La stabile organizzazione:alcune problematiche di interesse risolte dalla giurisprudenza tributaria.

Scarica PDF Stampa
Sommario: 1. Premessa. 2. Commercio elettronico e stabile organizzazione. 3. Spese di regia e stabile organizzazione. 4. Il caso Philip Morris.
 
1. Premessa.
In Italia l’imposizione fiscale sui redditi avviene con modalità differenti a seconda che i soggetti passivi siano “residenti” oppure “non residenti”: per i primi con riferimento a tutti i redditi posseduti, ovunque prodotti, in ossequio al principio della tassazione del reddito mondiale, mentre per i secondi, nel rispetto del principio della territorialità, che dà il materiale collegamento del non residente con il territorio dello Stato, l’imposta è applicabile limitatamente ai redditi qui prodotti[1]. Risulta, quindi, particolarmente rilevante da un lato, la nozione di soggetto fiscalmente residente nel territorio dello Stato, dall’altro, per il non residente, l’individuazione del criterio di collegamento con lo stesso.
In tale contesto assume rilevanza la nozione di stabile organizzazione; il vigente sistema normativo prevede che intanto lo Stato può tassare i redditi di impresa prodotti da un soggetto non residente, in quanto sia possibile localizzarne l’ubicazione della fonte (e, pertanto l’attività produttiva) nel suo territorio, attraverso la configurazione, giustappunto, di una stabile organizzazione[2] dotata della forza di attrarre i redditi prodotti attraverso una struttura stabile nel tempo[3].
In altre parole, tramite la stabile organizzazione, l’imprenditore estero assume, nell’ordinamento giuridico italiano, una presenza fiscale significativamente qualificata, sostanziale e permanente in grado di collocarlo operativamente su un piano di astratta parità con le imprese residenti. Ne consegue, inevitabilmente, che la nozione di stabile organizzazione è legata alla corretta localizzazione dei redditi prodotti dalle imprese non residenti ed, ancora, alla risoluzione dei problemi connessi alla doppia imposizione[4].
Il termine stabile organizzazione delinea il confine tra business between merely trading with a country ed il trading in that country. Ne consegue che se un’impresa ha una stabile organizzazione in un determinato Paese, la sua presenza in quel Paese è "sufficiently substantial that it is trading in the country"[5].
Evidenziata, sia pur solo per sommi capi, l’importanza che riveste nell’ordinamento tributario la nozione di stabile organizzazione, se ne approfondiranno, ora, alcune tematiche, sia perché più di altre hanno originato controversie giurisdizionali, sia perchè, in alcune circostanze, hanno posto in crisi la sua stessa definizione, intesa quale sede fissa di affari attraverso la quale l’impresa esercita, in tutto o in parte, la sua attivià nel territorio dello Stato in cui non è residente.
 
2. Commercio elettronico e stabile organizzazione.
Il “commercio elettronico”, diffondendosi vertiginosamente grazie, anche, alla rete Internet, è divenuto uno strumento assai importante nella realtà operativa del sistema economico, portando alla globalizzazione dei mercati, determinandone la conseguente caduta di ogni barriera psicologica nelle transazioni commerciali internazionali.
Consiste nella tecnica attraverso cui lo scambio della proposta e dell’ accettazione, nella conclusione del contratto, avvengono attraverso documenti virtuali inviati con metodi di trasmissione telematica.
La diffusione del commercio elettronico ha dato vita al nascere di problematiche in tema civilistico, riguardanti, ad esempio, tanto il preciso momento di conclusione del negozio, a causa della diversa impostazione metodologica a seconda che, a tal scopo, si adottino le tecniche tradizionali o quelle virtuali, quanto le varie responsabilità dei soggetti che diffondono il proprio volere attraverso documenti intangibili, in quanto virtuali.
Ulteriori problematiche sono emerse anche sotto il profilo tributario ed hanno riguardato sia gli aspetti impositivi delle transazioni, che quelli, ad esempio, afferenti i vari adempimenti burocratici. Si ritiene che questi ultimi necessitino di un taglio diverso rispetto al metodo classico (legato al supporto materiale, quello cartaceo in specie): hanno bisogno di una maggiore semplificazione rispetto alle transazioni economiche effettuate dalle imprese, per così dire, “in via ordinaria”. In tale contesto, è nata l’esigenza di un adeguamento “ai tempi” dell’operato di coloro che sono chiamati a vigilare sulla corretta osservanza della normativa, onde evitare che la maggiore semplificazione burocratica non sia, poi di fatto, stimolo per “nuove forme e metodi” di evasione fiscale.
Invero le varie conferenze internazionali fin ora convocate, non pare siano fattivamente riuscite nell’intento di eliminare tutti i dubbi che sul punto sono emersi[6].
In genere, in ambito tributario, se colui che cede i beni o presta i servizi non è residente (rispetto allo Stato di residenza del cessionario o del committente), si verifica un conflitto tra le pretese impositive dello Stato della residenza e dello Stato della fonte oggetto delle norme interne/convenzionali.
L’attuale soluzione, basata sul concorso delle pretese impositive dello Stato della residenza (in cui operano i criteri di collegamento personali) e dello Stato della fonte (dove invece vigono i criteri reali), fa si che la localizzazione territoriale del reddito consente di individuare lo Stato della fonte, lasciando allo Stato di residenza il compito di eliminare le doppie imposizioni con l’applicazione di determinati metodi[7].
Pertanto il commercio elettronico, per via delle modalità con cui si svolge, tende a minare, di fatto, le fondamenta dei classici sistemi impositivi basati su base personale e territoriale; ciò in quanto la smaterializzazione delle operazioni produttive di reddito rende difficile l’individuazione sia di criteri di collegamento personali con riferimento agli operatori del commercio elettronico, sia di criteri di collegamento reali con riferimento alle attività produttive di reddito[8].
