La scelta del contraente da parte degli organismi di diritto pubblico

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Introduzione

La materia della contrattazione pubblica non può essere scissa dal concetto di “pubblica amministrazione” o più precisamente, dall’individuazione di colui che, per legge, deve considerarsi “ente pubblico”, secondo una complessa ricostruzione ermeneutica affidata all’interprete.

La ragione si rinviene nel grande limite che governa il pubblico potere: l’inesistenza di un’autonomia negoziale libera, piena ed effettiva, al pari di quella prevista per i soggetti privati.

La scelta del contraente, invero, per quanto destinata a sfociare in un negozio di diritto privato ove la p.a. non agisce in veste autoritativa, non è mai una scelta libera.

Ad essa deve precedere una fase pubblicistica, per l’appunto di evidenza, ove si perviene all’individuazione del miglior contraente tra i tanti potenziali concorrenti che il mercato può offrire, in ossequio ai principi di efficienza, efficacia e economicità.

Questa selezione può essere più o meno incisiva a seconda che l’ente pubblico tragga dalla contrattazione una spesa o un’entrata, ovvero a seconda del “tipo di ente” che intende pervenire alla negoziazione, non tutti essendo soggetti alle stringenti procedure previste in materia di evidenza pubblica.

Per quanto la scelta del partener contrattuale possa, in certi casi, sottrarsi alla procedura classica del “Codice dei contratti pubblici” d.lgs.50/2016, non possono ignorarsi due grandi problematiche: da un lato il rispetto dei principi comunitari di pubblicità, trasparenza e non discriminazione, e dall’altro la questione del riparto di giurisdizione.

Con riguardo al secondo aspetto, il focus è comprendere chi è pubblica amministrazione, delimitandone il significato, non tanto alla luce di un’effimera definizione normativa, quanto in virtù di quelle caratteristiche “sostanziali” che impongono all’ente di procedimentalizzare la scelta.

La complessa ricostruzione del concetto di ente pubblico, priva di un significato unidirezionale, già da molti anni ha trovato la propria matrice nella giurisprudenza comunitaria.

Quest’ultima ha valorizzato una nozione sostanziale di ente pubblico, funzionalizzata al rispetto di stringenti regole di evidenza che possano garantire la tutela della concorrenza e la non discriminazione tra gli operatori economici degli Stati membri.

Tra le varie nozioni, elaborate dall’Unione a livello normativo e pedissequamente recepite nel nostro d.lgs.50/2016, vi è quella dell’“organismo di diritto pubblico”.

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L’organismo di diritto pubblico quale concezione comunitaria di una P.A. a “geometrie variabili”

L’organismo di diritto pubblico, nella dimensione giuridica comunitaria, rappresenta la qualificazione data a quelle persone giuridiche, aventi anche veste societaria, le cui peculiarità di stampo pubblicistico ne hanno imposto un parziale assoggettamento alle procedure amministrative conferenti all’evidenza pubblica, al diritto di accesso e al sindacato del giudice amministrativo.

Una tale elaborazione si è resa necessaria, sin dalla Direttiva CE del 1989 al fine di ovviare i tentativi d’elusione da parte di soggetti, formalmente privati ma sostanzialmente pubblici, dei quei principi fondamentali sottesi alle procedure di gara, primo fra tutti la tutela della libera concorrenza e la par condicio tra gli operatori economici. Ciò, allo scopo di impedire che la veste societaria avrebbe consentito una facile sottrazione dell’ente alla parità di trattamento.

L’organismo esprime, in particolare, una delle tante modalità con cui si è intessuto il concetto europeo di pubblica amministrazione, o ente pubblico; un significato che, per vero, non è mai divenuto netto e predefinito, ma ha sempre mantenuto una connotazione elastica o, come sostenuto da taluni, “a geometrie variabili”.

Ciò è certamente il frutto di un difetto di definizione di pubblica amministrazione, tanto nel diritto comunitario quanto nel diritto italiano, che ha condotto ad un’accezione più o meno ampia, ancorché non inequivoca, a seconda del contesto di riferimento.

