La stabilizzazione del personale a tempo determinato negli enti locali territoriali. Analisi dei presupposti e dei casi dubbî

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1. Introduzione ed osservazioni preliminari 2. La disposizione legislativa ed il suo raffronto con i valori costituzionali 3. L’analisi dei presupposti della “stabilizzazione” 4. “Stabilizzazione”ed incarichi a supporto degli organi di governo 5.   La procedura di “stabilizzazione” 6. I casi dubbî
 
 
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1.      Introduzione ed osservazioni preliminari
La Legge 27/12/2006 n. 296 – Legge Finanziaria per il 2007 – ha consegnato agli interpreti un autentico monstre giuridico, per la sua chilometrica lunghezza e per l’ambiguità di talune delle disposizioni in cui si articola.
Una tale ambiguità si configura proprio in relazione ad uno degli aspetti piú salienti in materia di disciplina e regolamentazione del personale della pubblica amministrazione: la cosiddetta “stabilizzazione” del personale precario, da attuare mediante la trasformazione dei contratti di lavoro subordinato a termine in rapporti lavorativi a tempo indeterminato, con esclusione dei profili dirigenziali.
La formulazione lessicale della disposizione normativa che la prevede, infatti, pone non pochi problemi interpretativo-applicativi, perché circondata da spazî di ambiguità referenziale di cui si sarebbe fatto volentieri a meno.
L’oggetto del lavoro è circoscritto: in questa fase sarà indagata la sola normativa in materia di “stabilizzazione” del personale assunto con contratti a termine dagli enti locali territoriali, tralasciando la correlativa analisi che riguarda il personale analogamente assunto dalla pubblica amministrazione in generale. Ciò non costituisce un vulnus all’organicità della trattazione, poiché la regolamentazione dei due ámbiti è sostanzialmente identica.
Se “su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere[1], non meno vero è che su ciò, di cui non si può tacere, si deve parlare.
E proprio a tale complessa problematica giuridica, comprese le questioni che essa genera, sono riservati i prossimi paragrafi di questo lavoro, non senza premettere alla relativa trattazione un’osservazione di fondo.
La normativa che oggi disciplina la “stabilizzazione” dei rapporti contrattuali a termine degli enti locali è chiaramente ispirata ad una specifica scelta del legislatore, che sollecita risposte a non pochi interrogativi in ordine sia ai presupposti per la sua attivazione, sia ai casi dubbî che essa genera. Essa, infatti, pare ispirata alla logica del “valore in sé” dell’assunzione a tempo indeterminato, in contrasto con una ben piú pregnante logica di chiara ispirazione aziendalistica, e proprio per questo mal si presta ad una riconduzione a sistema in termini di ragionevolezza e di compiuta razionalità.
È di tutta evidenza, infatti, che se il ricorso alla flessibilità organizzativa deve essere circondato da specifiche cautele per evitare abusi, è altrettanto vero che l’immobilizzazione di risorse lavorative a tempo indeterminato può confliggere – come spesso accade – con la ragionevolezza delle scelte occupazionali. Esse, infatti, non devono affermare dati metastorici, ma rispecchiare il principio secondo cui l’organizzazione della forza lavoro, e, in ultima analisi, la sua estensione qualitativa e quantitativa, sono variabili dipendenti dei programmi di governo e non elementi che ne devono o possono condizionare la realizzazione [2] [3], il che è come dire che l’azienda è una funzione dell’impresa e non viceversa [4].
 
 
2.      La disposizione legislativa ed il suo raffronto con i valori costituzionali
Il riferimento d’obbligo in materia è, ovviamente, l’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296.
Il suo testo prevede che “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, gli enti di cui al comma 557 fermo restando il rispetto delle regole del patto di stabilità interno, possono procedere, nei limiti dei posti disponibili in organico, alla stabilizzazione del personale non dirigenziale in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge, nonché del personale di cui al comma 1156, lettera f), purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive[5].
Dall’esame della disposizione normativa si desume súbito la sostanziale bipartizione delle casistiche possibili, almeno nelle intenzioni del legislatore.
All’ipotesi di contratto a tempo determinato perfezionato a séguito dell’avvenuta effettuazione di “procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge” si contrappone l’opposta evenienza in cui si è in presenza di “personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse”.
Esse sono differenti sia per i presupposti che delineano, sia per le conseguenze che determinano.
In presenza di contratti di lavoro a tempo determinato cui si è pervenuti previo espletamento di “procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge”, l’ente locale può, ove lo ritenga, addivenire alla “stabilizzazione del personale”, costituendo il relativo rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Per contro, se il rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato è stato perfezionato “mediante procedure diverse”, è preclusa la trasformazione diretta,  e ad essa si può procedere solo “previo espletamento di prove selettive”.
La ragione della bipartizione prevista dal legislatore è ovvia [6].
Il nuovo rapporto lavorativo configurabile a séguito della “stabilizzazione” è un’evidente ipotesi di assunzione all’impiego, per la quale l’art. 97, comma 3 Cost. prevede il ricorso alla concorsualità, salvi i casi stabiliti dalla legge [7].
L’art. 97, comma 3 Cost., per la verità, non è l’unica disposizione costituzionale rilevante in subiecta materia.
Ad essa si affiancano gli artt. 97, comma 1, 51, comma 1 e 98, comma 1 Cost., secondo i quali “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione”, posto che “agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvi i casi stabiliti dalla legge”, “tutti i cittadini […] possono accedere agli uffici pubblici […] in condizione di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge” e che “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”, ed i commi 1 e 2 dell’art. 3 Cost., i quali ultimi consolidano nell’ordinamento, il principio di eguaglianza, a sua volta fondamento del principio costituzionale di ragionevolezza.
Accanto al necessario rispetto dei suddetti valori costituzionali, il legislatore ha dovuto tenere in evidenza il divieto di trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato nel suo analogon a tempo indeterminato previsto per i contratti di impresa dall’art. 5 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 [8] e l’inapplicabilità del regime sanzionatorio previsto dagli artt. 27 e 69 del D.Lgs. 10/9/2003 n. 276 nel caso in cui, nei contratti d’impresa, il datore di lavoro privato utilizzi in modo scorretto le forme di lavoro flessibile a sua disposizione [9] [10].
Secondo la norma in questione, cui fa da pendent l’art. 36, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, infatti, è preclusa alla pubblica amministrazione la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato in un rapporto a tempo indeterminato [11], con la conseguenza che il lavoratore non ha azione per ottenere dal giudice ordinario alcun provvedimento ad effetti costitutivi idoneo a precostituire la suddetta trasformazione iussu iudicis [12].
Da quanto fin qui evidenziato si può concludere che la disciplina in materia di “stabilizzazione” del personale assunto dagli enti locali con contratti di lavoro subordinato a tempo determinato non è in contrasto con i valori costituzionali e segnatamente con i principî dell’accesso al pubblico impiego mediante pubblico concorso e di ragionevolezza, quest’ultimo fondamento logico delle possibili deroghe al primo, salve le precisazioni di cui al prossimo paragrafo.
 
 
3.      L’analisi dei presupposti della “stabilizzazione
L’analisi dei presupposti della stabilizzazione dei lavoratori subordinati [13] già assunti o comunque in servizio a tempo determinato dagli enti locali territoriali deve essere condotta con particolare attenzione, per evitare equivoci e fraintendimenti generati da approccî superficiali e fuorvianti.
I presupposti che devono essere attentamente indagati sono di due tipologie ben differenti dal punto di vista concettuale.
I primi, infatti, riguardano il dato meramente lessicale, ed attengono alla rappresentazione degli elementi costitutivi della fattispecie delineata dal legislatore.
I secondi, riguardano piú da vicino le sue ragioni logico-sistematiche, e fanno riferimento alla ratio dell’azione regolatrice legislativamente intrapresa.
In relazione agli elementi di natura lessicale, la formulazione dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296, consente di verificare che essi riguardano elementi di mero computo temporale piuttosto che tipologie di soggetti bene individuati.
La fattispecie fa riferimento, disgiuntamente, a personale non dirigenziale, in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29/9/2006, ovvero che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della Legge 27/12/2006 n. 296.
L’analisi del primo sottogruppo di prerequisiti non è particolarmente complessa, anche se talune delle ipotesi previste non sono di agevole comprensione.
In primo luogo, la “stabilizzazione” può essere effettuata solo per il personale non ascritto alla qualifica dirigenziale [14].
Da ciò si desume che il solo personale interessato ai presenti fini è quello che appartiene alle cosiddette “categorie professionali”, che, nel comparto contrattuale degli enti locali, è disciplinato, a partire dalla seconda tornata contrattuale, dal c.c.n.l. 31/3/1999, dal c.c.n.l. 1/4/1999, dal c.c.n.l. 14/9/2000, dal c.c.n.l. 5/10/2001 e dal c.c.n.l. 22/1/2004.
Si tratta, come è noto, del personale ascritto alle categorie professionali A), B), C) e D) previste dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto, identificato nei profili professionali esemplificativamente indicati dall’all. A) del c.c.n.l. 31/3/1999.
