L’abrogazione tacita e retroattiva dell’irresponsabilità dell’hosting provider (Nota a Tribunale Roma, Sez. spec. Impresa, 12 luglio-27 giugno 2019)

Redazione 15/10/19
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di Francesca Ferrari

Sommario

1. La vicenda litigiosa alla base della pronuncia

2. L’hosting provider “attivo”

3. La sentenza n. 7708/2019 della Suprema Corte

4. L’ulteriore elaborazione dell’hosting provider attivo da parte del Tribunale di Roma

5. L’onere della prova

6. Conclusioni

1. La vicenda litigiosa alla base della pronuncia

Tribunale Roma, Sez. spec. Impresa, 12 luglio-27 giugno 2019

La società Reti Televisive Italiane s.p.a. (RTI) agiva in giudizio nei confronti della società francese Dailymotion SA (DAILYMOTION) titolare dell’omonimo portale telematico, lamentando, da parte della convenuta, la violazione dei propri diritti autoriali e di marchio e per ottenere le inibitorie previste dalla legge, oltre che il risarcimento del danno consequenziale.

L’attrice, dopo aver dimostrato la titolarità dei diritti di sfruttamento economico e dei marchi ed aver allegato che sulla piattaforma della convenuta vi erano file audio e video in violazione degli art. 78 ter e 79 l.d.a. e dell’art. 20 c.p.i. e che la convenuta era stata reiteratamente diffidata ed invitata alla rimozione dei contenuti in violazione chiedendo che venisse ordinata al provider la rimozione di tutti i file illegittimamente caricati, pronunciata l’inibitoria ed ogni ulteriore violazione nonché condannata la convenuta al risarcimento del danno. La convenuta, eccepito il difetto di giurisdizione e sollevata questione pregiudiziale per remissione degli atti alla Corte di Giustizia, con riferimento all’interpretazione degli artt. 3 e 2, lett. h) e i), della direttiva sul commercio elettronico[1], chiedeva il rigetto delle domande attoree invocando la scriminante prevista dalla direttiva 2000/31/CE e recepita nell’ordinamento nazionale con il decreto legislativo n. 70/2003 ed in particolare gli articoli 16 e 17 [2] del decreto legislativo citato, che, richiamando analoghe disposizioni contenute nella normativa sovranazionale, contemplano testualmente delle esenzioni di responsabilità per i soggetti coinvolti a vario titolo nella gestione dei dati. Con la sentenza del 12 luglio scorso il Tribunale di Roma ha ritenuto che la convenuta dovesse qualificarsi come hosting provider attivo e che la stessa non potesse perciò beneficiare del contenuto la scriminante invocata e, sulla base di ciò, ha pronunciato l’inibitoria nei confronti della società titolare del portale condannandola altresì al risarcimento del danno.

[1] Trattasi della Direttiva 2000/31/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell’8 giugno 2000 relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno.

[2] E’ il d.lgs. di attuazione della direttiva 2000/31/CE relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 87 del 14 aprile 2003. L’art. 16 – rubricato «Responsabilità nell’attività di memorizzazione di informazioni – hosting» recita: «1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione, consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore. 3. L’autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse», mentre l’art. 17 – rubricato «Assenza dell’obbligo di generale di sorveglianza» dispone: «1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, nè ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. 2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore è comunque tenuto: a) ad informare senza indugio l’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell’informazione; b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l’identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite. 3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l’accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l’autorità competente».

2. L’hosting provider “attivo”

È ben noto che la figura dell’hosting provider attivo non ha riconoscimento normativo.

In realtà l’art 16 d.lgs. 70/2003 si limita a definire il servizio svolto dall’hosting provider come «memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio». Quanto poi all’art. 17 del già citato d.lgs. 70/2003 lo stesso – come si è detto e come emerge dalla stessa rubrica della norma – prevede che l’hosting provider sia esonerato da un obbligo di generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette e memorizza così come da un obbligo generale di «ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite».