Se da un lato l’art.45 comma 4 TFUE, limitatamente agli enti pubblici non economici, consente di subordinare l’accesso al pubblico impiego al requisito della “partecipazione alla funzione pubblica”, non può dirsi altrettanto per le procedure ad evidenza pubblica e per l’accesso, ove si è imposta una nozione ampia, atta a ricomprendere tutti quei soggetti che hanno carattere “sostanzialmente pubblicistico”.

È evidente che, mentre nel primo caso, l’eccezionale deroga al principio di libertà di stabilimento si lega a una nozione di p.a. che deve essere quanto più ristretta possibile, nel secondo caso, si è resa opportuna la massima estensione della trasparenza mediante una nozione lata di p.a.

È proprio nella nozione lata che devono essere ricompresi anche gli organismi di diritto pubblico.

Il primo ingresso della figura nel diritto comunitario si è avuta, invero, grazie alla Direttiva appalti del 1989, con la quale il legislatore europeo ha avvertito l’esigenza si affrancarsi da un’accezione formale di p.a., dando piuttosto rilievo al carattere sostanziale.

Secondo la nuova prospettiva non è la veste formale di ente privato a esonerarlo dalle procedure pubblicistiche, dovendosi piuttosto indagare la sua connotazione sostanziale, le peculiarità anche strutturali e genetiche che lo caratterizzano.

È essenziale partire dal presupposto che, nel nostro sistema, la veste privatistica non è incompatibile con l’esercizio dei pubblici poteri, ben potendo un ente pubblico costituirsi in forma societaria, ovvero partecipare a una società in qualità di socio, in conformità della disciplina dettata dal d.lgs.175/2016.

Dal punto di vista dogmatico si ammette, in via maggioritaria, che per le società di capitali sussista una “neutralità della partecipazione pubblica”, in forza della quale una società partecipata dall’ente pubblico non viene a perdere la sua essenza privatistica, neanche in punto di giurisdizione, che resta in capo al g.o.

Questo è confermato dalle tante norme che consentono alla p.a. di esercitare poteri privatistici, al pari di qualunque altro soggetto, così derogando al proprio carattere autoritativo: si guardi all’art.1 comma 1 bis L.241/90, all’art.1 comma 3 D.lgs.175/2016, ovvero all’art.2 comma 2 D.lgs.165/2001.

Senonché la scelta eccezionale della p.a. di agire iure privatorum, costituendo o partecipando a una società di capitali dalla natura geneticamente privatistica, non esime detta società da una possibile “equiparazione” legislativa all’ente pubblico limitatamente a determinati settori, estendendovi la corrispondente procedura.

Tale precisazione è importante in quanto, ciò che viene concepito come organismo di diritto pubblico, può avere l’essenza di una società di capitali di diritto privato la quale, per determinate caratteristiche, dovrà essere assoggettata al regime dell’equiparazione per ciò che concerne le procedure di gara, ai sensi dell’art.3 lettera d) d.lgs.50/2016.

Nel delimitare la figura di organismo la normativa comunitaria, sulla scia della sopra richiamata direttiva, ha posto l’accento sulla natura “sostanziale” di ente.

Si è in presenza di un organismo di diritto pubblico quando ricorrono cumulativamente le seguenti caratteristiche:

  • la personalità giuridica;
  • l’influenza pubblica dominante;
  • lo svolgimento di attività di carattere non industriale o commerciale.

L’influenza pubblica dominante è una caratteristica che la giurisprudenza comunitaria ha ulteriormente declinato secondo parametri che possono essere presenti in maniera disgiunta, quali il controllo finanziario, il potere di nomina e revoca degli amministratori e dei sindaci e il controllo pubblico sulla gestione.

Per ciò che concerne lo svolgimento di un’attiva “specificamente a carattere non industriale o commerciale” si invece vuole enfatizzare, tanto il carattere teleologico dello specifico perseguimento di un’attività di interesse generale o diffuso, quanto l’inattitudine del soggetto di operare secondo le logiche del mercato o della concorrenza.

Con il termine “specificamente” l’interpretazione più accreditata ha inteso, in particolare, che l’ente debba essere istituito ab origine per le finalità generali richieste dalla legge, ancorché non le svolga in maniera prevalente.

Pertanto se per una parte, anche minoritaria, l’ente possiede cumulativamente le caratteristiche essenziali, allora sarà equiparato, per quella parte, agli enti pubblici, in particolare con riguardo alle procedure di gara nella selezione del partener privato.