In secondo luogo, della “stabilizzazione” può beneficiare il personale “in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi, o che consegua tale requisito in virtù di contratti stipulati anteriormente alla data del 29 settembre 2006 o che sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore alla data di entrata in vigore della presente legge”.
In relazione a questo secondo prerequisito deve essere osservato che nelle tre ipotesi, disgiuntivamente previste dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 [15], tutti i termini legislativamente indicati sono connessi a specifici elementi di ragionevolezza, anche se, nei contenuti e nelle conseguenze, non sempre condivisibili in rapporto ai valori presupposti [16].
Il primo, ossia la durata triennale, anche non cumulativa, del pregresso rapporto di lavoro a termine, è in stretta connessione con l’identica durata prevista per la proroga dei contratti a tempo determinato dall’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 [17], che, ai presenti fini, deve essere integrato con quanto previsto dall’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000 [18].
È evidente che il riferimento alla durata triennale del rapporto di lavoro a termine è puramente e semplicemente indiziario e non intende affatto costituire uno specifico ancoraggio a pretese di stringenza logico-sistematica della normativa in materia di “stabilizzazione”, che, in ipotesi, sono ben lungi dall’esservi [19].
La norma, com’è noto, non prevede una durata aprioristicamente determinata del rapporto lavorativo a termine, limitandosi ad indicare specifiche sanzioni di carattere economico e funzionale a carico del datore di lavoro. Essa, infatti, prevede la sua non protraibilità oltre al termine finale apposto al contratto, a pena del pagamento di specifiche maggiorazioni stipendiali a carico del datore di lavoro e, nei casi estremi, della trasformazione del rapporto lavorativo a tempo determinato in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato previa conversione del primo nel secondo [20].
Essa, inoltre, predetermina in via generale la durata massima del rapporto contrattuale in tre anni, nel caso in cui il contratto a termine venga prorogato, secondo quanto previsto dall’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, subordinando la proroga stessa a specifiche condizioni.
L’esigenza sottesa alla norma è evidente.
La durata del contratto di lavoro subordinato a tempo determinato e soprattutto la sua eventuale proroga, sono una logica conseguenza dei presupposti legislativamente previsti per addivenirvi. L’art. 1, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, infatti, prevede che “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, mentre il suo comma 2 rafforza il concetto evidenziando che “l’apposizione del termine è priva di effetto se non risulta, direttamente o indirettamente, da atto scritto nel quale sono specificate le ragioni di cui al comma l”.
È di tutta evidenza che il riferimento a contratti a termine di durata ultra triennale e comunque ripetutamente protratti nel tempo oltre il triennio sono un chiaro índice ed indizio dell’abuso dello strumento contrattuale de quo da parte della pubblica amministrazione. Non può, infatti, sfuggire, ad un’attenta analisi, che le ipotesi nelle quali è possibile addivenire alla stipulazione di contratti a termine in base alla disciplina prevista dall’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000 predeterminano nella quasi totalità dei casi durate decisamente inferiori al triennio, circoscrivendo la proroga dei relativi rapporti alla sussistenza dei requisiti previsti dalla normativa vigente [21] ed al rispetto dei limiti temporali che essa prevede.
A questo proposito, infatti, v’è da domandarsi come si concilii il ricorso al contratto di lavoro subordinato a termine con le “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” previste in via generale dall’art. 1, comma 1 D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 e soprattutto dall’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000 [22] in presenza di proroghe ripetute ovvero di reiterate stipulazioni con il medesimo soggetto o con soggetti differenti.
Quest’osservazione, a parte lo sconcerto che sottende, è utile perché fonda una specifica linea interpretativa dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296, che esclude che si possa addivenire alla “stabilizzazione” dei rapporti di lavoro subordinato a termine costituiti in attuazione dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 [23].
La disposizione è ulteriormente, ma forse volutamente, ambigua in relazione alla collocazione temporale dei contratti a tempo determinato in predicato di “stabilizzazione”.
Il suo contenuto lessicale, infatti, è estremamente ampio. Posto che dell’utilità in esame può beneficiare il personale “in servizio a tempo determinato da almeno tre anni, anche non continuativi”, e che l’ente locale può procedervi “a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge”, ossia dall’1/1/2007, ne segue che sono oggetto di possibile “stabilizzazione” tutti i rapporti a termine in corso dopo tale data, a partire dal momento in cui si è concretizzato il prerequisito della loro durata triennale anche non continuativa. E ciò – si badi bene – anche sommandoli a periodi contrattuali iniziati e conclusi in tempi non particolarmente recenti [24].
Quanto appena evidenziato assume una particolare efficacia corroborante proprio quando il rapporto di lavoro a termine complessivamente inteso può essere disaggregato in una pluralità di contratti, magari intervallati l’uno rispetto all’altro, da brevi periodi di interruzione, e quindi conclusi sottacendo le reali ragioni che hanno condotto l’ente locale ad addivenirvi.
In conclusione, la norma de qua, conseguenza di una specifica scelta di campo del legislatore, è tutta proiettata nel futuro, dovendo l’interprete porsi il problema della durata triennale, anche non continuativa, del rapporto contrattuale a termine solo al momento in cui l’ente locale decide di addivenire alla sua “stabilizzazione[25], con tutte le conseguenze sull’individuazione dell’annualità della programmazione triennale del fabbisogno di personale nella quale prevedere l’effetto stabilizzante.
Il secondo, ossia la maturazione della durata triennale anche non continuativa in relazione a contratti a termine stipulati prima del 29/9/2006, è chiaramente riferito al momento dell’intervenuta approvazione del disegno di legge governativo della legge finanziaria da parte del Consiglio dei Ministri [26].
La funzione dell’individuazione di un termine “a data certa” è sempre esercizio di buona tecnica legislativa, anche se è di tutta evidenza che introduce elementi di apparente sperequazione soprattutto quando la mancata maturazione avviene per brevi lassi di tempo [27].
Per questa seconda ipotesi di “stabilizzazione” valgono le medesime considerazioni sviluppate in precedenza, con l’avvertenza che essa è ancora piú pro futuro, perché consente di recuperare rapporti lavorativi a termine, la cui attivazione è recente [28].
È di tutta evidenza che questa seconda opzione consente di pianificare dei veri e proprî percorsi di stabilizzazione di dipendenti assunti con contratti di lavoro subordinato a termine, fino a tutta la seconda metà del 2009. Tutto ciò desta particolari perplessità, perché impone di attualizzare al momento della redazione del programma del fabbisogno di personale che interessa il triennio 2007/2008/2009 le relative esigenze, dimostrando che tali nuove immissioni a tempo indeterminato sono effettivamente necessarie per garantire i valori di efficacia, efficienza ed economicità dell’azione amministrativa [29].
Il terzo, ossia che il personale a tempo determinato che vi è interessato sia stato in servizio per almeno tre anni, anche non continuativi, nel quinquennio anteriore all’1/1/2007, è l’unica per la quale può essere pensata ragionevolmente un’applicazione immediata.
In questo caso, infatti, il legislatore ha fatto riferimento a rapporti lavorativi a termine di durata certa, anche non continuativi, purché nell’ámbito di un quinquennio a ritroso a far data dall’1/1/2007.
Questa è l’unica ipotesi in cui il presupposto della “stabilizzazione” è costituito da rapporti lavorativi a termine conclusi, per la quale ha senso parlare di “attualità dell’esito stabilizzante”, sempre che, beninteso, di essa si faccia carico la programmazione triennale del fabbisogno di personale nella parte riferita all’esercizio 2007.
Questa terza opzione svela il modo in cui è stato possibile addivenire ad un rapporto di lavoro a termine della durata complessiva non inferiore al triennio. Se assume a riferimento l’unico dato normativo certo, ossia l’art. 7, comma 1 del c.c.n.l. 14/9/2000, l’arcano è presto svelato. Fatta eccezione per le fattispecie previste dall’art. 7, comma 1, lett. a) e b) del c.c.n.l. 14/9/2000, infatti, la durata del primo rapporto contrattuale a termine non può eccedere i dodici mesi. È evidente che in casi come questi il conseguimento dell’esito stabilizzante si è reso possibile solo prorogando i rapporti contrattuali fino al termine massimo dei tre anni previsti in via generale dall’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, ovvero stipulando con le medesime persone differenti contratti a termine per finalità differenti, sempre che ne ricorressero i presupposti.
L’analisi del secondo sottogruppo di prerequisiti, ossia delle modalità alla cui stregua perfezionare la “stabilizzazione”, richiede qualche approfondimento proprio in considerazione delle conseguenze che dalla formulazione dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 parrebbero desumibili, in relazione al rispetto dei valori costituzionali indicati dall’art. 97, comma 3 Cost..
La disposizione in esame, infatti, prevede espressamente che la “stabilizzazione” può interessare personale a tempo determinato “purché sia stato assunto mediante procedure selettive di natura concorsuale o previste da norme di legge. Alle iniziative di stabilizzazione del personale assunto a tempo determinato mediante procedure diverse si provvede previo espletamento di prove selettive”.
Cosí come formulata, la disposizione in esame esprime contenuti aberranti e, per giunta, in netto contrasto con l’art. 97, comma 3 Cost. [30].
Non deve essere dimenticato che il contratto di lavoro subordinato a termine è pur sempre una forma di accesso all’impiego, per il quale è prevista la modalità concorsuale, salvi i casi previsti dalla legge.