In particolare, è posta in bilico la nozione di stabile organizzazione, laddove questa, si è visto, esprime l’elemento di stabilità e di materialità che individua, appunto, la fonte effettiva del reddito di impresa con riferimento ad un dato territorio[9].
Fatte tali premesse, è evidente che il crescente sviluppo del commercio elettronico, nell’ambito delle transazioni di carattere commerciale, non poteva che comportare l’adeguamento del concetto di stabile organizzazione con l’evoluzione tecnologica in atto.
In relazione all’imposizione diretta, già nella Conferenza di Ottawa del 1998 emerse la problematica e si ritenne, attraverso una convenzione internazionale, di regolamentare la questione riguardante il luogo di tassazione dei ricavi e dei proventi derivanti dal commercio elettronico nelle sue varie forme di manifestazione, a seconda che le strutture tecniche (server, realizzazioni di siti internet, ecc.) e le infrastrutture utilizzate dall’impresa nei vari Paesi, potessero o meno ivi configurare una stabile organizzazione, nel rispetto degli standard internazionali previsti dall’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE[10].
L’OCSE, tuttavia, attraverso una continua evoluzione di lavori, ha definitivamente chiarito il trattamento fiscale da riservare alle attività fornite tramite l’uso del canale informatico
Le modifiche formulate alla definizione della stabile organizzazione hanno tuttavia riguardato esclusivamente il Commentario OCSE non coinvolgendo il testo dell’art. 5 del Modello di Convenzione che, al contrario, è rimasto immutato (in specie, nell’ambito del Commentario, l’art. 5 del Modello è stato integrato da 10 nuovi paragrafi che vanno dal 42.1 al 42.10).
La posizione assunta dall’OCSE può essere definita di natura interpretativa e, in quanto tale, direttamente applicabile a tutte le Convenzioni contro le doppie imposizioni.
Sul punto l’OCSE ha chiarito che l’apertura di un web site ed il godimento di servizi di web Hosting da parte di un’impresa non residente, non costituiscono una stabile organizzazione nel territorio dello Stato in quanto, in assenza del requisito di fisicità, tali strumenti non rappresentano una sede fissa d’affari così come definita dal Commentario.
Attraverso il servizio di web Hosting , una qualsiasi impresa commerciale (definita Internet content provider o Icp ) è in grado di intraprendere la propria attività sul web tramite un sito messo a disposizione e gestito direttamente dal server di proprietà di una società fornitrice di servizi (definita Internet service provider o Isp). Ne consegue, alla luce della posizione assunta dall’OCSE, che l’attività commerciale on-line, realizzata dall’Icp, non sarebbe in grado di costituire una stabile organizzazione a condizione che la gestione del server sottostante sia lasciata esclusivamente all’Isp[11]. Viceversa, l’impresa che gestisce il server (Isp) costituirebbe stabile organizzazione personale dell’impresa che riceve tale servizio (Csp) nel caso, giudicato molto remoto dall’OCSE, in cui alla stessa venisse attribuita la capacità di concludere contratti in nome di quest’ultima in qualità di agente dipendente (così come previsto dal citato comma 5 dell’art. 5 del Commentario)[12].
L’OCSE, inoltre, ha specificato il trattamento fiscale da riservare alle ipotesi di gestione diretta (in proprietà o in affitto) del server da parte di una qualsiasi impresa.
In particolare il server, in qualità di "elaboratore collocato fisicamente in un determinato luogo", è stato riconosciuto idoneo a costituire una "sede fissa d’affari" (e, conseguentemente, una stabile organizzazione) previo rispetto delle seguenti condizioni:
1) possibilità da parte dell’impresa di esercitare in tutto od in parte la propria attività attraverso l’uso dello stesso;
2) stabilità in un determinato luogo per un periodo di tempo minimo;
3) svolgimento di attività non aventi natura preparatoria o ausiliaria.
Tuttavia il documento OCSE, escludendo l’esistenza di una stabile organizzazione, si è espresso per la natura preparatoria delle seguenti mansioni (sempreché non accompagnate da ulteriori attività quali la conclusione del contratto, il pagamento e la spedizione dei prodotti on-line):
– pubblicità di beni o servizi;
– connessione telematica tra fornitore e clienti;
– ritrasmissione di informazioni attraverso un mirror server per scopi di sicurezza ed efficienza;
– raccolta di dati di mercato per le società;
– fornitura di informazioni[13].
In particolare l’art. 162, comma 5, T.U.I.R., prevede che, oltre a quanto stabilito dal comma 4, non costituisce di per sè stabile organizzazione la disponibilità a qualsiasi titolo di elaboratori elettronici e relativi impianti ausiliari che consentano la raccolta e la trasmissione di dati ed informazioni finalizzati alla vendita di beni e servizi.
Viene così introdotta nel diritto domestico la posizione OCSE, recependo la guida linea interpretativa contenuta nel Commentario OCSE, come modificato.
L’interpretazione fornita dall’OCSE, legata alla nozione di stabile organizzazione quale sede fissa d’affari, determinerà, per il Fisco, problematiche riguardanti la possibilità di verificare l’effettivo rispetto del presupposto della fissità da parte degli operatori telematici potendo, il server, essere rapidamente spostato (a bassi costi) da una località ad un’altra[14].