È chiaro che l’esonero di cui all’art. 17 così come l’esenzione da responsabilità ex art. 16 si caratterizzano in quanto hanno «come comune denominatore, il criterio della neutralità»[3]. Sia il decreto sia la direttiva dunque, precisano che l’attività di hosting implica una memorizzazione duratura di informazioni per conto di un utente[4] e prevedono che l’irresponsabilità del provider si verifichi a condizione che lo stesso non sia a conoscenza di fatti, per quanto riguarda la responsabilità civile, che rendono manifesta l’illiceità dell’informazione, posto che una volta invece acquisita la conoscenza dell’illecito, il provider deve agire per rimuovere l’informazione stessa.

È chiaro che il regime di favore delineato nella normativa ha la funzione di proteggere il provider per quanto riguarda la memorizzazione duratura di informazioni di terzi e ben si evince, dal dettato legislativo, che tale irresponsabilità è del tutto indipendente dalla natura delle informazioni così come dalle «operazioni legate ad ulteriori aspetti del servizio o finalizzate ad ottimizzare il medesimo»[5] e si fonda esclusivamente sulla neutralità del provider .

In un contesto, dunque, nel quale certamente si profilavano difficoltà ermeneutiche nasce, a livello giurisprudenziale, la figura dell’hosting provider attivo che perderebbe – secondo la giurisprudenza in particolare nazionale – l’esonero da responsabilità in quanto interferisce nella elaborazione e nella presentazione delle informazioni[6].

Peraltro la giurisprudenza ha individuato una pluralità di criteri per ricondurre il provider dall’una all’altra delle categorie e, in particolare, la Corte di Giustizia ha certamente operato con molta prudenza al fine di non porre nel nulla l’intento del legislatore. In termini generali si può dire che se, da un lato, le caratteristiche e le funzionalità del provider così come la sua natura imprenditoriale e l’esistenza di un ritorno economico sono stati ritenuti elementi non idonei a far venire meno la neutralità[7], in quanto evidentemente non determinano una conoscenza o un controllo preventivo delle informazioni memorizzate, dall’altro lato l’esistenza di attività redazionali sulle informazioni medesime consistenti nella creazione o nell’interferenza delle informazioni, comportano il venire meno della neutralità del provider in quanto l’ingerenza sul contenuto menzionato certamente determina la consapevolezza dell’illeceità dello stesso[8].

[3] Cfr. Montagnani, Internet, contenuti illeciti e responsabilità degli intermediari, 2018, Milano pagg.. 85-86.

[4] Questa memorizzazione duratura distingue, secondo il legislatore, l’attività di hosting da quella di mere conduit (i provider deputati a consentire l’accesso alla rete, per il tramite delle loro infrastrutture, comunemente detti «mere conduit» o «access provider»; questi provider offrono dunque agli utenti della rete il semplice trasporto di dati e di informazioni) o di caching (in questo caso il provider offre un servizio di memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di informazioni allo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari su loro richiesta).

[5] Montagnani, op. cit., pag. 102. In questo senso cfr. Cass. Civ., Sez. I, 19 marzo 2019, n. 7708.

[6] L’elaborazione giurisprudenziale di una nuova figura di provider, il c.d. hosting attivo muove dalla giurisprudenza europea (Corte giustizia UE, sentenza del 23 marzo 2010, cause riunite da C-236/08 a C-238/08, Google France & Google Inc. e altri c. Louis Vuitton Malletier ), che è stata poi recepita con qualche incertezza da quella italiana – a favore: Trib. Torino, 23 giugno 2014, in AIDA, 2015, pagg. 1684 e ss.; contra: App. Milano, 7 gennaio 2015, n. 29, in Dir. ind., 2015, 5, pagg. 455 e ss.

[7] In questo senso si esprime la Corte di giustizia nel già citato caso Google France & Google Inc. e altri c. Louis Vuitton Malletier.