Ciò consente di concludere che la disposizione de qua è sicuramente costituzionalmente corretta solo in relazione alla sua prima parte, in quanto l’originario accesso all’impiego, sia pure a tempo determinato, è comunque avvenuto previo superamento di una prova selettiva e quindi latu senso concorsuale, salvi i casi in cui l’avviamento all’impiego è avvenuto prescindendone secondo specifiche previsioni di legge.
Le due ipotesi previste dalla prima parte della norma esauriscono le modalità di accesso all’impiego, in quanto il concorso nella sua forma tradizionale non è piú l’unica forma di reclutamento selettivo possibile.
Ciò può essere evidenziato osservando che il combinato disposto degli artt. 88, 92 e 110 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 e 35, 36 e 36 bis del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 non esclude la possibilità di procedere ad assunzioni a tempo determinato mediante altri strumenti, purché costituiscano meccanismi “oggettivi e trasparenti, idonei a verificare il possesso dei requisiti attitudinali e professionali richiesti in relazione alla posizione da ricoprire”.
Da ciò si desume che la previsione di modalità di stipulazione di contratti a termine che prescindono da selezioni concorsuali è assolutamente pletorica e ridondante, in quanto manca nell’ordinamento la possibilità di individuarne il presupposto a pena di incappare in insormontabili problemi di coerenza con i valori costituzionali previsti dal combinato disposto degli artt. 3, 51, 97 e 98 Cost..
La previsione sub iudice, inoltre, è contraddetta in termini categorici dalla contrattazione collettiva nazionale di comparto. Ciò si desume dal combinato disposto dei commi 1, 3 e 11 dell’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, il quale prevede la nullità del rapporto contrattuale quando esso sia stato stipulato al di fuori delle ipotesi elencate tassativamente dalla norma. Fra le ipotesi cui fa rinvio l’art. 7, comma 11 del c.c.n.l. 14/9/2000 è sicuramente compreso anche il mancato espletamento delle prove selettive che devono essere obbligatoriamente disciplinate nelle modalità di svolgimento ai sensi del precedente comma 3 [31].
Tali rapporti lavorativi a termine, a stretto rigore, non possono affatto essere “stabilizzati”, per l’ovvia ed assorbente ragione che i contratti che ne sono costitutivi sono nulli di diritto per violazione di norme imperative, di fonte sia legale sia negoziale, come previsto dal combinato disposto degli artt. 1343 e 1418, comma 1 c.c.. La prima norma, come noto, prevede che la contrarietà a norme imperative determina l’illicetà della causa del contratto, mentre la seconda áncora la sua nullità alla contrarietà del contratto a norme imperative [32].
In conclusione, la disciplina dei rapporti contrattuali a termine conclusi in violazione delle norme sulla concorsualità deve essere rinvenuta non in generici rimedî sananti quali la “stabilizzazione”, ma direttamente nell’art. 2126 c.c., che disciplina gli effetti dei rapporti lavorativi di fatto e nel generale obbligo di segnalazione alla competente  procura attiva presso la sezione regionale della Corte dei conti territorialmente competente per la valutazione della sussistenza di profili di responsabilità amministrativa per danno erariale.
 
 
4.      “Stabilizzazione”ed incarichi a supporto degli organi di governo
Resta da chiarire se nell’ámbito di applicazione dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 rientrino anche i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato per il reclutamento di personale dipendente esterno a supporto degli organi di governo.
La fattispecie è prevista e disciplinata dall’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, e prevede che “il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla Legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali […]” [33].
In questa ipotesi è indubbio che si sia in presenza di contratti di lavoro subordinato a termine, salvo verificare se ad essi si è addivenuti nel rispetto delle norme imperative in materia di accesso al pubblico impiego.
A questo proposito, infatti,  deve essere osservato che l’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 prevede la possibilità di stipulare contratti di lavoro subordinato a termine per fare fronte alle necessità degli organi di governo, ma nulla dice sulla procedura da seguire per addivenirvi. La norma pertanto, non solo non può costituire una deroga all’obbligo della concorsualità, ma ne afferma il principio, pena di configurare un rapporto lavorativo di fatto disciplinato quoad effectum dall’art. 2126 c.c. nei termini visti nel precedente paragrafo [34], perché stipulato in contrasto con norme imperative e quindi nullo ai sensi del combinato disposto degli artt. 1343 e 1418, comma 1 c.c..
Dubbio, per contro, è che tali forme di contratto siano o sarebbero comunque oggetto di possibile “stabilizzazione” a prescindere dalla sottolineatura da ultimo effettuata.
Nella materia in esame è facile contrapporre almeno due differenti orientamenti, l’uno favorevole, l’altro diametralmente opposto all’utile conseguimento dell’auspicato esito stabilizzante.
A favore della tesi orientata alla possibilità di esito stabilizzante concorrono almeno due argomenti [35].
In primo luogo, il legislatore non ha introdotto nella formulazione dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 elementi testuali che consentano di differenziare in alcun modo le tipologie possibili di contratti di lavoro subordinato a termine in funzione del loro contenuto [36].
In secondo luogo, quando il legislatore ha avvertito il bisogno di escludere gli incarichi di natura politica da forme di “stabilizzazione” ne ha lasciato traccia testuale. Ciò è avvenuto nel successivo comma 560, in materia di riserva non inferiore al 60% a favore delle co.co.co. in presenza della bandizione di contratti di lavoro subordinato a termine [37].
Da ciò si desume ex cathedra, a contrario ed a fortori a minori ad maius che è possibile la “stabilizzazione” di contratti di lavoro subordinato a termine stipulati ai sensi dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, purché in presenza di una delle ipotesi previste dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 [38].
A favore della tesi avversa all’esito stabilizzante [39] milita piú semplicemente, ma in modo decisamente piú pregnante, la ratio legis [40].
Il fine della “stabilizzazione” è quello di riportare nella dotazione organica dell’ente locale il personale stabilmente operante con contratti a termine, ossia – per usare un’immagine plastica di immediato contenuto rappresentativo – addivenire alla “stabilizzazione della flessibilità”, almeno in una delle sue forme possibili [41].
Sono chiaro indizio di ciò l’individuazione della tipologia contrattuale di lavoro flessibile e la durata del relativo rapporto, che non può essere inferiore a tre anni, sia pure nell’ultimo quinquennio.
È evidente, con queste premesse, che la ratio legis dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 è quella di conferire stabilità a rapporti lavorativi che si sono irragionevolmente protratti spesso ben oltre il termine triennale di riferimento previsto dall’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368 perché l’ente locale ha utilizzato il ricorso a forme di assunzione flessibile per sopperire ad esigenze organizzative stabili, durevoli e continuative in contrasto con il suo art. 1, comma 1.
A tutto ciò è estranea la motivazione che sorregge l’attivazione degli incarichi ex art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, i quali sono formalizzati per esigenze meramente contingenti, connesse ad uno specifico programma di governo, e che nessuna attinenza hanno con la dotazione organica dell’ente locale e con le funzioni che ad esso sono proprie.
A tali rapporti sono, inoltre, estranee le finalità di ordine “tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo” previste dall’art. 1, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, con la conseguenza che l’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 si configura quale lex specialis rispetto alla legge generale di cui il primo è materializzazione in subiecta materia.
Per tutti questi assorbenti motivi, la fattispecie delineata dall’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 è estranea alle finalità stabilizzanti previste dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 [42].
 
 
5.      La procedura di “stabilizzazione
La procedura da seguire per addivenire alla “stabilizzazione” dei rapporti lavorativi a termine deve tenere conto di un duplice ordine di fattori.
In primo luogo, l’individuazione dei percorsi da seguire in funzione di ciascuna delle tre ipotesi previste dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 [43].
In secondo luogo, l’inserimento delle suddette procedure negli usuali percorsi di definizione del fabbisogno triennale del personale e di rimodulazione della dotazione organica.
Proprio in relazione a tale ultima evenienza è bene anteporre alla trattazione dei percorsi da seguire per conseguire gli esiti stabilizzanti previsti dalla norma un breve riferimento alle nozioni di “programmazione triennale del fabbisogno di personale”, di “dotazione organica” e “contingente di personale”.
Con “dotazione organica”, si fa riferimento all’estensione quali-quantitativa del fabbisogno di personale che una pubblica amministrazione evidenzia in un determinato momento storico e del quale necessita per assicurare il conseguimento dei proprî fini istituzionali.
Alla “dotazione organica”, in tal modo, è propria una notazione non semplice, ma almeno duplice.
In primo luogo, una connotazione organizzativa.
Per consentire lo standard di ottimalità della propria azione, l’ente locale necessita di un determinato quantitativo di personale a tempo indeterminato, opportunamente suddiviso per categorie professionali. In assenza di una dotazione organica adeguata, infatti, esso non è in grado di organizzare efficacemente la propria azienda, talché non può disimpegnare l’esercizio efficace ed efficiente delle funzioni amministrative di spettanza, e quindi, in ultima analisi, lo specifico programma di governo.
L’organizzazione ed il suo assetto, infatti, sono serventi rispetto alla realizzazione del programma di governo [44], cosí come ad esso è la determinazione del fabbisogno triennale del personale.
