L’abuso del processo e la conseguente responsabilità aggravata ex art. 96 comma 3 c.p.c., anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 139 del 6 giugno 2019

Redazione 29/10/19
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di Giulia Baruffaldi

Sommario

1. L’abuso del processo: nozione e conseguenze sanzionatorie

2. La responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3 c.p.c.

3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 139/2019 in materia di quantificazione della somma equitativamente determinata

4. Riflessioni conclusive

1. L’abuso del processo: nozione e conseguenze sanzionatorie

La nozione di abuso del processo è ricompresa nella più ampia categoria dell’abuso del diritto, fattispecie che ricorre ogniqualvolta un soggetto eserciti un diritto, pur riconosciutogli dall’ordinamento giuridico, ma al solo scopo di ledere la sfera giuridica di un altro soggetto.

Tale fattispecie generale, se rapportata alla specifica materia della legittimazione processuale, è costituita dalla figura dell’abuso del processo, figura che ricorre, in ambito processualcivilistico, nel caso in cui un soggetto agisca o resista in giudizio pur essendo consapevole, con malafede/dolo o quantomeno colpa grave, della infondatezza delle proprie pretese, con pregiudizio sia per la controparte che per il buon andamento della giustizia.

L’abuso del processo, altresì, può ricorrere anche nel caso un certo mezzo processuale venga utilizzato per perseguire fini diversi rispetto a quelli per cui esso è funzionale.

In entrambi i casi, con l’abuso del processo in ambito civile si verifica una violazione dell’art. 88, comma 1 c.p.c., secondo cui “Le parti e i loro difensori hanno il dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità”.

Solo a livello esemplificativo, si verifica un abuso del processo nel caso in cui il creditore frazioni il proprio credito attraverso la proposizione di plurimi ricorsi riconducili a un unico rapporto (c.d. “parcellizzazione del credito”) oppure quando l’avvocato promuova un’azione giuridicamente confusa, non comprensibile e a fini meramente dilatori (vedasi Cass. civ., sezione 3 civile, 25 giugno 2019, n. 16898) o, ancora, quando un creditore depositi istanza di fallimento pur non ricorrendone i presupposti, tra cui l’insolvenza del debitore, al solo fine di intimidirlo ed ottenere più velocemente il pagamento di quanto asseritamente dovuto (vedasi Cass. civ., sezione 1 civile, 12 agosto 2016, n. 17078).

La fattispecie generale dell’abuso del processo, infatti, si può declinare in innumerevoli e diversi casi concreti, accomunati dall’elemento soggettivo della malafede o della colpa grave della parte e del proprio difensore nell’abusivo utilizzo dello strumento processuale e, quindi, pretendere di individuarne caratteri più specifici sarebbe pressoché impossibile.

Un altro aspetto, però, che accomuna i casi di abuso del processo e, in generale, i casi di c.d. “lite temeraria”, è la risposta sanzionatoria che ne deriva e che viene individuata nella responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., secondo cui, sulla scorta del primo comma, “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza.

La primaria ed immediata conseguenza sanzionatoria del comportamento processuale distorto e della malafede, quindi, è costituita dalla condanna non solo alle spese di lite ma, altresì, al risarcimento dei danni, su istanza della parte vittoriosa, sulla quale ricade anche l’onere probatorio sia in merito all’an che al quantum della richiesta risarcitoria.

2. La responsabilità aggravata ex art. 96, comma 3 c.p.c.

Oltre alla predetta condanna al risarcimento del danno, un ulteriore strumento sanzionatorio all’abuso del processo è previsto dal terzo comma dell’art. 96 c.p.c., secondo cui “In ogni caso, quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata”.

Ai fini della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c. (la quale può essere disposta anche d’ufficio), non è richiesta la prova del danno subito dal richiedente a causa della proposizione della lite temeraria nei suoi confronti come, invece, richiesto dai primi due commi della norma, trattandosi di una particolare forma di “punitive damages”, ormai accettata e recepita anche dal nostro ordinamento.

La norma invocata, infatti, costituisce un’ulteriore strumento a tutela del corretto utilizzo del processo a fronte di comportamenti patologici che vengono, appunto, qualificati come “abuso del processo” e che differisce, quanto a sostanza e presupposti, dal risarcimento del danno.

Sul tema, di recente le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno statuito che “Nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non è assegnato solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, poiché sono interne al sistema la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile. Non è quindi ontologicamente incompatibile con l’ordinamento italiano l’istituto di origine statunitense dei risarcimenti punitivi” (Cass. civ., S.U., 5 luglio 2017, n. 16601).

Al Giudice, quindi, è consentito comminare anche la condanna al pagamento di una somma a mero titolo sanzionatorio e non a titolo risarcitorio, come peraltro già previsto prima di tale pronuncia dal comma terzo dell’art. 96 c.p.c., senza necessità alcuna di provare il danno subito.