Si ritiene che l’attuale insieme di poteri di indagine, attribuiti al Fisco dal vigente contesto normativo, risalente, per lo più, agli inizi degli anni settanta[15], debba quindi essere versatilmente adattato alle nuove realtà del sistema economico internazionale, tra le quali figura, appunto, quella che concerne il commercio elettronico.
Allo scopo di una fedele ricostruzione della realtà, si ritiene utile, ancor più in questo contesto, che gli operatori del Fisco, nell’assolvimento delle proprie funzioni, utilizzino sistematicamente ogni elemento di indagine, come gli indizi che emergono da documenti, appunti, o altro acquisibile in fase di accesso presso, ad esempio, la struttura che di fatto gestisce il server o presso il soggetto che ne utilizza il servizio fornito.
Altri importanti supporti, rectius, spunti investigativi, possono provenire da informazioni, dati e quant’altro venga riferito anche verbalmente al personale operante dell’Amministrazione finanziaria.
 
3. Spese di regia e stabile organizzazione.
Un’annosa problematica concerne la deducibilità delle così dette "spese di regia" sostenute (per attività amministrative, direzionali, legali, ecc.) dalla "casa madre" nell’interesse della stabile organizzazione ed a quest’ultima imputate pro-quota.
Peraltro, se la casa madre opera attraverso una stabile organizzazione in un Paese, distinto da quello in cui ha la sede principale, è evidente che, proprio in quanto “casa madre”, concorra, in qualche misura, ai costi sostenuti dalla branch che di fatto è una promanazione della sua attività d’ impresa.
Tutto ciò nonostante l’autonomia che tipizza la stabile organizzazione, da una parte,e la sede centrale, dall’altra, in quanto "imprese indipendenti"; ne consegue la difficile individuazione della relazione esistente tra determinate spese sostenute all’estero dalla casa madre e la produzione di ricavi imponibili nel territorio dello Stato.
In quanto "entità" produttiva di reddito d’impresa, la stabile organizzazione è soggetta ai principi generali concernenti la determinazione del reddito d’impresa (salvo quelli che si riferiscono specificatamente a soggetti passivi residenti) compreso, tra gli altri, quello della inerenza dei componenti negativi ai ricavi.
Pertanto i componenti negativi sono deducibili a condizione che e nella misura in cui si riferiscono a beni o ad attività da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formarne il reddito.
Logica conseguenza è che la deducibilità dei costi e degli oneri è ammessa dalla legge previa osservanza di un criterio di funzionalità dei componenti negativi rispetto al processo della formazione del reddito.
La questione è stata foriera di vivaci contenziosi improntati ad un "pregiudiziale diniego dell’inerenza", con la preclusione della deducibilità delle spese di regia da parte (non di raro) di stabili organizzazioni italiane di imprese straniere[16].
Fatta tale premessa e considerato altresì il legame che di fatto si instaura tra l’impresa non residente e la sede fissa d’affari attraverso cui la prima opera, è palese la necessità di individuare corretti criteri per la determinazione del reddito di impresa "imputabile" alla stabile organizzazione e, in particolare, le corrette procedure che consentano di ricostruire, in buona sostanza, l’inerenza all’attività dell’impresa ed il quantum fiscalmente deducibile in Italia anche delle spese sostenute, di fatto, all’estero([17])([18]).
Il Fisco, in genere, deve effettuare tutte le possibili ricerche dirette a riscontrare la (effettiva) certezza, la congruità e l’inerenza di tali spese all’attività svolta dalla stabile organizzazione.
Si ritiene che un valido ausilio, al fine di riscontrare la sussistenza dei requisiti dell’inerenza e della certezza delle spese sostenute dalla casa madre, all’attività della filiale, sia il ricorso alla procedura di cooperazione internazionale con le autorità fiscali straniere o, in caso di difficoltà ad adire tale procedura (difficoltà riscontrabili, ad esempio, in caso di società residenti al di fuori dell’ambito dell’UE oppure, anche, in assenza di convenzioni internazionali) potrebbe rivelarsi significativo il ricorso ad un’apposita certificazione di società di revisione.
Particolari problematiche sorgono allorquando si procede al controllo del requisito della congruità in merito alle spese generali, amministrative e di direzione (dunque, di regia).
In ordine ai rapporti tra stabile organizzazione in Italia e sede centrale estera, è valida la disposizione sulle valutazioni contenute nell’articolo 110, comma 7, del nuovo T.U.I.R. che prevede, quale regola generale, la vigenza dell’applicazione del “valore normale” da attribuire anche alle transazioni intra-company .
La disposizione “domestica” è in sintonia con le regole di diritto convenzionale di cui all’articolo 7 del Modello di Convenzione OCSE, al quale è ragionevole riferirsi [19].
Peraltro le disposizioni del menzionato articolo 7 sono puntualmente richiamate dalle principali convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia che, giustappunto, si pongono in una posizione di prevalenza rispetto al diritto interno, quando applicabili.
Il paragrafo 1 dell’articolo 7 stabilisce che sono imponibili, nello Stato in cui insiste una stabile organizzazione,i soli utili attribuibili alla stabile organizzazione. Il paragrafo 2, a propria volta, specifica che gli utili attribuibili alla stabile organizzazionesono quelli che questa avrebbe conseguito se si fosse trattato di una impresa distinta e separata rispetto alla sede principale, svolgendo attività identiche o simili in piena indipendenza.
Inoltre, a mente del paragrafo 3, nella determinazione degli utili sono ammesse in deduzione le spese sostenute per gli scopi perseguiti dalla stabile organizzazione, comprese le spese di direzione e le spese generali di amministrazione, sia nello Stato in cui è situata la stabile organizzazione che altrove.