In secondo luogo, una valenza autorizzatoria.
L’ente locale è autorizzato, e quindi legittimato, a procedere ad assunzioni fino a concorrenza del numero e per la tipologia dei profili contenuti nella propria dotazione organica, che, in questo modo, finisce con l’essere il titolo ed il limite all’incrementazione del proprio quantitativo di dipendenti assunti a tempo indeterminato, ossia del proprio contingente, nell’ámbito, beninteso, della programmazione triennale ed annuale del fabbisogno di personale.
La dotazione organica, pertanto, è intimamente ed inscindibilmente connessa con l’effettività dell’azione della pubblica amministrazione in termini di buon andamento, assicurando, almeno in potenza, l’attualità del valore costituzionale espresso dall’art. 97, comma 3 Cost..
Per contro, con il termine “contingente”, si intende il numero dei dipendenti effettivamente strutturati ed incardinati a tempo indeterminato nell’organizzazione della pubblica amministrazione in un dato momento storico.
Con queste premesse, il contingente del personale è il solo dato suscettibile di valutazione economica utile per quantificare l’effettiva incidenza dei costi del personale, divenendo il termine di raffronto per il giudizio di efficienza ed economicità dell’azione della pubblica amministrazione in concreto un dato momento storico.
La dotazione di personale è espressamente prevista dall’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, che la connette esplicitamente alla “verifica degli effettivi fabbisogni [di personale]”, prevedendo la relazione sindacale della mera consultazione delle organizzazioni sindacali [45] [46], e demandandone l’approvazione agli organi di governo [47].
La programmazione triennale del fabbisogno di personale ha stretta attinenza con il rapporto fra dotazione organica e contingente del personale, ed è espressamente menzionata dall’art. 35, comma 4 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e dall’art. 89, comma 5 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
Essa individua i termini nei quali viene incrementato il contingente di personale nell’unità di tempo triennale, nei limiti quali-quantitativi previsti dalla rispettiva dotazione organica.
L’effettuazione di qualunque assunzione all’impiego a tempo indeterminato, pertanto, presuppone l’avvenuto completamento della determinazione o della rideterminazione, alternativamente o cumulativamente, sia della dotazione organica, sia della programmazione triennale del fabbisogno di personale.
A tali nozioni, è pertanto, connaturato il concetto di programmazione, ossia l’acquisizione stabile della risorsa di personale nell’ámbito di un ben definito piano strategico.
Con queste premesse, è di tutta evidenza che il ricorso alla “stabilizzazione” del personale a tempo determinato non può, né deve trasformare l’ente locale in un “assumificio”, ma presuppone un’attenta analisi di Business Process Reengineering [B.P.R.], che verifichi i margini di miglioramento dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità dell’organizzazione e dei relativi processi organizzativo-applicativi dell’ente locale, nella prospettiva non già di assumere a qualunque costo il personale flessibile, ma di affrancarsi definitivamente dal ricorso alla flessibilità [48], soprattutto quando diviene evidente che il ricorso ai rapporti lavorativi flessibili è sovente attuato in modo scorretto ed aziendalmente fuorviante [49].
Quanto appena evidenziato ha uno specifico e puntuale riferimento nell’art. 1, comma 557 della Legge 27/12/2006 n. 296, il quale prevede che “gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, anche attraverso la razionalizzazione delle strutture burocratico-amministrative”.
Con queste premesse è ora possibile individuare i percorsi che l’ente locale deve seguire per addivenire alla “stabilizzazione” dei rapporti lavorativi a termine come previsto dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296.
In primo luogo, deve essere attentamente soppesata ed analizzata l’effettiva esigenza di personale in relazione all’ottimale svolgimento delle funzioni amministrative dell’ente nel momento storico in cui vi procede. Tale analisi, che non esclude, ma anzi include il monitoraggio e la verifica dei processi gestionali ed organizzativi dell’ente, deve essere compiuta per l’arco di un periodo di tre anni [50].
In secondo luogo, deve essere formalizzata la programmazione triennale del fabbisogno di personale e, conseguentemente, deve essere ridefinita la dotazione organica attivando le relazioni sindacali previste dall’art. 6, comma 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
In questo momento devono essere attentamente definite le modalità di ingresso a tempo indeterminato. Ciò significa che l’organo di governo, cui è demandata l’approvazione degli atti de quibus, deve prevedere per ciascuno dei tre anni in cui l’analisi del fabbisogno si articola, il numero delle assunzioni a tempo indeterminato da attuare e le modalità di assunzione all’impiego, e quindi le tipologie di pubblici concorsi, le eventuali riserve alle progressioni verticali [51] ed il ricorso alle “stabilizzazioni” dei rapporti lavorativi a termine.
In terzo luogo, il percorso stabilizzante deve essere posto in relazione con ciascuna delle tre ipotesi previste dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296, allo scopo di individuare in quale anno effettuare la “stabilizzazione”, in funzione della realizzazione del presupposto della maturazione del triennio di durata del contratto a termine.
In quarto luogo, deve essere adottato lo specifico atto datoriale costitutivo degli effetti stabilizzanti da parte del dirigente competente in relazione all’organizzazione propria e tipica di ciascun ente locale che intende procedervi.
La “stabilizzazione”, infatti, è un atto con il quale viene gestito il rapporto di lavoro a temine del dipendente che vi è interessato, per la quale opera la specifica competenza dirigenziale ai sensi del combinato disposto degli artt. 5, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 e 89, comma 6 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
Ultimo, ma non meno importante, è evidenziare che in forza dell’art. 6, comma 8 sexies del D.L. 28/12/2006 n. 300, convertito con modificazioni nella Legge 26/2/2007 n. 17 è venuto meno il divieto di assunzione per gli enti locali che, essendovi tenuti, non hanno rispettato il patto di stabilità nell’esercizio 2006. Da ciò segue che anche essi possono procedere alla “stabilizazione” di personale a tempo determinato, in applicazione dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296.
Quest’ultima, infatti, è una specifica forma di accesso all’impiego ed ha natura giuridica di una vera e propria assunzione, per la quale operavano in via generale le preclusioni previste dall’art. 1, comma 561 della Legge 27/12/2006 n. 296, attualmente rimosse dalla normativa ultima sopravvenuta.
Diverso è il caso degli enti locali che nel 2006 non fossero assoggettati al rispetto del patto di stabilità, ossia i comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti, le comunità montane e le unioni di comuni [52].
Per questi enti vale il disposto dell’art. 1, comma 562 della Legge 27/12/2006 n. 296, con la conseguenza che esse rientrano nel computo dei tetti di spesa [53].
Essi, pertanto, possono procedere all’assunzione di personale nel limite delle cessazioni di rapporti di lavoro a tempo indeterminato complessivamente intervenute nel precedente anno, ivi compreso il personale interessato alla “stabilizzazione” del rapporto di lavoro a termine secondo le previsioni del precedente comma 558. Ciò nel rispetto del limite ineludibile del tetto di spesa dell’esercizio 2004 per le spese di personale in generale “al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell’IRAP, con esclusione degli oneri relativi ai rinnovi contrattuali”.
Il limite in argomento opera non “per teste”, ma in relazione alla spesa, come i desume con chiarezza dalla lettera della disposizione e dalla ratio legis ad essa sottesa.
 
 
6.      I casi dubbî
La disposizione normativa in esame non chiarisce né se sia possibile procedere alla “stabilizzazione” nel caso in cui il triennio di durata dei contratti a termine sia stato maturato in enti locali differenti, né come debba essere computato l’eventuale rapporto lavorativo a termine svolto part-time, né come possa operare la “stabilizzazione” nel caso in cui i rapporti lavorativi a termine abbiano interessato categorie e/o profili professionali differenti [54].
In relazione alla prima ipotesi, la disposizione fa esplicito riferimento alla possibilità di realizzare l’effetto stabilizzante da parte degli enti di cui al precedente comma 557, senza specificare in alcun modo se sia positivamente apprezzabile una pluralità di periodi maturati in enti differenti.
La norma, a ben vedere, evoca una trasformazione di un rapporto lavorativo a termine ontologicamente unitario, il quale presuppone la continuità dei soggetti che lo costituiscono e la permanenza nel tempo delle medesime prestazioni dedotte in obbligazione.
Ciò consente di concludere che la “stabilizzazione” del rapporto a termine è possibile solo quando esso conserva i medesimi soggetti fra i quali è stato originariamente costituito, sempre che l’oggetto del contratto sia rimasto immodificato nel periodo minimo previsto dalla norma [55].
Il riferimento d’obbligo è costituito dall’identità delle prestazioni dedotte in obbligazione nell’accezione fornita dall’art. 3, comma 2 del c.c.n.l. 31/3/1999 in materia di determinazione dell’oggetto del contratto di lavoro in relazione al grado della loro esigibilità.
In relazione alla seconda ipotesi, la disposizione nulla dice sulla rilevanza  quantitativa del lavoro a termine svolto a tempo parziale, sia quando il rapporto +lavorativo si è protratto omogeneamente nel triennio, sia quando esso ha intervallato periodi di lavoro a tempo pieno a periodi di lavoro part-time [56].