Sul carattere “non industriale o commerciale” dell’attività si evidenzia invece come il soggetto non è tenuto ad esporsi al rischio di impresa, lo Stato o altro ente pubblico provvedendo ad appianare le sue perdite in via sussidiaria.

Il concetto de quo, apparentemente di semplice decodificazione, necessita di essere meglio precisato alla luce dei più recenti orientamenti giurisprudenziali.

Si è sostenuto che la natura di organismo non è obliterata dal fatto che l’ente possa operare anche nel mercato concorrenziale e consegua una finalità di profitto, essendo il carattere concorrenziale indiziario di una finalità schiettamente economica, ma non decisivo.

Invero, un mercato concorrenziale sempre più complesso e articolato induce a un’ampia partecipazione anche di soggetti privati che, in quel settore, perseguono una propria finalità a carattere “industriale e commerciale”, ma allo stesso tempo potrebbero non essere in grado di soddisfare il bisogno generale.

In tale contesto può insinuarsi la struttura dell’organismo, la cui natura pubblicistica sarà individuata guardando piuttosto alla migliore capacità di soddisfacimento “generale” dei bisogni collettivi.

Alla luce delle presenti coordinate, dunque, l’organismo che possiede certi requisiti deve ritenersi assimilabile agli enti pubblici necessari, ciò non escludendo che esso possa svolgere in parte qua anche finalità diverse da quelle generali, a carattere imprenditoriale, i cui beni e servizi saranno destinati a un mercato vasto.

Limitatamente a dette attività l’ente assume quel carattere “industriale o commerciale” che ne preclude l’attrazione nella sfera di influenza pubblicistica di cui all’art.3 comma 1 lettera e) n.2.1 d.lgs.50/2016.

Questa prerogativa, ammessa dalla giurisprudenza, consente di affermare che un soggetto possa considerarsi solo in parte organismo di diritto pubblico, a prescindere dal fatto che l’attività prevalentemente svolta sia di carattere “schiettamente economico”.

Essendosi dunque appurato che l’organismo rientri tra i c.d. “enti aggiudicatori” secondo il “vincolo eteronomo” imposto dall’art.3 comma 1 lettera e) n.2.1 d.lgs.50/2016, ci si domanda cosa accade quando l’ente-organismo, pur sottraendosi alla procedura di gara perché operante secondo una finalità economica diversa da quella generale, scelga di assoggettarsi a un autovincolo.

L’organismo di diritto pubblico e il regime dell’autovincolo

Si deve innanzi tutto definire l’“autovincolo” come quella condotta non tipizzata dal d.lgs.50/2016 con cui un ente non soggetto alla procedura di evidenza pubblica, decida ugualmente di sottostarvi.

Mediante questa soluzione l’ente intraprende un’autonoma scelta di procedimentalizzazione perfettamente conforme con i principi di imparzialità e trasparenza, essa costituendo un quid pluris non richiesto, ma nemmeno vietato.

Onde evitare che l’autovincolo possa essere sovrapposto ad una mera “indagine di mercato”, la giurisprudenza l’ha inteso in termini di “gara ufficiosa”, il cui discrimen è dato dalla comparazione valutativa tra più offerte, da svolgere secondo i criteri della procedura ad evidenza pubblica, stabilendo ex ante e in modo dettagliato i criteri di valutazione.

Come osservato con riguardo agli elementi strutturali-sostanziali dell’organismo, questo, accanto al requisito teleologico dell’interesse generale, può perseguire finalità schiettamente economiche, rientranti nel c.d. interesse “industriale o commerciale”.

Per espletare dette attività, l’ente può scegliere di procedimentalizzare la selezione del contraente rinunciando alla libertà negoziale che in parte qua possiede.

Dal punto di vista sostanziale l’autovincolo partecipa della medesima natura giuridica del bando di gara di cui agli artt.71 ss. d.lgs.50/2016, il quale costituisce la lex specialis con cui la p.a. o l’ente aggiudicatore rende nota l’intenzione di stipulare un contratto, fissa le clausole concernenti i requisiti di partecipazione e delinea le modalità di svolgimento della gara.

