola, ancora, che:

a) contribuiva dal lato dell’investitore, proprio per essere consacrata a chiare lettere nel corpo delle condizioni di polizza predisposte dal proponente l’investimento a rendere finanziariamente interessante il prodotto finanziario offerto, inducendo il primo alla sottoscrizione del medesimo;

b) non poteva, dal lato del proponente, esser considerata vessatoria, atteso che a predisporla era il soggetto più forte.

La clausola de qua contiene, quindi, una dichiarazione preventiva, fonte di obbligazione civile immediatamente vincolante per il proponente l’investimento, su cui riteniamo non esservi dubbio.

Quale che sia, la qualificazione della dichiarazione – e non saremo noi a sciogliere tale intricato nodo interpretativo -, deriva da essa, a nostro sommesso avviso, la caducazione (per pattuizione convenzionale) del termine prescrizionale breve (uno o due anni), fissato dal codice civile.

Non può, in proposito, sostenersi, come pure e’ avvenuto, che la normativa cd. salva-investitori, obbligando il conferimento degli importi delle polizze dormienti al Fondo ministeriale, abbia inciso sul detto termine prescrizionale fissato nel documento originario in dieci anni, o, ancora, che abbia ostacolato la sua politica di accordare all’investitore un termine di dieci anni nei descritti termini.

Normativa che, si ripete, per arginare i noti fenomeni di recessione che interessano da ormai tre e piu’ anni il mercato finanziario, ha solo obbligato alle compagnie assicurative di conferire i premi che ci occupano ad un soggetto diverso, vale a dire il citato Fondo ministeriale.

Ancora, non potrebbe neppure affermarsi che la disciplina normativa testè menzionata si sovrapponga a quella della prescrizione, ben potendo il diritto alla restituzione, pur ove si accerti che il premio risulti essere stato per obbligo di legge conferito ad altro soggetto istituzionale, essere esercitato nei confronti di tale ultimo soggetto, chiedendo che la condanna sia estesa ad esso, ovvero chiedendo una condanna di esso eventualmente in solido con il convenuto principale.

Il che potrebbe giustificare – e trattasi di questione di tattica processuale, rimessa al singolo caso –, una chiamata in causa ex art. 269, comma 3, c.p.c., richiesta dal consumatore nei confronti del Ministero citato al fine di estendere ad esso la domanda principale.

In definitiva, secondo noi, non può una normativa successiva incidere su una clausola contrattuale, che abbia impegnato il soggetto istituzionale, predisponente una disposizione favorevole al privato investitore, specie se essa è diretta ad incidere sul termine prescrizionale.

Tanto più che sarebbe contraria ai principi generali del diritto la configurazione di un termine di prescrizione inizialmente decennale, che poi, in corso di rapporto, viene a ridursi, e peraltro in significativo danno del soggetto in favore del quale fu posto.

A riprova della sensibilità di un problema siffatto, la questione della iniquità della brevità del termine ex art. 2952, comma 2, c.c., fu già oggetto di puntuale critica da parte dell’Isvap, che, con circolare n. 403/D del 16 marzo 2000, invitava le Compagnie a rivedere le polizze per consentire, in fatto di prescrizione del diritto, una tutela degli assicurati maggiore di quella offerta dall’art. 2952 citato:

«appare pertanto opportuno che le imprese si dispongano, nella valutazione di richieste di liquidazione eventualmente tardive, in un’ottica di ragionevolezza onde evitare che il beneficio previsto dalla legge a loro favore in ordine alla certezza dei rapporti assicurativi si tramuti in un trattamento che può rivelarsi punitivo per il beneficiario, in ispecie quando questi – in condizioni umane non ideali a causa della perdita di uno stretto congiunto e/o per ragioni le più varie – non abbia potuto avere tempestiva conoscenza del proprio diritto ad una prestazione assicurativa la quale ha, tra l’altro, rilevante funzione previdenziale».

Fu proprio raccogliendo tale monito, che muoveva da esigenze equitative –, che molti operatori finanziari pervennero, così, a strutturare le singole polizze prevedendo un termine di prescrizione piu’ largo e “comodo” di quello previsto dal codice civile.

La materia delle polizze dormienti è stata, in seguito, dettagliatamente regolata:

a) dall’art. 3, comma 2 – bis, legge n. 166/2008 cit., che ha aggiunto all’art. 1 della predetta Finanziaria 2006 i commi 345 ter – octies, che stabiliscono modalità del conferimento a seconda del tipo di investimento;

b) dal d.p.r. 22 giugno 2007 n. 116 (Regolamento di attuazione dell’articolo 1, comma 345, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, in materia di depositi dormienti), che ha disciplinato le modalità di devoluzione e di gestione del Fondo, quest’ultima a cura di una Commissione nominata con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze (art. 5);

c) da ultimo, dall’art. 2, comma 4, del d.l. 25 marzo 2010 n. 40, convertito con modificazioni dalla legge 22 maggio 2010 n. 73 (Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali . . . etc.), che, fermi i conferimenti già effettuati al Fondo al tempo della sua entrata in vigore, dispone l’applicazione del comma 345 – quater dell’art. 1 della legge Finanziaria 2006 esclusivamente ai contratti per i quali il termine di prescrizione del diritto dei beneficiari scade successivamente al 28 ottobre 2008.