Nessun particolare problema si pone in presenza di un rapporto lavorativo a termine complessivamente protrattosi nel tempo oltre il triennio quando esso si è sviluppato omogeneamente a tempo parziale. In questo caso, è evidente che l’effetto stabilizzante previsto dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 ha ad oggetto un rapporto lavorativo a tempo indeterminato a tempo parziale nel rispetto di quanto previsto dagli artt. 4, 5 e 6 del c.c.n.l. 14/9/2000.
Maggiormente complesso è il caso in cui nel triennio si susseguono periodi contrattuali a tempo pieno ed a tempo parziale. In quest’ipotesi, mancando uno specifico criterio legislativo cui ancorare la soluzione, non resta che fare riferimento al principio di cautela. Esso conduce alla possibilità di “stabilizzare” il rapporto a tempo determinato in un contratto a tempo indeterminato a tempo parziale, salvo demandare, in un secondo momento, all’autonomia valutazione dell’ente locale la sua ulteriore ed eventuale trasformazione in un contratto a tempo pieno.
In relazione alla terza ipotesi, non è affatto chiaro se la “stabilizzazione” possa interessare rapporti complessivamente ultra triennali con soggetti che hanno operato con contratti a termine in categorie professionali differenti, ovvero, all’interno della medesima categoria professionale, con profili eterogenei.
Alla questione deve essere fornita risposta negativa.
Come è stato precedentemente evidenziato, la norma ha ad oggetto la trasformazione di un rapporto lavorativo a termine ontologicamente unitario, il quale presuppone la continuità non solo dei soggetti che lo costituiscono, ma anche la permanenza nel tempo delle medesime prestazioni dedotte in obbligazione, le quali devono essere corroborate da un nesso di identità nell’accezione fornita dall’art. 3, comma 2 del c.c.n.l. 31/3/1999 in relazione al grado della loro esigibilità perché sostanzialmente equivalenti.
L’esclusione degli effetti stabilizzanti interessa in primo luogo il rapporti a termine in cui all’identità della categoria professionale di inquadramento non si cumula anche l’identità del profilo. In questo primo caso, si è in presenza di differenti prestazioni lavorative esigibili, e quindi di un rapporto lavorativo non sostanzialmente unitario nei termini richiesti.
L’esclusione degli effetti stabilizzanti opera a fortori nel caso in cui si sia in presenza di contratti a termine che cumulativamente eccedono il triennio, ma che hanno ad oggetto un differente contenuto prestazionale dovuto alla mancanza di coincidenza delle relative categorie di inquadramento secondo le indicazioni fornite dall’art. 3, comma 1 del c.c.n.l. 31/3/1999.
Non chiaro, infine, è il rapporto che si configura fra la “stabilizzazione” dei contratti a termine e la possibilità di attuare progressioni verticali nel medesimo ente locale.
Il problema può essere risolto osservando che la “stabilizzazione” dei contratti a termine è una specifica forma di accesso all’impiego dall’esterno, sia pure fondata su una norma speciale, che la fattispecie della progressione verticale costituisce ad una deroga all’accesso dall’esterno nei termini enucleati dalla giurisprudenza ormai definitivamente consolidata e che sia le prime, sia le seconde devono essere espressamente previste nella programmazione triennale del fabbisogno di personale.
Ciò consente di concludere che se non sussiste incompatibilità fra le due fattispecie ogni qualvolta, a parità di categoria professionale e di profilo, il numero delle progressioni verticali è pari al 50% delle assunzioni a tempo indeterminato, comprendendo nel relativo computo numerico anche le “stabilizzazioni” dei contratti a termine, avendo cura – beninteso – di commisurare il rapporto fra le due nell’ámbito del medesimo esercizio finanziario.
 
 
 
Riccardo Nobile
Segretario Generale e Direttore Generale di Enti locali. Esperto di Diritto del Lavoro. Docente in corsi di formazione professionale ed Autore di libri e pubblicazioni in materia di pubblico impiego. Membro di nuclei di valutazione.
 
 


[1] Wittgenstein (L.), Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 1961, 82. Osservo, in modo del tutto incidentale, che l’autore citato è particolarmente severo nei confronti del linguaggio poco chiaro, mostrando che, quasi sempre, i piú complessi problemi filosofici che da tempo immemore attanagliano l’uomo sono relegati nell’ámbito del puro non sense. Certo la legge finanziaria per l’esercizio 2007 è ben lungi dal condividere la profondità che connota il pensiero filosofico. Ciò, tuttavia, deve fare attentamente riflettere sulla profondità dell’ingegno dei suoi estensori.
[2] È evidente che una tale impostazione confligge insanabilmente con il valore “metastorico” che ha ispirato il legislatore nel prevedere la “stabilizzazione” dei contratti a termine. Essa, infatti, áncora tale disciplina ad una specifica opzione politica, che nulla ha a che fare con la ragionevolezza delle scelte del momento, in funzione del contenuto dei programmi di governo delle singole amministrazioni locali. L’osservazione è corroborata dalla constatazione che la “stabilizzazione” dei contratti a termine è strettamente connessa con la programmazione triennale del fabbisogno del personale, che presuppone scelte di medio periodo particolarmente ponderate.
A ciò si aggiunge che l’assenza di orizzonti temporali di lungo periodo tipica della brevità del mandato elettorale rivela l’estrema difficoltà di incidere in modo efficace sullo stato di salute delle pubbliche amministrazioni in generale e degli enti locali in particolare. La previsione della “stabilizzazione” dei contratti a termine affianca a tutto ciò un ulteriore elemento di complicazione.
Tutto ciò, ovviamente, non accade nelle imprese, nelle quali – salvi i casi in cui la vita complessiva dell’impresa è particolarmente breve – l’imprenditore ha normalmente a propria disposizione ampî periodi di tempo nei quali presidiare i processi di innovazione introdotti nella propria organizzazione, producendo cultura organizzativa ed oggettività di processo.
[3] L’organizzazione dell’ente locale non può essere considerata come un dato indefettibile e dato a priori rispetto ai programmi di governo. Essa, piuttosto, deve assumere la funzione di un assetto meramente contingente ed a “geometria variabile” in funzione della vision degli organi di governo e del loro programma. Che questa sia la tesi corretta si desume dal combinato disposto degli artt. 2, comma 1, 5, comma 1 e 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165.
[4] Il nesso di strumentalità dell’azienda rispetto all’impresa è un’ovvietà, peraltro mai messa in discussione dalla dottrina gius-commercialista. A questo proposito, è corroborante il contenuto delle definizioni che delle fattispecie forniscono, rispettivamente, gli artt. 2555 e 2082 c.c.. Per la prima, “l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa”, mentre per la seconda, “è imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”. È evidente che all’azienda è connaturato il requisito dell’organizzazione, nella quale confluiscono sia beni, sia rapporti contrattuali, sia ogni evenienza suscettibile di valutazione economica, funzionalmente connessi alla realizzazione dell’oggetto dell’attività di impresa. Del resto, l’ètimo è di particolare aiuto. “Organizzazione” ha la propria derivazione in órganon, a sua volta intimamente connesso con érgon. L’organizzazione, dunque, altro non è che uno strumento che, attraverso il dispiegarsi del lavoro, consente di giungere ad un fine. All’organizzazione è pertanto proprio un nesso di mezzo a fine, e non già una qualificazione in sé.
Queste notazioni, che dovrebbero essere ovvie, paiono estranee alla vita delle pubbliche amministrazioni. Tutto ciò ha immediate conseguenze sull’efficienza e sull’economicità della loro attività, in aperto contrasto con il dato normativo che da piú parti si rinviene (art. 1 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165, art. 1 della legge 6/8/1990 n. 241, art. 147, comma 1, lett. b) del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267). Simplex est sigillum veri, ci ha insegnato Agostino di Ippona: le verità negate devono sempre essere guardate con estremo sospetto.
[5] Nel corso del presente lavoro, si trascura volutamente l’ipotesi prevista dall’art. 1, comma 1156, lett. f) della legge 27/12/2006 n. 296, cui rimanda il comma 558.
[6] Come sarà evidenziato nel prosieguo, la seconda ipotesi è destinata a rimanere allo stato larvale, giacché nell’ordinamento non è prevista la possibilità di assunzioni a tempo determinato se non previa selezione, da attuare con mezzi oggettivi e procedure trasparenti.
[7] Sul principio dell’indefettibilità del pubblico concorso quale forma di accesso al pubblico impiego si è formata una giurisprudenza assolutamente granitica e monolitica della Corte Costituzionale. Per tutte, a partire dagli anni ’90, si vedano: Corte Cost. 21/1/1999 n. 1, in www.lexitalia.it, 1999, Corte Cost. 22/4/1999 n. 141, in www.lexitalia.it, 1999, Corte Cost. 16/5/2002 n. 194, in www.lexitalia.it, 2002, Corte Cost. 29/5/2002 n. 218, in www.lexitalia.it, 2002, Corte Cost. 23/7/2002 n. 373, in www.lexitalia.it, 2002, Corte Cost. 27/3/2003 n. 89, in www.lexitalia.it, 2003, Corte Cost. 24/7/2003 n. 274, in www.lexitalia.it. 2003, Corte Cost. 26/1/2004 n. 34, in www.lexitalia.it, 2004, Corte Cost. 3/3/2006 n. 81, in www.lexitalia.it, 2006.