In pratica emerge che i rapporti fra la stabile organizzazione e la sede centrale debbano essere regolati con il riaddebito al "valore normale" dei trasferimenti interni di beni o servizi resi, tenendo conto del ruolo svolto dalla stabile organizzazione e senza alcun "mark-up" da parte della casa madre. Se ne deduce tuttavia che l’applicazione di tale criterio presenti particolari difficoltà in ordine ai controlli relativi a grossi gruppi multinazionali[20].
La questione della deducibilità delle spese sostenute dalla sede centrale ha originato diverse prese di posizione in particolare da parte della giurisprudenza di legittimità[21].
Nulla quaestio in merito alle spese cosiddette "specifiche": trattasi di costi specificamente sostenuti dalla sede centrale inequivocabilmente a favore della stabile organizzazione, direttamenteinerenti al reddito prodotto da quest’ultima (è il caso, ad esempio di prestazioni per spese di consulenza o ricerca direttamente localizzabili a vantaggio della branch).
Invero il problema, come accennato, si pone in tutta la sua pienezza in ragione delle spese generali, amministrative e di direzione (spese di regia o cosiddette management fees ) per le quali è oggettivamente assai complessa una loro diretta attribuzione, rectius, una chiara inerenza all’attività della branch, con problematiche conseguenti in merito al quantum riaddebitabile e deducibile ai fini tributari.
In situazioni del genere è ragionevole affermare che le spese in argomento devono essere ripartite, tra le varie unità operative, attraverso criteri matematici[22].
Tale assunto è stato da tempo sposato dall’Amministrazione finanziaria che ha sostenuto che, per potere contestare la deducibilità in tutto o in parte, delle spese di regia, è opportuno "effettuare tutte le possibili ricerche dirette a riscontrarne (…) la congruità". A tale fine, acquisita l’impossibilità di attribuire le spese di regia specificamente alle singole articolazioni dell’impresa, si rende necessario il ricorso a "metodi di ripartizione basati su parametri che tengano conto della peculiarità dell’attività svolta o di elementi contabili significativi in relazione al tipo di azienda sottoposta a controllo"[23]. L’orientamento sembra in linea con le disposizioni convenzionali applicabili e, pure, con le interpretazioni fornite in sede OCSE[24].
Tra gli esempi che possono formularsi in merito, quello legato all’adozione di formule che consentono la distribuzione dei costi in relazione ai benefici che ciascuna unità può trarre dall’utilizzazione dei servizi ai quali i costi stessi si riferiscono, ovvero quello relativo alla quota parte delle spese di direzione e amministrazione, sostenute dalla "casa madre", individuata nella misura che scaturisce dal rapporto tra i ricavi e i proventi dell’impresa estera, da una parte, ed i ricavi inerenti la gestione in Italia, dall’altra parte[25].
 
4. Il caso Philip Morris.
Trattando del celebre caso “Philip Morris” e degli interessantissimi principi di diritto che ne sono scaturiti, in merito al completamento della portata della definizione di stabile organizzazione, è opportuno effettuare alcune brevi premesse di ordine generale.
In tema di “gruppi di imprese”, il comma 9 dell’art. 162[26] del T.U.I.R riprende, in sostanza, sia pur con qualche novità, la disposizione di cui all’art. 5, paragrafo 7, del Modello di Convenzione OCSE che costituisce una ”anti-single entity clause”, nel senso che esso consente di evitare che la società controllante e la società controllata siano considerate sempre una ”single entity”, cioè un soggetto unitario costituito dalla casa madre estera e dalla stabile organizzazione.
Ai fini dell’identificazione di una ”single entity”, assume particolare rilevanza il rapporto che si instaura tra casa madre e controllata: è necessario che quest’ultima, pur svolgendo la sua attività nel proprio interesse esclusivo e ben oltre le normali operazioni commerciali infragruppo, si ponga in una situazione di sostanziale subordinazione nei confronti della controllante, privandosi interamente, in tal modo, ogni autonomia economica, giuridica, e anche di gestione, cosicché il rischio economico delle sue operazioni ricada completamente sulla capogruppo.
In pratica il paragrafo 7 non esclude che operi la ”single entity clause’‘, ma è caratterizzato dalla generica funzione di operare come ”anti-single entity clause”[27].
Peraltro, l’art. 162, comma 9 del T.U.I.R., recepisce a livello legislativo l’indirizzo giurisprudenziale della Corte di Cassazione con il cosiddetto ”caso Philip Morris”[28].
Dunque l’elaborazione soprannazionale sulla “anti-single entity clause” è stata recepita, nel nostro ordinamento, inizialmente in sede giurisprudenziale attraverso le famose sentenze della Suprema Corte di Cassazione che si è pronunciata sul caso Philip Morris, in particolare la n. 3367 e la n. 3368 del 7 marzo 2002, la n. 10925 del 25 luglio 2002 e la n. 7682 del 25 maggio 2002[29] e, solo successivamente, a livello legislativo, attraverso l’introduzione del citato art. 162.
La Suprema Corte, sul punto, ha approfondito le problematiche inerenti la superabilità, o meno, della ”anti-single entity clause”, concludendo, nella sostanza, che una società di capitali con sede in Italia ben può assumere il ruolo di stabile organizzazione plurima di (più) società estere, tutte appartenenti allo stesso gruppo e, nel contempo, unite dal comune scopo di perseguire la medesima strategia.
La motivazione della conclusione è sostenuta dall’assunto secondo cui ”il fenomeno delle stabili organizzazioni occulte trova un più favorevole terreno di cultura all’interno dei gruppi multinazionali, nei quali la strategia unitaria di gruppo può assumere forme di utilizzazione delle società controllate talmente penetranti da far diventar queste ultime, pur dotate di uno status di soggetti autonomi, vere e proprie strutture di gestione dell’impresa esercitata da altre società, nonchè dalla correlata constatazione che in definitiva, la società italiana, aveva operato (per il gruppo) in forma apparentemente autonoma”.