Ancorché concepito in via maggioritaria come “atto amministrativo generale”, il bando rappresenta di fatto un regolamento normativo, per buona parte realizzato dagli aggiudicatori in conformità delle linee guida ANAC.

A esso l’ente si autovincola per tutta la fase pubblicistica, ovvero fintanto che non perviene all’individuazione del contraente con l’atto di aggiudicazione; in questo arco temporale non sono quindi ammissibili deroghe arbitrarie o disapplicazioni delle clausole da parte dell’amministrazione.

Il principio di inderogabilità trova applicazione anche nell’ipotesi oggetto di disamina, posto che l’ente-organismo, una volta scelto di procedimentalizzare la selezione, sarà tenuto ad attenersi alle prescrizioni della lex specialis.

Del pari, il bando non potrà essere, in corso di gara, oggetto di modifiche che ne alterano i requisiti sui quali è stata formulata l’offerta; né, secondo i fautori della natura pubblicistica, potranno essere apportate integrazioni negoziali intercorrenti tra l’ente e gli operatori economici, salvo intenderle come veri e propri accordi pubblicistici ex art.11 L.241/90.

Autovincolo e riparto di giurisdizione

È opportuno verificare se l’autovincolo costituisca motivo di alterazione nel naturale riparto di giurisdizione tra il g.o. e il g.a.

La norma di riferimento in punto di riparto è data dall’art.133 comma 1 lettera e) che attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie concernenti le procedure di affidamento di lavori, servizi e forniture svolte da soggetti tenuti nella scelta del contraente all’applicazione della normativa comunitaria, statale e regionale in materia di evidenza pubblica.

L’orientamento maggioritario sul punto converge verso una soluzione conservativa che concepisce la scelta quale frutto di un’autonomia negoziale, per nulla idonea ad incidere sul riparto di giurisdizione.

Questa soluzione può essere avvalorata anche dal dato letterale dell’art.133 comma 1 lettera e), ove fa riferimento ai c.d. “soggetti tenuti” a rispettare la procedura.

Il fatto che un ente, ancorché organismo, non agisca iure privatorum come dovrebbe, ma scelga piuttosto di autovincolarsi, non produce alcun effetto sul riparto di giurisdizione, che rimarrà incardinata presso il giudice ordinario.

Questa soluzione, secondo la giurisprudenza, deve ritenersi coerente con il principio di indisponibilità del riparto giurisdizionale, il quale sarebbe drasticamente condizionato se fosse subordinato alla libera iniziativa di una delle parti.

Si perviene alla medesima conclusione anche nel caso in cui l’organismo di diritto pubblico, in veste di “ente aggiudicatore”, decida di intraprendere una procedura semplificata “sotto-soglia”, che ad esempio ai sensi dell’art.36 comma 2 lettera a) è destinata a sfociare addirittura in un affidamento diretto. La norma fa salva, invero, la possibilità di ricorrere alle procedure ordinarie.

L’ente pubblico/organismo e il particolare regime dei contratti attivi, con particolare riguardo alla dismissione della partecipazione azionaria: la posizione del Consiglio di Stato

Non tutti i contratti a cui prende parte la p.a., l’ente pubblico o l’organismo comportano una spesa per le finanze pubbliche.

Nell’ambito della propria autonomia negoziale all’ente è consentito stipulare due tipologie di contratti: i contratti attivi e i contratti passivi.

Solo questi ultimi, distinti in appalti e concessioni, trovano il loro compendio nel nuovo “Codice dei contratti pubblici” d.lgs.50/2016 come riformato del d.lgs.56/2017, costituendo quelle ipotesi di negoziazione ove la p.a. subisce una depauperazione in favore della controparte.

I contratti attivi sono invece quei negozi grazie ai quali la p.a. acquisisce un’entrata e che, come le categorie specificamente indicate nell’art.4 d.lgs.50/2016, restano esclusi dalla disciplina settoriale del codice, mantenendo la loro base normativa nel R.D. 2440 del 1923 e 824 del 1924.

La circostanza che l’organismo stipuli un contratto attivo, quale ad esempio la vendita di un bene o di una partecipazione, non esime lo stesso di conformarsi al rispetto dei principi fondamentali enuncleati dall’art.4, in particolare economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza e pubblicità.

Ebbene, tra i vari contratti attivi che meritano particolare apprezzamento si può individuare la dismissione o vendita della quota azionaria detenuta dall’organismo-ente pubblico all’interno di un’altra società.

Come gli enti pubblici necessari, anche l’organismo, ancorché istituito in veste societaria, può detenere un pacchetto azionario in una società di capitali, la quale si dirà essere “partecipata”.

Ci si domanda se l’ente-organismo che intenda vendere la propria partecipazione debba soggiacere alle regole prescritte nell’art.4 d.lgs.50/2016, nonché alla normativa in materia di “contratti attivi”, ovvero se possa selezionare l’acquirente in via del tutto arbitraria, nel plenum della sua capacità di soggetto di diritto privato.

La scelta dell’ente di entrare a far parte di una società in veste di socio si compone di due fasi: una prima fase deliberativa, avente carattere pubblicistico, con cui l’autorità amministrativa di determina a costituire la società o acquistare la partecipazione e una fase privatistico-costitutiva con cui la nuova persona giuridica, distinta dal socio, viene ad esistere.

Proprio tale schermatura tra socio e società fa sì che l’ente pubblico, una volta assunta la qualità di socio, compia atti societari interamente soggetti alle regole di diritto commerciale.

Se così è, per quanto riguarda la costituzione della società, si può del pari affermare che la vendita della partecipazione, costituente un contratto attivo, rappresenti un contrarius actus eugualmente soggetto a una prima fase deliberativa e a una seconda fase contrattuale.

Il vulnus risiede semmai nei criteri di scelta dell’acquirente con cui l’organismo, nel caso di specie, stipulerà il contratto attivo, posto che, secondo la giurisprudenza più recente tale scelta non dovrà soggiacere alle regole procedurali sulla contabilità di Stato, di cui ai RR.DD. del 1923 e 1924.

A una prima fase amministrativa di determinazione alla vendita seguirà, invero, un’unica fase a carattere privatistico improntata sia alla scelta del contraente che alla negoziazione finale, senza passare per una selezione di stampo pubblicistico.

Questo triplice passaggio, ove sembrano non trovare spazio quei principi di trasparenza chiamati a governare l’immissione sul mercato dei beni c.d. appetibili, si affranca così dalle procedure pubblicistiche, anche minimali, circoscrivendo la giurisdizione in capo al giudice ordinario.

La giurisprudenza formatasi sul punto pone l’accento sulla connotazione prettamente privatistica della “scelta” che segue alla fase prodromica di determinazione a vendere e, dunque, sulla mancata riconducibilità della questione nell’alveo di competenza esclusiva del giudice amministrativo di cui all’art.133 CPA.

La ragione risiede nel fatto che la scelta di alienare assume i tratti di un diritto soggettivo che non viene inciso dall’esercizio di un potere autoritativo.

È interessante notare come la soluzione adottata dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato tenda a escludere, non solo la necessità di una conformazione a quei principi comunitari che impongono sempre un quid minumum di evidenza pubblica, ma anche l’applicazione delle norme sulla contabilità di Stato, a cui i contratti attivi sono soggetti.

Ciò può accadere quante volte l’ente pubblico, o l’organismo intenda estraniarsi dalla società partecipata, rispetto alla quale agisce in veste di socio privato, le cui scelte organizzative saranno assoggettate alla corrispondente disciplina, in virtù del già menzionato principio di “neutralità della partecipazione pubblica”.

Fatta salva la parentesi societaria, i contratti attivi, come affermato, devono comunque rispettare un minimo di procedimentalizzazione pubblica, onde garantire i principi puntualmente espressi nell’art.4 del Codice dei contratti pubblici.

La ragione è insita nel fatto che le alienazioni, le aste, le locazioni e tutti i contratti attivi che rendono un profitto all’ente pubblico, vanno sempre a immettere nel mercato un bene economicamente contendibile, per il quale l’individuazione dell’acquirente non può avvenire nel plenum dell’autonomia negoziale e in condizioni discriminatorie.

Allo scopo, la giurisprudenza comunitaria si è preoccupata di imporre agli enti che agiscono iure privatorum il rispetto dei principi generali, anche al di fuori dei contratti di “spesa” aventi ad oggetto lavori, servizi o forniture.

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Dott.ssa Angela Marinangeli

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