[8] Tale vicenda è stata considerata costituzionalmente legittima da Corte Cost. 27/3/2003 n. 89, in www.lexitalia.it, 2003, per la quale sia consentito rinviare a Nobile (R.), Il contratto di lavoro a tempo determinato negli enti locali in relazione al divieto di conversione a tempo indeterminato dopo la sentenza della Corte Costituzionale 13 marzo 2003 n. 89, in www.lexitalia.it, 2003.
[9] Su punto, sia consentito rinviare a Nobile (R.), Dalla fornitura di lavoro temporaneo alla somministrazione di lavoro a tempo determinato. Un’applicazione agli enti locali territoriali del principio di flessibilità del rapporto di lavoro dopo il D.Lgs. 10/9/2003 n. 276, in www.lexitalia.it, 2004.
[10] Sulla vicenda è intervenuta la Corte di giustizia CE, sez. II, con sentenza 7/9/2006 lla luce delle considerazioni che precedono, si deve risolvere la questione sollevata dichiarando che l’accordo quadro deve essere interpretato nel senso che esso non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o in rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico”. Identica nel contenuto è la sentenza in pari data emessa nel corso del procedimento di infrazione C180-04. Le sentenze citate sono riprodotte in www.iuritalia.it, ed ivi disponibili per la loro consultazione.nel corso del procedimento di infrazione C53-04, secondo la quale “a
[11] Il divieto è riaffermato dall’art. 7, comma 13 del c.c.n.l. 14/9/2000.
[12] Ubi ius, ibi actio: poiché che l’azione processuale è la proiezione formale in termini astratti della pretesa sostanziale asserita come propria e vantata come tale dall’attore nel processo, è di tutta evidenza che l’assenza del diritto alla trasformazione del rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato non genera alcuna azione volta ad altrimenti costituire il rapporto a tempo indeterminato. La conseguenza di ciò è che il lavoratore non è titolare né dell’interesse al ricorso, né della legittimatio ad causam: ubi nullus ius, ibi nulla actio, per l’appunto. Su tutto ciò, Mandrioli (C.), Diritto processuale civile I, Giappichelli, Torino, 2002, 48 e ss.. L’autore evidenzia che l’azione è strettamente connessa alla pretesa sostanziale, ma ciò non vale ad andare oltre l’assunto che essa si connette a quest’ultima solo in termini astratti, configurandosi quale diritto alla pronuncia sul merito, sempre che siano state soddisfatte le relative condizioni, ossia l’interesse al ricorso e la legittimatio ad causam.
[13] Giova rammentare che sono lavoratori subordinati solo quei lavoratori, a tempo indeterminato ed a tempo determinato, il cui rapporto lavorativo è riconducibile al combinato disposto degli artt. 2086, 2094 e 2104 c.c.. Tali non sono né i collaboratori saltuarî ed occasionali, né i collaboratori coordinati e continuativi, i quali sono lavoratori autonomi nell’accezione fornita dagli artt. 2222, 2228 e 2230 c.c.. Il riferimento, neppur tanto velato, è agli specifici rapporti di collaborazione saltuaria ed occasionale ed alle collaborazioni coordinate e continuative, denominate con curioso acronimo di derivazione avicola “co.co.co.”, previsti dall’art. 409, comma 1, num. 3 c.p.c., evocati dall’art. 1, comma 2 del D.Lgs. 10/9/2003 n. 276 in relazione ai suoi artt. da 61 a 69 e, da ultimo, dall’art. 7, comma 6 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 nel testo modificato dall’art. 32, comma 1 del D.L. 4/7/2006 n. 223 convertito con modificazioni nella Legge 4/8/2006 n. 248. Essi sono stati fatti oggetto di chiarificazione dalle circolari della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Funzione pubblica 4/7/2004 n. 4, intitolata “collaborazioni coordinate e continuative. Presupposti e limiti alla stipula dei contratti. Regime fiscale e previdenziale. Autonomia contrattuale   e 21/12/2006 n. 5, che contiene le “linee di indirizzo in materia di incarichi esterni e di collaborazioni coordinate e continuative”.
Ciò è vero al punto che la cosiddetta “stabilizzazione delle co.co.co.”, si è risolta nella pura e semplice previsione di una riserva del 60% a loro favore nel caso in cui l’ente locale intenda procedere ad assunzioni a tempo determinato, come previsto dall’art. 1, comma 560 della Legge 27/12/2006 n. 296. Ciò, beninteso, nel rispetto dei titoli specifici previsti per i posti da ricoprire! Come stabilizzazione non v’è che dire, dal momento che da una forma di precariato si passa ad un’ulteriore forma di instabilità lavorativa. Ma forse il disegno del legislatore non è cosí imperscrutabile. Il lavoratore autonomo co.co.co. può divenire lavoratore subordinato a tempo determinato, sempre che superi la prova selettiva per la quale gode di una riserva del 60%, salvo poi essere oggetto di “stabilizzazione” secondo le previsioni della prima ipotesi dell’art. 1, comma 558 della legge. Davvero una bella corsa ad ostacoli, non c’è che dire.
[14] Il personale dirigenziale, cui fa riferimento in modo indistinto l’art. 19 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165 in relazione ai cómpiti ed alle funzioni, è regolato, per il comparto contrattuale degli enti locali, dal c.c.n.l. 10/4/1996, dal c.c.n.l. 27/2/1997, dal c.c.n.l. 23/12/1999, dal c.c.n.l. 12/2/2002, dal c.c.n.l. 7/5/2002 e dal c.c.n.l. 22/4/2006.
[15] La presenza di tre ipotesi alternative fra di loro determina súbito il problema della configurabilità di un ordine prioritario fra di esse. La questione non è di poco conto, né dal punto di vista concettuale, né in relazione al grado di vincolo all’azione dell’ente locale “stabilizzatore”. Segnalo il problema, soprattutto in relazione ai rischî di applicazioni compiacenti. Il tema è caro alla coscienza sociale mediamente strutturata; peccato che ciò sfugga – come pare sia sfuggito – al legislatore. A questo proposito osservo che se lo stupore e la meraviglia sono una delle ragioni del progresso della scoperta scientifica (Popper, La logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 1964), essi non possono lasciare il passo allo sconcerto, giacché esso non è fondamento di niente. Sul punto, Kuhn (T.S.), La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino, 1969, pag. 57 e 90.
[16] Il concetto di ragionevolezza è differente da quello di razionalità. La distinzione, nota già al pensiero classico greco, può essere conveniente riportata alla contrapposizione fra rational e reasonable. La prima nozione ha a che fare con la correttezza formale del ragionamento, con l’efficacia dei mezzi per raggiungere un fine e con la conferma ed il controllo delle opinioni. La seconda verte sulla qualificazione del comportamento, e su ciò che si ritiene buono o cattivo per l’uomo. Su tutto ciò, von Wright (G.H.), Immagini della scienza e forme di razionalità, Editori Riuniti, Roma, 1987, 27. In questo senso, è evidente che ciò che è razionale non sempre è ragionevole, mentre ciò che è ragionevole è sempre razionale. Ma è altrettanto evidente che l’uso qui fatto di “razionale” è del tutto differente da quello che caratterizza il lavoro di Oliveri, La previsione dell’anzianità di servizio triennale, ai fini della stabilizzazione dei precari della P.A., in www.lexitalia.it, 2007. Su tutto ciò, infra, nota 19.
[17] Il testo della disposizione normativa è il seguente: “il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In questi casi la proroga è ammessa una sola volta e a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato. Con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore ai tre anni”.
[18] L’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000 disciplina le ipotesi nelle quali è possibile addivenire alla stipulazione di contratti a termine per gli enti locali territoriali. Le relative fattispecie prevedono termini di durata contenuti in periodi ampiamente ricompresi entro il termine generale di tre anni previsto dal D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, fatto salvo il caso previsto dalla lett. a) del suo comma 1.
[19] In questo senso, a parte talune considerazioni condivisibili, non ritengo affatto pertinente l’osservazione di Oliveri (L.), La previsione dell’anzianità di servizio triennale, ai fini della stabilizzazione dei precari della P.A., in www.lexitalia.it, 2007, la quale, per la verità, mi sembra del tutto inutile e persino dannosa, soprattutto non tanto per quello che dice, ma per quello che pare evocare, ossia la possibilità di rinvenire principî di razionalità a fondamento della “stabilizzazione”.
[20] Nei rapporti lavorativi iure privatorum il lavoratore a tempo determinato ha azione giurisdizionale per ottenere comunque la conversione del proprio contratto in un contratto a tempo indeterminato. L’azione ha contenuto costitutivo, cosí come la pronuncia del giudice in forza del principio di necessaria corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato secondo quanto previsto dall’art. 112 c.p.c..
[21] Piú in particolare, la proroga ed il rinnovo dei contratti a termine sono disciplinati dall’art. 7, comma 12 del c.c.n.l. 14/9/2000, il quale rinvia all’art. 2, comma 2 della legge 18/4/1962 n. 230 cosí come modificato dall’art. 12 della legge 24/6/1997 n. 196. Esse sono state espressamente abrogate dall’art. 11, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368, con la conseguenza che la disciplina delle proroghe dei contratti a termine è contenuta solo e soltanto nell’art. 4, comma 1 del D.Lgs. 6/9/2001 n. 368.