Ne emerge, a detta della Corte, che ”la ricostruzione dell’attività posta in essere dalla società nazionale deve essere unitaria e riferita al programma del gruppo unilateralmente considerato”. Dunque dall’unitarietà dell’attività esercitata dall’impresa, nasce il concetto di ”impresa di gruppo”, in distinzione da quello di ”gruppo di imprese”.
Peraltro, secondo i Supremi giudici, ancorchè il giudizio sia stato svolto unicamente nei confronti di poche società del gruppo, in particolare della controllante e controllata, le sinergie delle altre società, alle quali la struttura nazionale faceva riferimento, devono essere unitamente considerate; di conseguenza, deve essere considerato un ”indebito frazionamento del fenomeno la mancata utilizzazione di tutti gli elementi di prova che, pur non riguardando il singolo rapporto tra ciascuna società e la struttura nazionale servente, contribuiscono a verificare un rapporto di dipendenza (soprattutto sotto l ‘aspetto funzionale) in relazione ad un programma al quale diverse società del gruppo contribuiscono”.
Ne consegue che è ammissibile la nozione di controllata riqualificata come stabile organizzazione di una singola società controllante, ma anche quella di controllata riqualificata come stabile organizzazione plurima, riferita a diverse società del gruppo, appunto, unitariamente considerato. Ognuna di tali società, poi, disporrebbe, in proporzione, di una parte della stabile organizzazione (nel caso in specie, italiana), controllata indirettamente o di fatto[30].
Con riferimento, poi, alla ” anti-single entity clause”, la Corte evidenzia che, allo sopo di escludere l’esistenza di una società quale stabile organizzazione della casa madre, occore che la prima sia effettivamente indipendente, tanto sul piano giuridico che su quello economico; è poi necessario che essa operi nel proprio ordinario settore d’affari.
Precisa inoltre che il commentario dà rilievo, da un punto di vista intepretativo, non tanto all’aspetto formale, quanto a quello sostanziale; alla luce di questo assunto, non esclude la possibilità che la società italiana avesse esercitato, di fatto, attività assolutamente estranea al proprio oggetto sociale, ma collimante con le esigenze della controllante.
Ed ancora, continua la Corte, ”l’attività di controllo sulla regolare esecuzione del contratto non può certamente essere considerata di natura ausiliaria, essendo estremamente funzionale alla produzione del reddito”: tutto ciò, evidentemente, alludendo ai casi di esclusione di stabile organizzazione di cui all’art. 5, paragrafo 4, del Commentario OCSE.
Dunque è evidente la dipendenza dell’elemento personale anche dalla constatazione che rappresentanti della società italiana avevano partecipato a rapporti tra società del gruppo con l’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato (in particolare la società italiana svolgeva promozione e controllo per conto della società straniera ai fini dell’esatta esecuzione dei contratti, in favore di quest’ultima, da parte dei Monopoli di Stato)[31].
Di tale dipendenza, oltretutto, ne fa menzione l’art. 5, paragrafo 5 del Modello OCSE, laddove si evince che non sono soggetti indipendenti colore che, di fatto, hanno il potere di concludere contratti in nome dell’impresa ([32])([33])([34]).
Inoltre, continuando nel ragionamento dei giudici, il Commentario prevede, più in generale, che se un’impresa con ramificazioni internazionali affida ad una propria installazione fuzioni da managing, ed in particolare quelle di controllo e di coordinamento delle attività svolte dalla stessa impresa, tale struttura non può essere considerata indipendente, ma un ”ufficio”, così come definito dal Modello di Convenzione OCSE, concretizzandosi, tale attività, quale parte significativa del più ampio contesto delle attività imprenditoriali.
Detta installazione concretizza una stabile organizzazione (materiale) in quanto, a parere dei giudici, l’attività da questa svolta, deborda dal proprio ordinario ambito d’affari.
Dunque, è ragionevole pensare che se un’impresa ha delegato una propria struttura affinchè svolga funzioni di management, anche con riferimento ad un limitato settore del proprio ambito operativo, gli affari locali, così svolti, concretizzeranno comunque un place of management, come definito dal Modello OCSE.
Ne consegue, a conclusione dell’assunto della Corte, che la specifica attività svolta dalla controllata fa sì che quest’ultima venga riqualificata come un soggetto formalmente autonomo, ma di fatto come stabile organizzazione della casa madre estera, dunque, come precisato dagli investigatori (a detta dell’Avvocatura dello Stato), come ”plurima stabile organizzazione di più soggetti non residenti”.
 
 


[1] Per un generale approfondimento della tematica, tra i tanti, si veda FANTOZZI, Corso di diritto tributario, Torino, 2003, 387; FEDELE, Appunti delle lezioni di diritto tributario, Parte I, Torino, 2003, 204; TINELLI, Istituzioni di diritto tributario, Padova, 2003, 88 e ss..
[2] L’art. 162 del T.U.I.R., nel recepire, in buona sostanza, la più datata definizione enunciata nel Modello di Convenzione OCSE, al comma 1 precisa che “l’espressione stabile organizzazione designa una sede fissa di affari per mezzo della quale l’impresa non residente esercita in tutto o in parte la sua attività nel territorio dello Stato”. A partire dal comma 2 enuncia, altresì, un’elencazione in positivo ed in negativo di ipotesi, completando la portata del comma 1.
[3] L’assunto trova origine nell’art. 23, lett. e) del T.U.I.R., secondo cui i redditi di impresa, prodotti in Italia da un non residente, sono ivi soggetti a tassazione solo ove l’impresa non residente produca (in Italia) il proprio reddito mediante una “stabile organizzazione”.
[4] In questo senso e per un approfondimento della tematica, si veda VILLANI, l’Istituto della “Stabile organizzazione” nell’ordinamento tributario italiano, in www.studiotributariovillani.it.
[5] In questo senso VALENTE, Stabile organizzazione e Modello OCSE, in Corriere tributario, 1997, 2337. Per un approfondimento dei concetti di trading within e trading with, si veda Jeffcote-Kroon, UK/Netherlands double taxation treaty, Deventer, 1992, 52.
[6] Nel documento “Implicazioni di politica fiscale relative al commercio elettronico”, il Dipartimento del Tesoro (Implicazioni di politica fiscale relative al commercio telematico, estratto da “selected tax policy of global electronic commerci”, Department of Treasury – Office of Tax Policy, novembre 1996) sottolinea che “nel mondo del ciberspazio è spesso difficile, se non impossibile, applicare il convenzionale concetto di fonte per collegare un elemento di reddito con una specifica collocazione geografica. Perciò, la tassazione alla fonte potrebbe perdere la sua logica ed essere resa obsoleta dal commercio elettronico” (per un approfondimento della questione si veda GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005, 235 e ss.).
[7] Ci si riferisce all’applicazione del metodo del “credito”, dell’ “esenzione” e della “deduzione”.
[8] In questi termini, GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit., 235 e ss..
[9] Peraltro è stato posto in crisi anche il concetto tradizionale di residenza, considerata la natura virtuale degli operatori nell’ambito del commercio elettronico.
[10] In questo senso e, per un generale approfondimento della tematica, si veda SCOPACASA, Le operazioni di e – commerce, in Corriere tributario, 2001, 637.
[11] Di contro configura una stabile organizzazione la struttura costituita dal server, quando esso sia gestito dalla stessa impresa che lo possiede e che è titolare del sito WEB.
[12] I concetti sono espressi da NESSI, Il contratto di web hosting e la definizione di stabile organizzazione, in Azienda & Fisco, 2001, 473.
[13] In questo senso, NESSI, Il contratto di web hosting e la definizione di stabile organizzazione, in Azienda & Fisco, cit..
[14] Concordemente, NESSI, Il contratto di web hosting e la definizione di stabile organizzazione, in Azienda & Fisco, cit..
[15] Il riferimento va fatto agli artt. 32 e 33 del D.P.R. 29.9.1973, n. 600, ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi, ed agli artt. 51 e 52 del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, ai fini dell’accertamento dell’Imposta sul valore aggiunto.
[16] Dibattiti nati a seguito dell’assenza, nella legislazione italiana, di chiari riferimenti normativi sul tema, fatta eccezione per l’articolo 14 del D.P.R. n. 600/1973 che, in generale, impone agli imprenditori non residenti, che esercitano attività commerciali in Italia, di rilevare distintamente nella contabilità i fatti di gestione che interessano la stabile organizzazione.
In mancanza di un punto fermo, il problema è stato legato, principalmente, all’applicazione del principio di inerenza. Sul punto si veda, in giurisprudenza, tra le altre, Cass., 11 agosto 1995, n. 8818, inI Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA, secondo cui "la deducibilità dei costi e degli oneri è sempre condizionata ad una stretta inerenza di questi ultimi all’attività di impresa nel senso di una funzionalità alla formazione del reddito ovvero nel senso che i costi si siano rapportati come causa a effetto nel circuito della produzione del reddito". Cfr. inoltre R.M. luglio 1983, n. 30/9/944, in BANCA DATI Big, IPSOA; Id., 28 ottobre 1998, n. 158/E, ivi.
Tuttavia non va sottaciuta la posizione assunta nella fase contenziosa dall’Amministrazione finanziaria negli ultimi anni, che è sistematicamente orientata per una visione abbastanza garantista; in particolare la C.M. n. 271/E del 21 ottobre 1997, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA, ha rimarcato che: "la posizione di pregiudiziale diniego dell’inerenza delle spese di regia deve essere evitata in quanto si traduce, sostanzialmente, in una carenza di motivazione degli avvisi di accertamento".
[17] Per un approfondimento della tematica, tra le tante, si veda Comm. Trib. primo grado di Milano, Sez. 43, 13 febbraio 1991, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA.
[18] Nella sostanza, in questi termini, TRUTALLI, Lineamenti essenziali del concetto di stabile organizzazione, in azienda & fisco, 2000, 919 e ss..
[19] Concordemente, e per un approfondimento dei concetti espressi, si veda TRUTALLI, Lineamenti essenziali del concetto distabile organizzazione, in azienda & fisco, cit..
[20] Concordemente NESSI, La corretta imputazione dei costi alla stabile organizzazione, in Azienda & Fisco, 2000, 455.
Sul punto il (l’allora) Ministero delle finanze ha assunto un orientamento in linea con i principi del Modello di Convenzione OCSE. Invero il riaddebito dovrebbe riguardare non solo le spese generali, ma anche gli interessi passivi da finanziamento (R.M. n. 9/427 dell’8 aprile 1980, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA). Tuttavia l’ufficio fiscale competente territorialmente ha il compito di verificare la correttezza nell’applicazione dei criteri di ripartizione, al fine di evitare che quote di componenti positivi o negativi possano essere deviati in una direzione al solo scopo di trarre benefici fiscali (R.M. 21 gennaio 1981, n. 9/2555, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA).
[21] Interessanti sembrano i principi che sul punto, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 14016 del 14 dicembre 1999 (in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA), ha statuito.
Essa ha ammesso la deducibilità di spese di regia da parte di una stabile organizzazione localizzata in Italia, nei limiti di ben precise condizioni: “(omissis)- tali spese, pur se funzionali al coordinamento tra le varie filiali e la sede centrale, non devono rispondere ad esigenze di governo e gestione dell’impresa multinazionale, dovendo in tal caso detrarsi dalla contabilità centrale; – se le filiali sono produttrici di redditi nel paese nel quale hanno sede, le spese della sede centrale possono qualificarsi inerenti ai ricavi delle succursali purché si siano tradotte in servizi resi a queste ultime; – non corretti sarebbero altri criteri ed in particolare il riparto delle spese sostenute tra le varie filiali effettuato dalla casa madre; tale divisione di costi proverebbe l’inerenza di essi all’organizzazione centrale derivando dall’attività dell’intera società e non delle singole e distinte filiali e dovrebbe imputarsi, quindi, alla casa madre e non alle succursali".
La dottrina, dal suo punto di vista, ha duramente criticato l’ultima affermazione in considerazione che la deducibilità o meno di tali spese, sembrerebbe legata al metodo di addebito o ripartizione delle stesse; secondo la Suprema Corte, l’esistenza di un riparto delle spese è di per sé prova sufficiente a dimostrare che non esista un’inerenza delle medesime al reddito della stabile organizzazione (MAYR SEGFRIED – FORT GIOVANNI, in Corriere tributario, 2000, 1823).
[22] In questo senso, TRUTALLI, Lineamenti essenziali del concetto distabile organizzazione, in azienda & fisco, cit..
[23]C.M. della Direzione generale delle imposte dirette, n. 9/2267 del 22 settembre 1980, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA; R.M. 31 gennaio 1981, n. 9/2555, ivi.
[24] Spesso la giurisprudenza ha ammesso la deducibilità delle spese in esame, rilevando, tra l’altro, come in caso di contestazioni rivolte ai metodi di ripartizione delle spese di regia incombe al contribuente l’onere di provare che si è in presenza di servizi resi, inerenti la produzione del reddito e congrui rispetto al valore normale degli stessi.
In sostanza, la giurisprudenza consente la deduzione delle spese di regia, ma, a tal fine, richiede che il contribuente provi, con un’idonea documentazione:
·              la correttezza del quantum;
·              l’inerenza, attraverso quanto meno l’indicazione delle attività e dei servizi svolti dalla casa madre in favore della stabile organizzazione e delle modalità di prestazione (ovvero dell’entità totale dei costi generali e di direzione), nonché attraverso la certificazione di una società di revisione relativa alla composizione ed agli importi di tali costi, ai parametri usati per la determinazione della quota addebitata alla stabile organizzazione ed alla giustificazione di tali parametri (Comm. trib. I grado Milano, 13 febbraio 1991, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA; Comm. trib. Centr., 1° maggio 1995, n. 1992, ivi; Id., 30 settembre 1999, n. 5641, in BANCA DATI Big, IPSOA; Cass. 14 dicembre 1999, n. 14016, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria BIG – CD ROM, IPSOA; Id., 1° agosto 2000, n. 10062, ivi; Id., 5 settembre 2000, n. 11648, ivi; Id., 26 gennaio 2001, n. 1133, ivi; Id., 6 settembre 2000, n. 11700, ivi).
Tuttavia tale orientamento è in parziale contrasto con l’art. 7, paragrafo 3, del Modello di Convenzione OCSE.
Infatti, tale disposizione, che stabilisce che "nella determinazione degli utili di una stabile organizzazione sono ammesse in deduzione le spese sostenute per gli scopi perseguiti dalla stabile organizzazione – comprese le spese di direzione e le spese generali di amministrazione – sia nello Stato in cui è situata la stabile organizzazione sia altrove", obbliga gli Stati contraenti a riconoscere la deducibilità di quelle spese ragionevolmente attribuibili alla stabile organizzazione, senza porre a carico del contribuente l’onere di dimostrare l’inerenza e la ragionevolezza delle spese di regia portate in detrazione (in questo senso NESSI, La corretta imputazione dei costi alla stabile organizzazione, in Azienda & Fisco, cit.).
[25] Sul punto si veda C.M. n. 9/2267 del 22 settembre 1980, in Corriere tributario, 1980, 2023; R.M. n. 9/2555 del 31 gennaio 1981, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA.
[26] Si riporta testualmente il comma 9 dell’art. 162 del T.U.I.R.: “Il fatto che un’impresa non residente con o senza stabile organizzazione nel territorio dello Stato controlli un’impresa residente, ne sia controllata, o che entrambe le imprese siano controllate da un terzo soggetto esercente o no attività d’impresa non costituisce di per sé motivo sufficiente per considerare una qualsiasi di dette imprese una stabile organizzazione dell’altra”.
[27] In questo senso e comunque per un approfondimento della tematica, si veda GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit., 295 e ss..
[28] Nello specifico, la Suprema Corte, con la sentenza 25 maggio 2002, n.7682, in I Quattro Codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA, rende noti alcuni importanti assunti volti a collocare una esaustiva definizione di stabile organizzazione, concorrendo, tra l’altro, a delineare i seguenti principi di diritto:
          in tema di imposte sui redditi, ai fini della configurazione in Italia di una stabile organizzazione di società estera, va escluso che la semplice struttura organizzativa debba essere di per sé produttiva di reddito, dotata di autonomia gestionale o contabile;
          in tema di imposte sui redditi, una società di capitali con sede in Italia può assumere il ruolo di stabile organizzazione di società estere appartenenti allo stesso gruppo e perseguenti una strategia unitaria;
          l’accertamento dei requisiti della stabile organizzazione deve essere effettuato non solo formalmente, ma anche sul piano sostanziale.
[29]In I Quattro Codici della Riforma Tributaria big, Cd-rom, IPSOA.
[30] In questo senso GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit., 298.
[31] In merito all’oggetto della sentenza della Cassazione n. 3367 del 7 marzo 2002, cit., nell’ambito del processo verbale di constatazione redatto dagli investigatori, su cui poi è stato “costruito” l’avviso di accertamento, emergevano i seguenti elementi a comprova del rapporto di dipendenza personale:
– commistioni tra le attività, cariche e funzioni, svolte dalla società italiana (I. S.p.a.) in rappresentanza del gruppo estero (P.Inc.), con quelle delle società collegate; – segnalazioni di rischi fiscali, in capo a I. S.p.a., da parte di consulenti che mettevano in guardia in ordine alla possibile configurazione della stessa come stabile organizzazione di uno o più soggetti non residenti, individuati in società del gruppo P. Inc.; – l’assunzione, da parte di P. Inc., di oneri e spese a beneficio di altre società del gruppo; – interventi di P. Inc., nei confronti di I. S.p.a, in relazione alla determinazione del prezzo, alle condizioni di resa ed al pagamento delle materie prime per la produzione di filtri, nella gestione contabile, nella predisposizione di campagne pubblicitarie; – dipendenza dei dirigenti di I. S.p.a. da managers delle altre società del gruppo, in cui i primi venivano incaricati di perseguire le strategie e gli obiettivi di P. Inc.; – retribuzione dei dirigenti suddetti, sia da parte della società italiana, sia da parte di società estere del gruppo; – esistenza di rapporti contrattuali alquanto rilevanti tra I. S.p.a. e società del gruppo non residenti.
Ne è conseguito (a sostegno dell’assunto dell’Amministrazione finanziaria, di fatto accolto dai giudici di legittimità) che la predetta corposa ragnatela di rapporti contrattuali, finiva per far assumere alla I. s.p.a. la posizione, di fatto, di una società "prigioniera" del gruppo e per esso della società capogruppo. Per cui se ne deduce che i menzionati rapporti contrattuali avevano per unico scopo quello di dissimulare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia delle società del gruppo estero.
[32] In questo significato e per un ulteriore approfondimento della tematica, si veda GARBARINO, Manuale di tassazione internazionale, cit., 297 e ss..
[33] Il potere di concludere contratti in nome dell’impresa, secondo il Commentario, (art. 5, paragrafo 5, punto 33), non è riconducibile ad una rappresentanza diretta, ma include anche l’insieme delle attività che abbiano contribuito alla conclusione del contratto, pur se in nome dell’impresa (conseguendone il riferimento al principio della prevalenza della sostanza sulla forma).
[34] In merito alla nozione di stabile organizzazione, si veda SUCCIO, Sull’ammissibilià della stabile organizzazione di un gruppo di società non residenti, in GT – Rivista di giurisprudenza tributaria, 2002, 621.
Sul punto l’autore, riferendosi alla previsione dell’art. 5, paragrafo. 5, del Modello OCSE, precisa che la dottrina internazionale ha avuto modo di precisare che " Notwithstanding the provisions of paragraphs 1 and 2, where a person – other than an agent of an independent status to whom paragraph 6 applies – is acting on behalf of an enterprise and has, and habitually exercises, in a Contracting State an authority to conclude contracts in the name of the enterprise, that enterprise shall be deemed to have a permanent establishment in that State in respect of any activities which that person undertakes for the enterprise, unless the activities of such person are limited to those mentioned in paragraph 4 which, if exercised through a fixed place of business, would not make this fixed place of business a permanent establishment under the provisions of that paragraph ". Per cui nel caso della stabile organizzazione personale, il modello OCSE stabilisce che l’elemento essenziale consista nell’esistenza di un soggetto (person) il quale in concreto possa considerarsi "acting on behalf of an enterprise" (art. 5, paragrafo 5, del Commentario OCSE), per cui il rischio economico del rapporto d’affari concluso dall’agente grava unicamente sul mandante.
In questo senso, l’impresa (enterprise), cioè l’attività economica d’impresa, esercitata nelle più varie forme, non ultima quella del gruppo di impresa, può fornire una "substantial trading presence in the host country without regard to the existence of a fixed place of business or dependent – agency permanent establishment ", in quanto esiste con l’ordinamento "ospite" un legame di natura personale e non materiale.
(Sul punto, in merito alle asserzioni della dottrina internazionale, si vedano HUSTON e WILLAMS, Permanent establishment: a planner primer, Kluwer, Boston, 1993, 124; PLESIJSER, The agency as permanent establishment; the current definition – part. One", in Intertax, vol. 29, issue n. 5, 168 ss.).
Pertanto, continua l’autore, ciò può accadere nei casi in cui l’imprenditore agisce personalmente o per mezzo di un soggetto i cui poteri generano un determinato affidamento in capo ai soggetti terzi, i quali entrano in relazione con il soggetto stesso. L’agente, pertanto, risulta dotato di un potere tale da far ritenere ad un terzo di buona fede che le azioni dell’agente siano basate su un potere legittimamente conferito e che creino obbligazioni in capo al mandante (principal) (sulla tematica si veda SKAAR, Permanent establishment, Erosion of a Treaty principle, Deventer – Boston, 1991).

Toma Giangaspare Donato

Scrivi un commento

Accedi per poter inserire un commento