La violenza come mezzo educativo per i figli è reato

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Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione, chiarendo che non è mai consentito ricorrere alla violenza fisica e morale per educare e correggere i comportamenti dei figli.

Prima di scrivere della questione specifica, scriviamo qualcosa sul reato di maltrattamenti in famiglia.

Il reato di maltrattamenti in famiglia

Il reato di maltrattamenti in famiglia è disciplinato e punito dall’articolo 572 del codice penale, con il fine di tutelare la salute e l’integrità psichica e fisica di soggetti che appartengono a un contesto familiare o para familiare.

La formulazione attuale della norma è frutto della riforma del 2012, che ha trasformato i maltrattamenti in famiglia o nei confronti dei bambini, in quello che tecnicamente è il reato di maltrattamenti contro familiari o conviventi, modificando la disciplina e dando al significato delittuoso una più ampia portata.

Il reato, noto come maltrattamenti in famiglia si configura ogni volta che un soggetto maltratta una persona che fa parte della sua famiglia o che convive con lui, oppure una persona sottoposta alla sua autorità o che gli è stata affidata per motivi educativi, ad esempio, istruzione, vigilanza o custodia o per l’esercizio di una professione o di un’arte.

A questo scopo, vengono considerate persone di famiglia non esclusivamente, il coniuge, i consanguinei, gli affini, gli adottati e gli adottanti, come avveniva in passato.

Questo concetto viene esteso anche al convivente more uxorio, coloro che sono in qualche modo legati da un rapporto di parentela con il maltrattante e ai domestici che convivono con lui.

Ritorniamo alla questione specifica.

In relazione ai soggetti che oggi possono essere vittima del reato in questione, si può dire che, come la giurisprudenza di legittimità (sent. Cass. n. 31121/2014) ha avuto modo di precisare, “sussiste il delitto di maltrattamenti in famiglia ex art. 572 c.p. ogni volta che la relazione presenti intensità e caratteristiche tali da generare un rapporto stabile di affidamento e solidarietà”.

La natura dei maltrattamenti

In relazione alla portata del termine maltrattamenti, secondo la dottrina e la giurisprudenza consolidate, può essere considerato come “maltrattante” qualsiasi complesso di atti prevaricatori, vessatori e oppressivi reiterati nel tempo, tali da produrre nella vittima un’apprezzabile sofferenza fisica o morale, o anche da pregiudicare il pieno e soddisfacente sviluppo della personalità della stessa”.

A questo proposito, qualche anno fa, fece molto scalpore, la sentenza della Corte di Cassazione numero 36503/2011, che aveva confermato la condanna per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti di una madre e di un nonno che, a causa di un “eccesso di protezione e attenzioni”, non avevano consentito uno sviluppo psico – fisico armonico del figlio/nipote.

Attraverso la sentenza n. 18706/2020 la Suprema Corte di Cassazione, ha chiarito che non è mai consentito ricorrere alla violenza morale o fisica per educare i figli.

Di seguito vedremo in che modo sia arrivata all’affermazione di questo importante principio giuridico di elevato contenuto morale.

I fatti in causa

La Corte d’Appello condanna l’imputato per il reato di maltrattamenti in famiglia ai danni della convivente e delle figlie.

A questo proposito, ricordiamo che il reato di maltrattamenti, disciplinato dall’articolo 572 del codice penale, punisce con la pena della reclusione da tre a sette anni chiunque

“maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”.

L’imputato, attraverso il suo avvocato difensore ricorre in Cassazione sollevando due motivi di ricorso.

Con il primo motivo evidenzia come la sentenza sia viziata perché si fonda in modo esclusivo sulle dichiarazioni della persona offesa, che sulla base delle prove acquisite, avrebbero smentito il divieto imposto dal marito alla donna di incontrare i suoi familiari e di lavorare.

Secondo l’imputato, la donna, nella denuncia, ha ingigantito fatti legati alla separazione e ridimensionato un episodio di violenza nel quale l’uomo avrebbe colpito con un cucchiaio una delle figlie.

La registrazione prodotta dalla persona offesa sembra sia relativa esclusivamente a un periodo molto conflittuale, dovuto alla separazione e alle collegate questioni di carattere patrimoniale.

Sono episodi che, in relazione allla documentazione prodotta, non corrispondono alla versione fornita dalla denunciante.

Con il secondo motivo, l’uomo lamenta come i fatti commessi in danno delle figlie non dovrebbero essere ricondotti all’articolo 572 del codice penale, ma all’articolo 571 del codice penale, che punisce l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina.

L’imputato precisa anche di non avere mai utilizzato violenza contro le figlie, per le quali difetterebbe il requisito dell’abitualità, che è necessario ai fini della configurazione del reato di maltrattamenti.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione

Secondo la Suprema Corte, ricorrere alla violenza per educare o correggere non è mai consentito.

La Cassazione con la sentenza n. 18706/2020 ha dichiarato inammissibile il ricorso dell’imputato, per i motivi che verranno scritti di seguito.

La Corte, dopo avere precisato che “una sentenza non può essere annullata esclusivamente per semplici prospettazioni alternative che si risolvano in una rilettura orientata degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione” ha rilevato che il quadro probatorio ricostruito dalla Corte d’Appello non fa che dare conferma di quello che aveva affermato l’accusa, vale a dire, che il comportamento dell’imputato deve essere ricondotto al reato di maltrattamenti.

I giudici dell’appello hanno “fornito una valutazione analitica e autonoma sui punti specificamente indicati nell’impugnazione di appello, di conseguenza la motivazione risulta esaustiva e immune dalle censure proposte”.

La tesi dell’imputato secondo il quale l’episodio di violenza in danno della figlia dovrebbe essere ricondotto al reato di abuso dei mezzi di correzione, secondo la Cassazione non regge.

La Corte d’Appello in sentenza ha evidenziato, al contrario di quello che era stato ammesso dal ricorrente “un reiterato ricorso alla violenza, materiale e morale, e come ciò sia incompatibile con il reato di abuso dei mezzi di correzione.

L’elemento differenziale tra il reato di abuso dei mezzi di correzione e quello di maltrattamenti non può essere individuato nel grado di intensità delle condotte violente tenute dall’agente, perché l’utilizzo della violenza per scopi correttivi ed educativi non è mai consentito”.

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Dott.ssa Concas Alessandra

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