Non potendo prorogare i contratti che una sola volta, gli enti locali sono soliti interrompere il rapporto lavorativo per un certo numero di giorni, salvo poi riprenderlo attingendo dalle graduatorie in atti. Quando le graduatorie comprendono pochi nominativi, si instaura una rotazione di fatto dei soggetti con cui l’ente locale conclude contratti a termine. È evidente che consentire la “stabilizzazione” di consimili rapporti lavorativi si commenta da sé.
[22] L’art. 7 del c.c.n.l. 14/9/2000, come noto, contiene la disciplina contrattuale del contratto di lavoro subordinato a termine alle dipendenze degli enti locali, prevedendo le relative fattispecie e differentemente modulando la conseguenziale sua durata caso per caso con principio di tassatività.
[23] Il testo dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267, rubricato “Uffici di supporto agli organi di direzione politica” prevede che “Il regolamento sull’ordinamento degli uffici e dei servizi può prevedere la costituzione di uffici posti alle dirette dipendenze del sindaco, del presidente della provincia, della giunta o degli assessori, per l’esercizio delle funzioni di indirizzo e di controllo loro attribuite dalla legge, costituiti da dipendenti dell’ente, ovvero, salvo che per gli enti dissestati o strutturalmente deficitari, da collaboratori assunti con contratto a tempo determinato, i quali, se dipendenti da una pubblica amministrazione, sono collocati in aspettativa senza assegni. Al personale assunto con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato si applica il contratto collettivo nazionale di lavoro del personale degli enti locali. Con provvedimento motivato della giunta, al personale di cui al comma 2 il trattamento economico accessorio previsto dai contratti collettivi può essere sostituito da un unico emolumento comprensivo dei compensi per il lavoro straordinario, per la produttività collettiva e per la qualità della prestazione individuale”.
[24] La disposizione normativa è davvero un bell’esempio di ambiguità. L’insondabile saggezza degli organi di governo dell’ente locale può pensare di ricorrere a questa fattispecie sommando periodi di tempo che si perdono nella notte dei tempi e, qualora non sufficienti per giungere ai tre anni, stipulare un contratto a termine ad hoc per realizzare il presupposto legislativo. C.f.r., nota 21.
[25] A questo punto, è evidente che la norma si presta ad attivazioni ed utilizzazioni ad personam”.
[26] Questo modo di procedere è già stato sperimentato in relazione al blocco degli incrementi delle addizionali I.R.Pe.F. attuato con la legge finanziaria per l’esercizio 2003.
[27] In questo senso, e solo in questo senso, non sono condivisibili le lamentazioni di Oliveri, Stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego e problemi di costituzionalità, in www.lexitalia.it, 2007, ed i toni utilizzati per darvi corpo. È evidente che è insita nell’apposizione di termini il fatto che le situazioni di vantaggio che una determinata evenienza concretizza possano vanificarsi. Su tale generiche evidenziazioni, tuttavia, prevale e deve prevalere il principio della certezza dei rapporti giuridici, che deriva al nostro ordinamento per tradizione romanistica.
[28] Le prime due ipotesi delineate dall’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 rendono evidente la carenza dell’attualità della”stabilizzazione” tanto strombazzata. La verità è che gli auspicati effetti stabilizzanti potranno realizzarsi solo in esercizî finanziarî successivi al 2007, con buona pace del convincimento indotto in vere e proprie pletore di lavoratori precarî alle dipendenze degli enti locali.
[29] Una tale evenienza renderebbe fortemente sospette le proroghe dei rapporti a tempo determinato che devono essere necessariamente disposte, e a maggior ragione, le riassunzioni dei medesimi soggetti a differente titolo.
[30] Questa è la precisazione evocata nel precedente paragrafo, relativa al raffronto del contenuto dell’art. 1, comma 558 della legge 27/12/2006 n. 296 con i valori costituzionali.
[31] L’art. 7, comma 11 del c.c.n.l. 14/9/2000 prevede la nullità del rapporto contrattuale e la conseguenziale applicazione dell’art. 2126 c.c. quando il contratto “sia stipulato al di fuori delle ipotesi previste nei commi precedenti”. Che il mancato rispetto del criterio della selettività conduca alla nullità del contratto a termine è di tutta evidenza: la norma che esperisce il rinvio, infatti, investe dei proprî effetti non solo il comma 1, e quindi la norma che individua la casistica, ma anche tutte le disposizioni che precedono il suddetto comma 11, ossia anche il comma 3, il quale, per l’appunto, prevede che gli enti locali normino nel proprio regolamento per la disciplina degli ufficî e dei servizî le modalità di svolgimento delle prove selettive di accesso a tempo determinato.
[32] Su tutto ciò, Bianca (C.M.), Diritto civile. Il contratto 3, Giuffrè, Milano, 1984, 582 e ss.
[33] La norma viene utilizzata nella prassi con particolare disinvoltura, perché ritenuta strettamente ancorata all’intuitus personae. Sulla base di tale premessa, si giunge a ritenere che i vertici degli organi di governo possano stipulare contratti a tempo determinato al di fuori di qualunque previa selezione, senza onere di motivazione e senza previa pubblicizzazione dell’intenzione di addivenirvi. È evidente che un tale modo di procedere non ha alcun fondamento nel diritto positivo, e costituisce un malaccorto tentativo di trasformare lo spoil system in un fatto assolutamente personale, per non dire personalistico. A ciò, qualche mente illuminata cerca di sopperire attivando fantasiose procedure pseudoconcorsuali condotte tramite richiesta di curricula. La pretesa di obiettività è, anche in questo caso, di pura fantasia, poiché non esiste nel nostro ordinamento alcun obbligo di “previa certificazione del curriculum”. Se a ciò si aggiunge che la scelta o non viene motivata, o che la motivazione è di puro stile, è di tutta evidenza che la scelta del soggetto in questione è del tutto arbitraria e non rispetta affatto la logica della selettività e quindi il principio della concorsualità previsto dall’art. 97, comma 3 Cost.. Per convincersi di ciò, basta osservare ed indagare quel che accade nella scelta del segretario comunale e provinciale da parte del sindaco e del presidente della provincia a séguito della legge 15/3/1997 n. 127.
[34] La non necessità della previa selezione per l’accesso all’impiego non può essere argomentata a contrario dall’art. 7, comma 3 del c.c.n.l. 14/9/2000, il quale la esplicita per le ipotesi previste dal suo precedente comma 1. La norma contrattuale, infatti, è espressione del generale principio della concorsualità, sia pure intesa quale sinonimo di “selettività”, previsto direttamente dall’art. 97, comma 3 Cost.. Né si può ragionevolmente argomentare che l’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 è uno dei casi previsti dalla legge fatti salvi dalla stessa norma costituzionale. La deroga, per essere conforme al canone della ragionevolezza previsto dall’art. 3 Cost., deve essere espressamente prevista da una norma di fonte legale, evenienza della quale non trova traccia nel testo dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267.
L’assenza di una espressa previsione legislativa in tal senso è la precondizione per il suo assoggettamento a giudizio di costituzionalità. Già solo questa notazione è e deve essere sufficiente per cassare completamente la tesi della “deroga implicita” all’obbligo della concorsualità che taluno pretende di accreditare in nome della necessaria fiduciarietà degli incarichi de quibus.
[35] È favorevole alla stabilizzazione dei contratti a termine stipulati ai sensi dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 Bianco (A.), Finanziaria: le novità del personale della P.A., in Guida al pubblico Impiego – il Sole 24Ore, 2007, I, 19.
[36] Ubi lex voluit, dixit; ubi noluit, tacuit, è la forma tipica con cui si esprime l’argomento a contrario. In un’accezione meno marcatamente volontaristica, esso è bene espresso dal brocardo ubi lex non distinguit, nec nos distinguere debemus, ed in questo senso, ben si combina con l’argomento retorico del ricorso alla volontà del legislatore concreto. Su tutto ciò, Tarello, L’interpretazione della legge, in Cicu e Messineo (ed.), Trattato di diritto civile e commerciale, Giuffrè, Milano, 1980, 346.
[37] Il testo dell’art. 1, comma 560 della legge 27/12/2006 n. 296 prevede che “per il triennio 2007-2009 le amministrazioni di cui al comma 557, che procedono all’assunzione di personale a tempo determinato, nei limiti e alle condizioni previste dal comma 1-bis dell’articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel bandire le relative prove selettive riservano una quota non inferiore al 60 per cento del totale dei posti programmati ai soggetti con i quali hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e continuativa, esclusi gli incarichi di nomina politica, per la durata complessiva di almeno un anno raggiunta alla data del 29 settembre 2006”.
[38] Ovviamente la stabilizzazione sarebbe possibile solo in presenza di un rapporto lavorativo validamente costituito, il che si verifica solamente se esso è stato stipulato nel rispetto del principio dell’eccesso concorsuale.
[39] È contrario alla tesi della stabilizzabilità Oliveri, Stabilizzazione dei precari nel pubblico impiego e problemi di costituzionalità, in www.lexitaalia.it, 2007.
[40] Tarello, op. cit, pag. 370. È evidente che l’argomento fondato sulla ragione del legislatore fa riferimento ad “una classificazione di fini o di interessi che il diritto protegge”, ed ha riguardo all’ordinamento nel suo complesso. In questo senso, l’argomento de quo è più pregnante dell’argomento a contrario, talché lo supera per forza persuasiva e quindi per gli effetti che produce sull’interpretazione nel suo complesso.
[41] L’ente locale ha a disposizione una pluralità di strumenti per attuare momenti di flessibilità lavorativa nella propria organizzazione. Per convincersi di ciò, basta fare riferimento ai primi otto articoli del c.c.n.l. 14/9/2000, opportunamente reinterpretati mediante il testo del D.Lgs. 18/8/2000 n. 276.
[42] La possibilità di stabilizzare il personale a tempo determinato assunto ai sensi dell’art. 90 del D.Lgs. 18/8/2000 n. 267 introdurrebbe nell’ordinamento un’insanabile contraddizione. A questo punto deve essere segnalato che un sistema che pretende di essere completo e consistente diviene indecidibile se al suo interno è presente una contraddizione. Su tutto ciò, Popper (K.R.), Che cos’è la dialettica?, in Popper (K.R.) (ed.), Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1972, 539, “si può dimostrare facilmente, infatti, che chi accettasse le contraddizioni dovrebbe abbandonare ogni specie di attività scientifica: ne seguirebbe così un radicale insuccesso della scienza. Lo si può dimostrare provando che, se si ammettono due asserzioni, contraddittorie, si deve ammettere qualsiasi asserzione; infatti, da una coppia di asserzioni contraddittorie è possibile inferire validamente qualsiasi asserzione”. Insomma se piove e non piove, allora la luna è fatta di formaggio verde!
[43] Come certamente si ricorderà, delle tre ipotesi solo la terza fa riferimento a rapporti contrattuali a termine conclusi, consentendo di procedere alla loro stabilizzazione già a partire dall’esercizio 2007. Le restanti ipotesi sono tali da consentire la realizzazione del loro presupposto, ossia la durata triennale del rapporto lavorativo a termine, in esercizî successivi al 2007. È evidente che tutto ciò ha ripercussioni sull’individuazione dell’annualità del programma triennale del fabbisogno di personale nella quale indicare il ricorso alla “stabilizzazione”.
[44] Per lo sviluppo di queste notazioni, sia consentito rinviare a Nobile (R.), Le relazioni sindacali negli enti locali, EDK Editore, Torriana [RN], 2006, pag. 22, 23 e 26.
[45] Nobile (R.), Le relazioni sindacali negli enti locali, EDK Editore, Torriana [RN], 2006, pag. 162, 163 e 164.
[46] A tale forma di relazione fa riferimento anche l’art. 1, comma 579 della legge 27/12/2006 n. 296, il quale, con pessima tecnica legislativa, ne evoca la loro audizione, senza specificarne il contenuto e la forma. Ancóra una volta, il desiderio di imboccare scorciatoie che non tengono conto dell’elaborazione dottrinale e del principio di ragionevolezza dell’intero sistema ha indotto il legislatore a formulazioni avventate, foriere di tensioni interne agli enti locali e di possibile incrinatura fra datore di lavoro ed organizzazioni sindacali. Il tutto con buona pace della preservazione del clima aziendale, che costituisce un valore in sé da preservare e da perseguire.
[47] Della dotazione organica si occupa per relazione l’art. 88 del D.lg. 18/8/2000 n. 267 ed implicitamente lo stesso art. 1, comma 558 della legge 27/12/2006 n. 296.
[48] La B.P.R. dovrebbe essere attentamente valutata dagli enti locali territoriali. Essa consiste nell’analisi dei processi che da un input conducono ad un output, soppesando i percorsi procedurali e le linee di azione seguite dall’ente. Il valore aggiunto dell’intera operazione, che è laboriosa e sovente dolorosa, evidenzia il costo in termini di impegno umano e professionale per realizzare l’output a partire dall’input dato. Essa smaschera spesso percorsi circolari, ripetizioni di procedure, inutili “colli di bottiglia”, censori inutili, sacche di potere occulto. Tali evenienze, se non conosciute, monitorate e governate conducono alla richiesta di nuovo personale, che, ovviamente, viene adibito proprio allo svolgimento di attività inutili, ma costose. Il suo esito è la riduzione della complessità dei processi, la diminuzione dei costi, la redistribuzione del personale, il ridimensionamento dei centri di potere informale, la corretta rappresentazione del contenuto della responsabilità dirigenziale, e, talvolta, l’evidenziazione di esuberi di personale.
[49] Credo, a questo punto, che debba essere chiaramente enunciato che per la pubblica amministrazione, e quindi anche per gli enti locali territoriali, deve valere il rapporto che civilisticamente connette la figura dell’imprenditore all’azienda. La pubblica amministrazione è un’organizzazione che eroga servizî alla collettività, e nel conseguire tale sua mission deve ispirare la propria azione organizzativa e gestionale ai requisiti della professionalità e dell’economicità come vuole l’art. 2082 c.c.. L’economicità, a ben vedere, costituisce l’elemento di saldatura fra il soggetto privato e quello pubblico, perché se è vero che il fine economico dell’imprenditore è la produzione del profitto e quello della pubblica amministrazione è l’erogazione di servizî alla propria collettività, non meno vero è che il fine giuridico di entrambi è la gestione sorretta dall’economicità intesa nella medesima accezione.
In questo senso, gli organi di governo ed i vertici gestionali dell’ente locale devono dimensionare ed organizzare professionalmente gli elementi della loro azienda nell’accezione indicata dall’art. 2555 c.c. in modo da orientarli funzionalmente alla realizzazione del programma di governo e quindi all’efficace, efficiente ed economica erogazione dei servizî che ne da esso deriva.
Un’attenzione particolare deve essere prestata alla corretta calibratura delle esigenze di personale, soprattutto a tempo indeterminato, nella consapevolezza che la pubblica amministrazione immobilizza costi a carico della collettività e che i suoi apparati devono essere orientati alla produzione e non all’assunzione a qualunque costo. In questo senso, il mantenimento di organici sovra dimensionati o, peggio ancóra, fuori controllo deve divenire momento di verifica della professionalità del dirigente che ciò acconsente, il quale, giova rammentarlo, è non solo gestore di risorse e di processi, ma anche e soprattutto, loro organizzatore, come chiaramente indicato dall’art. 5, comma 2 del D.Lgs. 30/3/2001 n. 165. Un moderno sistema di valutazione permanente deve necessariamente assumere il fattore organizzativo quale suo elemento baricentrico. È evidente che tutto ciò presuppone la rivendicazione di uno specifico ruolo della dirigenza ed una conseguenziale sua reale autonomie dall’ingerenza del potere politico attuata tramite gli organi di governo.
[50] La verifica dei processi gestionali costituisce una vera e propria condizione propedeutica alla “stabilizzazione”, come del resto a qualsiasi forma di assunzione all’impiego. In questo senso, la prima è una condizione di legittimità delle seconde.
[51] Sulle progressioni verticali, sia consentito rinviare a Nobile (R.), Le progressioni verticali quali mezzo di accesso all’impiego alle dipendenze dei Comuni. Brevi cenni sulle progressioni verticali attuabili nel 2006, in www.lexitalia.it, 2006.
[52] La disposizione rilevante in materia è l’art. 1, comma 138 della Legge n. 23/12/2005 n. 266 “Ai fini della tutela dell’unità economica della Repubblica e a modifica di quanto stabilito per il patto di stabilità interno dall’articolo 1, commi da 21 a 41, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, le regioni, le province autonome di Trento e di Bolzano, le province, i comuni con popolazione superiore a 3.000 abitanti e le comunità montane con popolazione superiore a 50.000 abitanti concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2006-2008 con il rispetto delle disposizioni di cui ai commi da 139 a 150, che costituiscono princìpi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi degli articoli 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione. Limitatamente all’anno 2006, le disposizioni di cui ai commi 139 e 140 non si applicano ai comuni con popolazione fino a 5.000 abitanti”.
[53] Bianco (A.), Finanziaria: le novità del personale della P.A., in Guida al pubblico Impiego – il Sole 24Ore, 2007, I, 19.
[54] Non meno importante è stabilire se l’azione del legislatore sia o meno sorretta da un generico “favor stabilizzationis” giacché ciò condurrebbe inevitabilmente a fornire interpretazioni estensive alla disposizione. Un’analisi approfondita dei presupposti organizzativi all’operatività dell’art. 1, comma 558 della Legge 27/12/2006 n. 296 lo esclude.
[55] È quindi esclusa la possibilità che alla “stabilizzazione” del rapporto a termine si accompagni la novazione oggettiva di parte dei contenuti contrattuali che corrono alla realizzazione del presupposto della previa sua triennalità complessiva.
[56] L’art. 7, comma 8 del c.c.n.l. 14/8/2000 prevede espressamente la combinazione fra contratto a termine e contratto a tempo parziale: “L’assunzione a tempo determinato può avvenire a tempo pieno ovvero, per i profili professionali per i quali è consentito, anche a tempo parziale”.

Nobile Riccardo

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