[8] Cfr. le considerazioni della Corte di giustizia nella sentenza del 12 luglio 2011, L’Oréal e a., C-342/09 nonché nel caso deciso l’11 settembre 2014, Sotiris Papasavvas c. O Fileleftheros Dimosia Etaireia Ltd e a., C- 291/13, ove viene considerata attività redazionale la selezione di parole chiave. La prima pronuncia italiana che delinea la figura dell’hosting provider attivo è del tribunale di Catania (Trib. Catania, 29 giugno 2004, in Gius., 2004, pagg. 3499 e ss.) e nel contesto della stessa si sottolinea – a parere di chi scrive in armonia con il testo della direttiva e del d. lgs. di attuazione della stessa – che la responsabilità del provider non può qualificarsi come oggettiva ma si configura invece come «colposa, allorché il fornitore del servizio, consapevole della presenza sul sito di materiale sospetto, si astenga dall’accertarne l’illiceità e, al tempo stesso, dal rimuoverlo; dolosa, quando egli sia consapevole anche dell’antigiuridicità della condotta dell’utente e, ancora una volta, ometta di intervenire».

3. La sentenza n. 7708/2019 della Suprema Corte

Su questo tessuto normativo e giurisprudenziale è intervenuta la sentenza n. 7708 del 19 marzo scorso della Suprema Corte che, se da un lato costituisce un tentativo, sotto questo profilo apprezzabile, di colmare l’inevitabile scarto esistente tra la normativa e l’evoluzione tecnologica, dall’altro lato non convince sia in quanto non esclude che, al ricorrere di determinate condizioni, anche il provider passivo possa incorrere in responsabilità sia in quanto l’enunciazione del principio in questione non conduce, nella vicenda specifica, ad alcuna conclusione se non al rigetto del motivo di ricorso. La corte, infatti, dopo avere fornito una definizione omnicomprensiva delle attività idonee a qualificare il provider come hosting «attivo»[9], da un lato sottolinea che la corte di merito avrebbe errato ove «già in astratto rifiuta la figura di hosting provider attivo», ma dall’altro lato sostiene che il motivo di ricorso è infondato in quanto «la sentenza impugnata della Corte d’Appello di Milano ha accertato le attività svolte … ed è giunta alla conclusione secondo cui il ruolo del prestatore dei servizi, nella vicenda in esame, non ha varcato i limiti della prestazione di mero hosting provider passivo». Se così stanno le cose quale significato ha cercare di fornire una definizione in questa sede di provider attivo?

Egualmente non condivisibile è l’ulteriore conclusione alla quale giunge la Corte con riferimento al requisito della conoscenza effettiva dell’illiceità della condotta, che deve sussistere affinché si possa configurare una responsabilità del provider. La Corte sul punto sostiene che – ai fini della conoscenza effettiva – non è ovviamente necessaria una diffida e che è sufficiente l’esistenza «di una comunicazione in tal senso operata dal terzo, il cui diritto si assume leso… L’onere della prova a carico del mittente riguarda, in tale contesto, solo l’avvenuto recapito all’indirizzo del destinatario» e ancora «resta affidato al giudice del merito l’accertamento in fatto se, sotto il profilo tecnico-informatico, l’identificazione di video, diffusi in violazione dell’altrui diritto, sia possibile mediante l’indicazione del solo nome o titolo della trasmissione da cui sono tratti, od, invece, sia indispensabile, a tal fine, la comunicazione dell’indirizzo ‘url’» nonché «quello in esame è peraltro, un profilo squisitamente di merito, che presuppone un ineludibile accertamento in fatto; se del caso, ove sia necessario un ausilio esperto in ragione dei profili tecnici coinvolti, mediante consulenza tecnica d’ufficio …»[10].

[9] La Suprema Corte addiviene alla conclusione secondo la quale deve considerarsi “attivo” il provider che svolge «a titolo esemplificativo» «attività di filtro, selezione, indicizzazione, organizzazione, catalogazione, aggregazione, valutazione, uso, modifica, estrazione o promozione dei contenuti, operate mediante una gestione imprenditoriale del servizio, come pure l’adozione di una tecnica di valutazione comportamentale degli utenti per aumentarne la fidelizzazione». Conformi a questo orientamento anche Trib. Lucca, 20 agosto 2007, in Dir. internet, 2008, pagg. 81 e ss.; Trib. Roma, 16 dicembre 2009, in Resp. civ. prev., 2010, pagg. 1568 e ss. con commento di Bugiolacchi, (Dis) Orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità degli internet provider; Trib. Firenze, 25 maggio 2012, in Dir. info., 2012, pagg. 1210 e ss. con annotazioni di Scannicchio, La responsabilità del motore di ricerca per la funzione “auto-complete”. Si deve invece alla giurisprudenza penale della Suprema Corte l’elaborazione della figura del content provider che altri non è se non l’hosting attivo. Nella vicenda relativa al sito Pirate Bay, ritenuta penalmente responsabile per il reato di illecita comunicazione al pubblico per finalità di lucro e tramite reti telematiche di opere protette dal diritto d’autore, la Cassazione ha ritenuto che le attività dell’imputato, consistenti nell’indicizzazione delle informazioni affinché gli utenti potessero decidere da quale sito procedere al downloading dei file, consentissero di configurarlo appunto quale responsabile del reato sopra delineato; in conformità cfr. anche la decisione della Corte di giustizia nel caso Stichting c. Ziggo, C-610/2015 che correttamente sottolinea come gli amministratori della piattaforma nel caso Pirate Bay incitassero gli utenti a realizzare copie delle opere protette dal diritto d’autore. La giurisprudenza domestica prevalentemente del Tribunale di Milano, di quello di Roma e di quello di Torino si occupa dei servizi offerti da Yahoo, Google e Youtube in una serie di vicende relative a violazioni di opere dell’ingegno poste in essere in rete. Dall’esame della stessa sembra si possa dire che, mentre il tribunale capitolino, seppur con qualche eccezione, propende per una valutazione estensiva del concetto di hosting provider attivo, quello meneghino e quello sabaudo paiono per la verità più misurati e prudenti (cfr. quanto al tribunale di Roma, oltre alla già citata pronuncia del 16 dicembre 2009, le pronunce del 23 marzo 2011, in Giur. comm., 2012, 2, pagg. 894 e ss., con commento di Colangelo, La responsabilità del service provider per violazione indiretta del diritto d’autore nel caso Yahoo Italia; Trib. Roma, ord., 14 aprile 2010, in Il dir. ind. 2010, 2, pagg. 248 e ss. con nota di Mula, La responsabilità e gli obblighi degli internet provider per violazione del diritto d’autore; quanto al tribunale di Milano cfr. la sentenza del 9 settembre 2011, in Riv. dir. ind., 2011, pagg. 109 e ss. con commento di Saraceno, p> Internet: la responsabilità degli Internet Service Provider e Trib. Milano, 25 marzo 2013, in Dir. info., 2013, pagg. 385-388,on nota di Scannicchio, Il provider non risponde per gli accostamenti diffamatori prodotti automaticamente dal motore di ricerca, ma anche App. Milano, 7 gennaio 2015, RTI c. Yahoo!; Trib. Torino, 7 aprile 2017, Delta Tv c. Google-YouTube; Trib. Torino, ord. 19 ottobre 2015, Delta Tv c. Dailymotion; Trib. Torino, 24 gennaio 2018, Delta Tv c. Dailymotion.

[10] Il riferimento della Corte all’utilizzo dello strumento della consulenza tecnica al fine di accertare i requisiti che la notizia deve avere sembra molto pericoloso. Se infatti dovesse prevalere l’utilizzo della consulenza tecnica al fine di individuare le modalità per utilizzare gli strumenti di intelligenza artificiale nel processo, inevitabilmente si produrrebbe un effetto di ulteriore allontanamento del giudice dalla prova nonché un outsourcing al quadrato del giudizio di fatto (cfr. le considerazioni di Cavallone in merito alla consulenza tecnica ove sottolinea come la stessa sia «il prodotto, già assemblato e finito, di una operazione di outsourcing, che include sia la raccolta delle informazioni utili per il giudizio di fatto, sia la formulazione (tramite le risposte ai ”quesiti”) del giudizio stesso», Cavallone, Riflessioni sulla cultura della prova, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, pagg. 947 e ss.).

4. L’ulteriore elaborazione dell’hosting provider attivo da parte del Tribunale di Roma

La pronuncia oggetto di queste considerazioni, che espressamente fa riferimento alla sentenza n. 7708/2019 della Cassazione, si spinge peraltro ancora più in là.