 

 

3. IL DIRITTO POSITIVO E LA GIURISPRUDENZA SUGLI OBBLIGHI IN CAPO AGLI OPERATORI FINANZIARI

 

Qui di seguito una serie di disposizioni legislative e di massime giurisprudenziali invocabili nel caso in premessa.

a) art. 1175 c.c.: “Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza”.

Sul punto della buona fede esecutiva, s’invoca Cass., 30 luglio 2004, n. 14605:

La buona fede nell’esecuzione del contratto si sostanzia in un generale obbligo di solidarietà (derivante soprattutto dall’art. 2 Cost.) che impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere tanto da specifici obblighi contrattuali, quanto dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, trovando tale impegno solidaristico il suo limite precipuo unicamente nell’interesse proprio del soggetto, tenuto, pertanto, al compimento di tutti gli atti giuridici e/o materiali che si rendano necessari alla salvaguardia dell’interesse della controparte nella misura in cui essi non comportino un apprezzabile sacrificio a suo carico” (conf., id., 4 marzo 2003, n. 3185);

b) artt. 1176 c.c. e 21 del d. lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico in materia di intermediazione finanziaria), del seguente tenore:

Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.

Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata”.

Nella prestazione dei servizi di investimento e accessori i soggetti abilitati devono:

a) comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza, nell’interesse dei clienti e per l’integrità dei mercati;

b) acquisire le informazioni necessarie dai clienti e operare in modo che essi siano sempre adeguatamente informati;

c) organizzarsi in modo tale da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento;

d) disporre di risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l’efficiente svolgimento dei servizi;

e) svolgere una gestione indipendente, sana e prudente e adottare misure idonee a salvaguardare i diritti dei clienti sui beni affidati”.

Cfr., sul punto, ex multis, Trib. Trapani 30 agosto 2007:

Atteso che correttezza e diligenza, di cui alla disciplina dei servizi di investimento, esprimono concetti più ampi di quelli sottesi alle norme codicistiche, operando non soltanto nel quadro di un rapporto obbligatorio con l’investitore per la tutela del soddisfacimento del suo interesse, ma anche più in generate in relazione allo svolgimento dell’attività economica come canone di condotta volto a realizzare una reale competizione e a garantire l’integrità del mercato, nel contesto del decreto legislativo n. 58/1999 diligenza e correttezza sono canoni di condotta riconducibili alle pratiche di commercio e agli usi imprenditoriali, mentre nel contesto codicistico non possono mai prescindere dall’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante tra due parti definite e precisamente individuate”;

Sulla diligenza ex art. 1176, comma 2, c.c., cfr. Trib. Monza 8 aprile 2003:

Ai sensi dell’art. 1176 c.c. comma 2, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio dell’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata. Pertanto, in luogo del criterio tradizionale della diligenza del buon padre di famiglia, trova applicazione il parametro di cui al comma 2 dell’art.1176 c.c., sicché la diligenza che il professionista deve esercitare è quella media, cioè la diligenza posta nell’esercizio della propria attività dal professionista di preparazione professionale e di attenzione media, a meno che la prestazione professionale da eseguire in concreto non involga la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, nel qual caso la responsabilità è attenuata, configurandosi ex art. 2236 c.c., solo nel caso di dolo e colpa grave”.

Ed ancora, da ultimo:

– artt. 1218 c.c. e 23, comma 6, d. lgs. 58/1998 cit., che così recitano:

Il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l?inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Nei giudizi di risarcimento dei danni cagionati al cliente nello svolgimento dei servizi di investimento e di quelli accessori, spetta ai soggetti abilitati l’onere della prova di aver agito con la specifica diligenza richiesta”.

Nella materia degli investimenti finanziari, vi è quindi una vera e propria presunzione di colpa, ex adverso vincibile solo con la prova gravante sull’operatore di aver profuso la diligenza richiesta, il tutto conformemente al diritto vivente a partire da Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533, che richiede all’avente diritto alla prestazione soltanto l’onere di allegare l’inadempimento del debitore:

Cfr., ex plurr., Cass., sez. lav., 9 febbraio 2004, n. 2387:

In tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento (come nel caso di specie, n.d.r.) deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto e il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento; anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento della obbligazione, ma il suo inesatto inadempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento».

4. CONCLUSIONE

Le considerazioni precedenti, senza pretesa di esaurire il dibattito scientifico, ed anzi di renderlo vivo, valgano quale breve contributo nell’esame della problematica trattata, che ha interessato le Corti Italiane di questi ultimi anni, attesa la presa di coscienza degli operatori del ruolo ormai centrale del consumatore all’interno del traffico giuridico.

Vanacore Giorgio

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento