La sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza di primo grado impugnata, disamina dei presupposti e delle differenze nei vari riti (ordinario, lavoro, locatizio). Aspetti applicativi e novità giurisprudenziali

Redazione 12/09/19
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di Giulia Baruffaldi*

* Avvocato

Sommario

1. Introduzione

2. Rito ordinario: artt. 283 c.p.c. e 351 c.p.c.

3. Rito del lavoro: art. 431 c.p.c.

4. Rito c.d. locatizio: art. 447 bis c.p.c.

5. La giurisprudenza più recente sul tema

1. Introduzione

Nella pratica lavorativa forense è circostanza frequente, o quantomeno ordinaria, che l’avvocato si trovi a dover impugnare una sentenza totalmente o in parte sfavorevole per il soggetto assistito e, contemporaneamente, a richiederne la sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione, ove già iniziata.

Infatti, l’art. 282 c.p.c. stabilisce, in generale, che la sentenza di primo grado è provvisoriamente esecutiva tra le parti: l’esecuzione della sentenza costituisce, quindi, un effetto del tutto fisiologico della decisione di prime cure della controversia.

Accade sovente anche che si debba richiedere la sospensione della efficacia esecutiva della sentenza o dell’esecuzione all’interno di procedimenti con rito diverso da quello ordinario, in particolare nell’ambito del rito del lavoro o del rito c.d. locatizio e, pertanto, può essere utile una disamina delle differenze di presupposti e di procedura che li caratterizzano.

Scopo di questo articolo, dal taglio squisitamente pratico, è quello di esaminare le differenze – spesso sottili ma pur sempre esistenti -, tra i predetti diversi riti in ordine alla sospensione della efficacia esecutiva o esecuzione della sentenza appellata e, infine, dare conto dei punti fermi in materia nonché delle ultime novità giurisprudenziali.

2. Rito ordinario: artt. 283 c.p.c. e 351 c.p.c.

L’art. 283 c.p.c.è norma fondamentale sul punto sia per il rito ordinario civile che, come si vedrà nel prosieguo, anche per gli altri tipi di procedimento.

Tale norma dispone che il giudice dell’appello, su istanza di parte, proposta sia mediante l’appello principale che incidentale, possa sospendere, in tutto o in parte, l’efficacia esecutiva o l’esecuzione della sentenza impugnata, “quando sussistono gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti“.

Presupposto fondamentale del provvedimento di inibitoria, oltre all’istanza di parte, è la sussistenza di gravi e fondati motivi, che siano in grado di derogare alla regola generale dell’esecuzione provvisoria delle sentenze.

Ad oggi, la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria sono concordi nel ritenere che tale gravi e fondati motivi debbano essere individuati nel fumus boni iuris, cioè la fondatezza dell’impugnazione e nel periculum in mora, cioè il pregiudizio che la parte soccombente può subire a seguito dell’esecuzione della sentenza impugnata.

Ai fini della sospensione de qua è necessario che coesistano entrambi i requisiti e la decisione è presa dal Giudice in considerazione anche di una valutazione comparativa delle situazioni patrimoniali delle parti.

Anche la Cassazione ha precisato che la sospensione della provvisoria esecuzione della sentenza di primo grado è rimessa ad una “valutazione globale di opportunità“, in quanto i gravi motivi richiesti dall’art. 283 c.p.c. consistono per un verso nella delibazione sommaria della fondatezza dell’impugnazione e, per altro verso, nella valutazione del pregiudizio patrimoniale che il soccombente può subire – anche in relazione alla difficoltà di ottenere eventualmente la restituzione di quanto pagato – dall’esecuzione della sentenza, che può essere inibita anche parzialmente se i capi della sentenza sono separati (v. Cass. civ., sez. III, n. 4060/2005).

L’istante, quindi, dovrà dare prova della coesistenza di entrambi i requisiti, specialmente del periculum in mora, il quale deve consistere nella prova del danno ingiusto e, soprattutto, irreparabile che conseguirebbe dall’esecuzione della sentenza appellata.

Dal punto di vista della procedura, invece, l’articolo di riferimento è l’art. 351 c.p.c., il quale esordisce stabilendo che la decisione in punto sospensione viene presa dal Giudice con decisione non impugnabile.

Tale norma detta in maniera precisa le regole procedurali dell’istituto dell’inibitoria nel rito civile ordinario e richiama il predetto art. 283 c.p.c. quanto ai requisiti per la sua concessione.

L’art. 351 c.p.c. disciplina un sub-procedimento che viene introdotto dalla parte istante con apposito ricorso, inserendosi nell’impugnazione principale e rimanendone indipendente.

Viene prevista, infatti, la fissazione di una udienza ad hoc per la comparizione delle parti e per la discussione dell’inibitoria, da tenersi prima dell’udienza di trattazione dell’appello ed è previsto anche che, ove ricorrano gravi motivi di urgenza, il Giudice possa disporre provvisoriamente ed inaudita altera parte l’immediata sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza.

3. Rito del lavoro: art. 431 c.p.c.

Anche nel rito del lavoro vige la regola generale della provvisoria esecuzione delle sentenze di primo grado, ma si riscontrano differenze a seconda che la sentenza sia resa a favore del lavoratore o del datore di lavoro.

Nel primo caso, l’art. 431 comma 3 c.p.c. dispone che il giudice dell’appello possa disporre con ordinanza non impugnabile che l’esecuzione (e non anche l’efficacia esecutiva) sia sospesa quando possa derivare all’altra parte, al datore di lavoro, un “gravissimo danno“.

Mentre, nel secondo caso, l’art. 431 comma 5 c.p.c. dispone che le sentenze che pronunciano condanna a favore del datore di lavoro, anch’esse provvisoriamente esecutive, siano soggette alla disciplina di cui ai predetti artt. 282 e 283 c.p.c.

Si rileva, quindi, una prima differenza nel rito del lavoro quanto ai presupposti dell’inibitoria, i quali sono più stringenti nel caso di sentenza favorevole al lavoratore: per la sospensione, infatti, si richiede la presenza di un gravissimo ed irreparabile danno e non solo di “gravi e fondati motivi”, con ciò alludendo al favor del legislatore nei confronti del lavoratore.

Altra differenza che emerge, invece, dal punto di vista procedurale, si rileva nella mancanza di una procedura ad hoc per la richiesta di inibitoria e l’apparente assenza di un mezzo apposito per richiederla prima che venga celebrata l’udienza di trattazione dell’appello.

La ragione di questa differenza potrebbe essere individuata nella maggiore celerità dell’appello nel rito del lavoro, nel quale l’udienza di trattazione e, a questo punto, di discussione dell’inibitoria, avviene in tempi più ristretti rispetto al rito ordinario.

Quindi, secondo parte della dottrina, l’istanza di sospensione va proposta nell’atto di appello ex art. 434 c.p.c. e, ove vi sia urgenza, può chiedersi che la decisione sia anticipata rispetto all’udienza di discussione (TARZIA, Manuale, cit. 295): non si rinviene, tuttavia, alcuna indicazione pratica in merito a che tipo di istanza proporre e con quali tempi, né, in effetti, l’art. 431, comma 3 c.p.c., richiede la proposizione di alcuna istanza.

A differenza del rito ordinario, quindi, vi è una certa genericità rispetto alle modalità concrete con cui, proceduralmente, si possa chiedere l’inibitoria.

Genericità che, in definitiva, potrebbe ritenere ammessa la richiesta in qualunque tempo e con una istanza generica nel corso del procedimento e, ovviamente, prima dell’udienza di trattazione, ma non necessariamente con l’atto di appello.

4. Rito c.d. locatizio: art. 447 bis c.p.c.

Circostanza particolare, invece, sussiste nel caso in cui venga impugnata una sentenza avente ad oggetto una controversia in materia di locazione, di comodato ed affitto, in quanto tali controversie, da una parte, hanno un oggetto essenzialmente riconducibile al diritto civile in generale ma, dall’altra, gli vengono applicate alcune delle norme previste dal rito del lavoro, così come disposto dall’art. 447 bis c.p.c.

In materia di sospensione dell’efficacia esecutiva o dell’esecuzione della sentenza, l’unica norma applicabile è l’art. 447 bis, 4 comma c.p.c., secondo cui il giudice d’appello può disporla con ordinanza non impugnabile quando possa derivare all’altra parte un “gravissimo danno“.

Si ricalca, quindi, quanto previsto con riferimento alla sospensione delle sentenze favorevoli al lavoratore, pur non disponendo la predetta norma alcun richiamo all’art. 431 c.p.c.

L’art. 447 bis, 4 comma c.p.c. costituisce una deroga sia all’art. 283 c.p.c. che all’art. 431 c.p.c.: sotto il primo profilo, infatti, si rileva come per ottenere l’inibitoria non sia sufficiente la sussistenza dei “gravi e fondati motivi“, ma occorre che alle parti derivi un “gravissimo danno“.

Quanto al secondo profilo, è consentita non solo la sospensione dell’esecuzione della sentenza – come prevede l’art. 431 c.p.c. – ma anche quella della semplice efficacia esecutiva.

Anche in questo caso, quindi, si rileva la stessa genericità dal punto di vista procedurale già evidenziata nel rito del lavoro, ma tale criticità può essere facilmente superata proponendo una istanza, anche generica, prima dell’udienza di trattazione.

Va tuttavia evidenziato che, se nel rito ordinario il Giudice è “obbligato” dal rispetto del codice di procedura civile, in particolare, dell’art. 351 c.p.c., all’esame dell’istanza di sospensione, nonché alla fissazione dell’udienza di discussione dell’inibitoria, tale obbligatorietà non si rinviene nel rito del lavoro né nel c.d. rito locatizio, che ne ricalca – in maniera ancora più sintetica – gli schemi procedurali.

5. La giurisprudenza più recente sul tema

Si segnala una recentissima sentenza del Tribunale di Napoli del 2018, che ha confermato la posizione pressoché unanime di dottrina e giurisprudenza, secondo cui i requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora debbano sussistere entrambi e che il grave pregiudizio richiesto non possa essere individuato nella mera esecuzione della sentenza, ma, soprattutto, ha dato rilievo alla necessaria valorizzazione della irreparabilità del danno e dell’onere della prova a carico dell’istante:

Preliminarmente occorre precisare che per l’adozione del provvedimento di inibitoria i presupposti del fumus boni juris (in termini di prognosi favorevole all’appellante dell’esito del giudizio di appello) e del periculum in mora (in termini di pericolo di un grave pregiudizio derivante al soccombente dall’esecuzione della sentenza) debbono sempre ricorrere cumulativamente e non alternativamente.

Non risulta infatti suscettibile di accoglimento la tesi secondo cui la ricorrenza di un evidente fumus boni juris potrebbe in buona sostanza far prescindere dalla valutazione circa la ricorrenza del periculum, atteso che l’esecuzione di una sentenza palesemente ingiusta costituirebbe di perse un danno grave.

Tale tesi, pur fatta propria da parte della giurisprudenza di merito (Corte d’Appello Bari, ord. 7.7.2004), non risulta tuttavia condivisibile nella misura in cui implicitamente comporta la valorizzazione del solo profilo della gravità del danno derivante dall’esecuzione della sentenza e non anche la necessaria valorizzazione dell’ulteriore profilo dell’irreparabilità di tale danno, quando invece entrambi i suindicati profili debbono ricorrere onde superare il favor del legislatore per l’esecutività delle sentenze di primo grado (in tal senso, Cass., sent. n. 4060/2005; Corte d’Appello Milano, ord. 14.10.2008).

Se è vero infatti che è astrattamente ipotizzabile che integri un pregiudizio di per sé grave eseguire una sentenza il cui gravame presenta una prognosi di accoglimento assolutamente favorevole, è parimenti vero che ciò non comporta automaticamente che detto danno sia anche irreparabile (ossia insuscettibile di riparazione integrale in caso di successivo accoglimento del gravame).

E’ invece proprio tale irreparabilità, in uno alla serietà del pregiudizio ed alla prognosi favorevole circa l’esito dell’impugnazione, che può giustificare, in sede latamente cautelare e di delibazione meramente sommaria, una deroga al principio di generale esecutività delle sentenze di primo grado, anche tenuto conto, non ultimo, del fatto che trattasi di delibazione destinata a sfociare in un provvedimento non impugnabile e che quindi è a maggior ragione opportuno procedere ad una ponderazione globale di tutti i contrapposti interessi.” (Tribunale di Napoli, Sezione 1 civile , ordinanza n. 1672 del 1 giugno 2018).

Si segnala, infine, una recente sentenza della Corte di Appello di Venezia, la quale ha confermato e precisato che i gravi motivi vanno individuati sia nel fumus boni iuris, inteso quale rilevante probabilità della riforma della decisione appellata, a causa della manifesta erroneità della stessa o per palesi errori logici o giuridici, individuati nei motivi di appello, sia nel periculum in mora, cioè nel rischio che, in conseguenza dell’esecuzione della sentenza impugnata, il diritto controverso rimanga irrimediabilmente pregiudicato nonché nella possibile riduzione di liquidità che si aggiungerebbe all’inesigibilità di alcuni crediti (v. Corte di Appello Venezia, sentenza 17.02.2014 in Centro studi giuridici di Mantova, www.Ilcaso.it, 2014, pg. 10104).

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