Ed infatti, se, in ogni caso, la corte aveva sottolineato che le funzioni svolte dal provider là considerato (n.d.r. Yahoo) mediante tecnologie avanzate non consentivano in ogni caso, di determinare il mutamento della natura del servizio offerto che doveva ritenersi «meramente passivo», il Tribunale di Roma ritiene invece che elementi rilevanti ai fini del venir meno della neutralità di Dailymotion possano desumersi dalla natura imprenditoriale del servizio[11] così come dall’utilizzo, da parte del provider, di cookies di profilazione ai fini della valutazione comportamentale degli utenti, senza tuttavia accertare in alcun modo se ciò determini lo svolgimento di attività editoriali o invece sia il frutto di procedure automatizzate. Anzi, quanto ai cookies, il Tribunale sembra ritenere rilevante che gli stessi siano stati predisposti da tecnici informatici e deduce che ciò presuppone «un vaglio dei contenuti memorizzati».

Questa ricostruzione, seppure suggestiva, non tiene però conto del fatto che i cookies operano automaticamente ed è evidente che vi sia un intervento umano anche alla base di essi, posto che ad oggi non vi sono ipotesi di file di testo che siano creati ex novo da un sistema di intelligenza artificiale; il Tribunale peraltro neppure si cura di distinguere tra i cookies tecnici e quelli di profilazione[12] che, ex lege, devono essere disattivabili dall’utente finale.

Egualmente non condivisibili sono le affermazioni del tribunale in merito al requisito della conoscenza del contenuto illecito.

La pronuncia, infatti, ritiene che «la società convenuta non possa aver ignorato, proprio in ragione della propria complessa attività imprenditoriale, delle energie profuse (testimoniate dal bilancio allegato in atti), e dalle modalità controllo e comunque sussistono all’atto del caricamento dei contenuti video, la presenza sulla propria piattaforma di almeno 995 caricamenti coperti da diritto d’autore riferibili a parte attrice che contemplano programmi di grandissimo seguito ed interesse del pubblico» e, per tal via sostituisce al requisito della conoscenza effettiva quello della conoscibilità potenziale. A supporto di ciò peraltro il Tribunale cita i termini del contratto tra il provider e l’utente finale, nel contesto del quale si legge che il provider non è «legalmente tenuto a nessun obbligo generale di sorveglianza del contenuto trasmesso e stoccato tramite il sito; le sole obbligazioni inerenti alla qualità di host riguardano la lotta contro alcuni contenuti secondo la procedura descritta alla rubrica “contenuti abusivi”, la conservazione dei dati di connessione ed il ritiro di ogni contenuto manifestamente illecito non appena ne avremo avuto conoscenza effettiva».

[11] Contra cfr. App. Milano, 7 gennaio 2015, RTI c. Yahoo!; Trib. Torino, 7 aprile 2017, Delta Tv c. Google-YouTube, tutte già citate.

[12] I cookie sono piccoli file di testo che i siti visitati dagli utenti inviano ai loro terminali, ove vengono memorizzati per essere poi ritrasmessi agli stessi siti alla visita successiva. I cookie delle c.d. «terze parti» vengono, invece, impostati da un sito web diverso da quello che l’utente sta visitando. Questo perché su ogni sito possono essere presenti elementi (immagini, mappe, suoni, specifici link a pagine web di altri domini, ecc.) che risiedono su server diversi da quello del sito visitato. I cookie tecnici servono a effettuare la navigazione o a fornire un servizio richiesto dall’utente. Non vengono utilizzati per scopi ulteriori e sono normalmente installati direttamente dal titolare del sito web. Senza il ricorso a tali cookie, alcune operazioni non potrebbero essere compiute o sarebbero più complesse e/o meno sicure, come ad esempio le attività di home banking (visualizzazione dell’estratto conto, bonifici, pagamento di bollette, ecc.), per le quali i cookie, che consentono di effettuare e mantenere l’identificazione dell’utente nell’ambito della sessione, risultano indispensabili. I cookie di profilazione sono invece utilizzati per tracciare la navigazione dell’utente in rete e creare profili sui suoi gusti, abitudini, scelte, ecc. Con questi cookie possono essere trasmessi al terminale dell’utente messaggi pubblicitari in linea con le preferenze già manifestate dallo stesso utente nella navigazione online. Per l’installazione dei cookie tecnici non è richiesto il consenso degli utenti, mentre è necessario dare l’informativa (art. 13 del Regolamento UE n. 679 del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati o GDPR). I cookie di profilazione, invece, possono essere installati sul terminale dell’utente soltanto se questo abbia espresso il proprio consenso dopo essere stato informato con modalità semplificate.

5. L’onere della prova

La pronuncia si discosta poi dall’interpretazione generalmente accettata dal processualcivilista in tema di onere della prova. Il tribunale infatti afferma: «incombeva alla convenuta dare la dimostrazione fattuale dell’esistenza di una struttura di impresa, di un’organizzazione di dipendenti e di una modalità di gestione compatibili con quanto previsto dall’articolo 14 della direttiva e 16 della normativa nazionale. Alla luce difatti di un principio generale di responsabilità per la pubblicazione e diffusione di materiale altrui protetto da diritto d’autore (DAILYMOTION è perfettamente conscia del fatto che la maggior parte del materiale divulgato sulla sua piattaforma è coperto da privativa autoriale) la convenuta era gravata dall’onere di dare fattiva dimostrazione del possedere le specifiche corrispondenti all’esimente stabilità dal Legislatore comunitario, anche (e soprattutto) alla luce dell’interpretazione restrittiva che si è andata via via sviluppando con riferimento all’articolo 14 ed alla figura generale dei ISP.

Né doveva essere l’attrice gravata dell’onere di dimostrare l’assenza dei presupposti dell’esimente in capo alla convenuta; nessuno, difatti, più dell’interessata, può dare dimostrazione fattiva del meccanismo di funzionamento della propria piattaforma, del personale e dei mezzi impiegati, delle modalità di gestione e stoccaggio dei files e dei video (anche alla luce del ben noto principio della riferibilità e della vicinanza della prova)».

È ben noto che la regola dell’onus probandi si rivolge prettamente al giudice e che il principio della vicinanza della prova, ormai dotato di natura dogmatica quantomeno secondo gli ermellini[13], costituisce il frutto dell’elaborazione giurisprudenziale che ha ritenuto «conforme all’esigenza di non rendere eccessivamente difficile l’esercizio del diritto del creditore a reagire all’inadempimento, senza peraltro penalizzare il diritto di difesa del debitore adempiente, fare applicazione del “principio di riferibilità o di vicinanza della prova”, ponendo in ogni caso l’onere dalla prova a carico del soggetto nella cui sfera si è prodotto l’inadempimento e che è quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore»[14] ed ha poi esteso l’ambito di operatività del criterio in questione a settori diversi rispetto all’inadempimento contrattuale, come quello di specie[15].

In termini generali si ritiene debba essere gravata della prova di un fatto la parte che, con maggior facilità, può assolvere al relativo onere[16], ma affinché l’interpretazione dell’art. 2697 c.c. possa dirsi costituzionalmente orientata è necessario – come da sempre segnalato dagli autori – valutare la fattispecie concreta[17]. Nel caso di specie tuttavia il tribunale propone un’interpretazione del criterio della vicinanza alla prova molto distante in quanto sembra evidente che è più facile per il titolare del diritto provare la conoscenza del contenuto illecito da parte del provider che non per quest’ultimo la sua ignoranza.

È ciò non solo in quanto l’attore è onerato di provare un fatto positivo mentre – secondo il tribunale – spetterebbe al convenuto la prova di un fatto negativo[18], ma anche perché l’onere di provare l’inoperatività dell’eccezione di esonero dalla responsabilità certamente non può gravare su chi quell’eccezione propone.

Evidentemente il tribunale propone un’applicazione del principio di vicinanza non conforme alla regola della ripartizione degli oneri probatori volta dalla volontà di ristabilire un potenziale squilibrio tra le parti in senso sostanziale, ma – così facendo – determina una situazione nell’ambito della quale il rischio dell’onere dell’omessa prova ricade sulla parte in grado di evitarlo solo con maggiori difficoltà e, peraltro, a ciò si giunge non mediante una modificazione ex lege o ex contractus della regola di ripartizione degli oneri probatori, bensì mediante un intervento manipolatorio degli stessi ad opera del giudice e ciò in contrasto anche con la già richiamata recente pronuncia della Suprema Corte.

[13] Cfr. Cass. Civ., Sez. III, 20 febbraio 2006, n. 3651, in Corr. giur., 2006, pag. 1727.

[14] Cass. Civ., Sez. Un., 30 ottobre 2001, n. 13533, in Corr. giur., 2001, pagg. 1565 e ss., con nota critica di Mariconda, Inadempimento e onere della prova: le sezioni unite compongono un contrasto e ne aprono un altro; in Foro it., 2002, 1, coll. 769 e ss., con nota di Laghezza, Inadempimenti ed onere della prova: le Sezioni Unite e la difficile arte del rammendo; in Nuova giur. civ. comm., 2002, 1, pagg. 349 e ss., con nota di Meoli, Risoluzione per inadempimento e onere della prova.

[15] Le applicazioni giurisprudenziali più frequenti del principio di vicinanza della prova si rilevano nel campo della responsabilità medica (cfr. ex multis Cass. Civ., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577, in Foro it., 2008, 1, coll. 455 e ss.; in Nuova giur. civ. comm., 2008, 1, coll. 612 e ss., con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione), in ipotesi di licenziamento illegittimo e in materia di danno da prodotto difettoso.

[16] Cfr.: Besso, La vicinanza della prova, in Riv. dir. proc., 2015, pagg. 1383 e ss.

[17] Cfr. a mero titolo esemplificativo Micheli, L’onere della prova, 1942, Padova, pag. 4, ove precisa che la regola di giudizio «esplica i propri effetti nel processo, rendendo possibile al giudice la pronuncia di merito in ogni caso; ma il contenuto (concreto) della regola non è determinabile se non tenendo conto della pretesa fatta valere in giudizio, e pertanto del rapporto giuridico controverso».

[18] Cfr. Di Majo, Le tutele contrattuali, 2015, Torino, pag. 256, ritiene «illogico, oltre che di scarsa fattibilità, onerare il soggetto (della prova) di un fatto “negativo”, che l’evento non si è verificato (negativa non sunt probanda) … giusta il «principio della “vicinanza” e/o della “riferibilità” della prova …, ove si assuma che i fatti di inadempimento riguardino in misura più diretta la sfera del debitore … è a quest’ultimo che incombe la prova liberatoria (di aver adempiuto), restando al creditore solo l’onere di provare la titolarità del proprio diritto e l’allegazione della sua mancata soddisfazione».

6. Conclusioni

La pronuncia qui commentata e criticata avrebbe potuto essere ritenuta corretta nelle sue conclusioni, ma non nell’iter argomentativo, tra qualche anno quando forse sarà attuata in Italia la Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale[19] , tuttavia oggi la direttiva in questione neppure è entrata in vigore e, dunque, la pronuncia determina un’inaccettabile – a parere di chi scrive – applicazione retroattiva della direttiva da ultimo citata ed un’erosione dell’ambito applicativo dell’esenzione di responsabilità dei provider.

[19] Il riferimento è alla Direttiva (UE) 2019/790 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 17 aprile 2019, sul diritto d’autore e sui diritti connessi nel mercato unico digitale e che modifica le direttive 96/9/CE e 2001/29/CE, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea del 17 maggio 2019. L’art. 17 della direttiva prevede: «Gli Stati membri dispongono che il prestatore di servizi di condivisione di contenuti online effettua un atto di comunicazione al pubblico o un atto di messa a disposizione del pubblico ai fini della presente direttiva quando concede l’accesso al pubblico a opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai suoi utenti. Un prestatore di servizi di condivisione di contenuti online deve pertanto ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 2, della direttiva 2001/29/CE, ad esempio mediante la conclusione di un accordo di licenza, al fine di comunicare al pubblico o rendere disponibili al pubblico opere o altri materiali» e, dunque, gli internet service provider dovranno assicurarsi di ottenere l’autorizzazione da parte dell’autore per la condivisione dei contenuti; ove un autore o un editore per suo conto, decidesse di non mettere a disposizione i propri contenuti, nemmeno a fronte di compenso, gli internet service provider dovranno bloccare la diffusione degli stessi. Eguale condotta è richiesta agli internet service provider qualora venga riscontrata a posteriori la pubblicazione di un contenuto coperto da copyright.

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