Infatti, “La condanna della parte soccombente al pagamento di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art. 96, 3° comma, c.p.c., che configura una sanzione di carattere pubblicistico, non presuppone l’accertamento dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave, ma soltanto di una condotta oggettivamente valutabile alla stregua di abuso del processo, quale l’aver agito o resistito pretestuosamente” (Cass. civ., sezione 3 civile, 11 ottobre 2018, n. 25177).

3. La sentenza della Corte Costituzionale n. 139/2019 in materia di quantificazione della somma equitativamente determinata

Ulteriore tassello sul tema è rappresentato dalla recentissima sentenza n. 139 emessa il 6 giugno 2019 dalla Corte Costituzionale, la quale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 96, comma 3 c.p.c. sollevata con riferimento agli artt. 23 e 25, comma 2 della Costituzione.

La questione della quale si è occupata la Corte non riguarda l’ammissibilità o meno di una simile norma nel nostro ordinamento, poiché, come già precedentemente evidenziato, questa norma “punitiva” è ammessa quale sanzione a carattere pubblicistico, ma riguarda le modalità di quantificazione della somma equitativamente determinata dal giudice.

Secondo il ricorrente la norma censurata, assegnando al giudice un potere ampiamente discrezionale, senza fissare un massimo e un minimo della somma al cui pagamento la parte soccombente può essere condannata, violerebbe la riserva di legge prescritta dall’art. 23 Cost., nonché il principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.

La Corte Costituzionale, investita del tema, ha rilevato come nel nostro ordinamento non ci sia, sul punto, alcuna norma che imponga al giudice di quantificare entro certi parametri la somma in questione.

Infatti, l’art. 385 c.p.c. è stato abrogato nella parte in cui prevedeva che il giudice, quando si pronunciava sulle spese, condannasse la parte soccombente al pagamento in favore della controparte di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari, nel caso in cui la stessa avesse proposto ricorso o vi abbia resistito con dolo o colpa grave.

Ne deriva come il criterio della quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, sia rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari.

La Corte, tuttavia, ha stabilito che il criterio per la quantificazione debba essere ricercato in via interpretativa dall’esame della giurisprudenza, così statuendo: “Numerose sono le pronunce di illegittimità costituzionale di prestazioni imposte senza una sufficiente determinazione dei criteri per la loro quantificazione (ex plurimis, sentenze n. 174 del 2017, n. 83 del 2015, n. 33, n. 32 e n. 22 del 2012).

Si tratta però di fattispecie di prestazioni varie, essenzialmente di natura tributaria, la cui quantificazione era stata rimessa all’autorità amministrativa.

Invece, l’art. 96, terzo comma, cod. proc. civ. assegna al giudice, nell’esercizio della sua funzione giurisdizionale, il compito di quantificare la somma da porre a carico della parte soccombente e a favore della parte vittoriosa sulla base di un criterio equitativo. Il legislatore, esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali (ex plurimis, sentenza n. 225 del 2018), ha fatto affidamento sulla giurisprudenza che, nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente, soprattutto della Corte di cassazione (sentenza n. 102 del 2019), può specificare – così come ha già fatto – il precetto legale.

Si ha, infatti, che nella fattispecie, la giurisprudenza di legittimità, anche recente, ha, appunto, precisato che il terzo comma dell’art. 96 cod. proc. civ., rinviando all’equità, richiama il criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi e quindi la somma da tale disposizione prevista va rapportata «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa» (Corte di cassazione, sezione terza civile, ordinanze 11 ottobre 2018, n. 25177 e n. 25176).

Questo criterio, ricavato in via interpretativa dalla giurisprudenza, è peraltro coerente e omogeneo rispetto sia a quello originariamente previsto dal quarto comma dell’art. 385 cod. proc. civ. (che contemplava il limite del doppio dei massimi tariffari), sia a quello attualmente stabilito dal primo comma dell’art. 26 cod. proc. amm. (che similmente prevede il limite del doppio delle spese di lite liquidate secondo le tariffe professionali).

Può dirsi, pertanto, che la somma al cui pagamento il giudice può condannare la parte soccombente in favore della parte vittoriosa ha sufficiente base legale e quindi – ferma restando la discrezionalità del legislatore di calibrare meglio, in aumento o in diminuzione, la sua quantificazione – è comunque rispettata la prescrizione della riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost“.

4. Riflessioni conclusive

In conclusione, si può affermare come, ad oggi, l’istituto della condanna ex art. 96, comma 3 c.p.c. sia definitivamente ammissibile anche se la norma non determina espressamente i criteri per la quantificazione della somma, i quali debbono essere ricercati nella giurisprudenza sopra citata e richiamata dalla Corte Costituzionale.

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