La ritenuta fiscale sul giusto indennizzo: profili comunitari

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Il caso e  la decisione della Commissione Provinciale di Catania[1]

Il caso affrontato nella sentenza in rassegna trae origine dal ricorso presentato da alcuni espropriati avverso il silenzio rifiuto dell’Agenzia delle Entrate di Catania sull’istanza di rimborso della ritenuta del 20% IRPEF, trattenuta dall’IACP di Siracusa in sede di liquidazione dell’indennità di espropriazione percepita dai ricorrenti[2].

Pur non contestando la legittimità della ritenuta fiscale del 20%, i ricorrenti lamentano di non aver ricevuto il “giusto indennizzo espropriativo”, rappresentato dal valore di mercato dell’immobile.

A tal fine, eccepiscono il conflitto tra la norma nazionale (art. 11 della L. n. 413/1991) e quella comunitaria (art. 1 Prot. 1 C.E.D.U.)[3]  ed invocano il potere del giudice nazionale di disapplicare la norma interna confliggente con quella europea. In secondo luogo, rilevano che: 1) l’indennizzo percepito non integra né “reddito imponibile” né “plusvalenza” (ex art. 67, c.1,, lett. b, D.P.R. n. 917/86),  ma costituisce una forma di ristoro del pregiudizio subito non tassabile; 2) nel caso di specie, si è innanzi ad una ipotesi di “occupazione usurpativa”, come tale non costituente plusvalenza tassabile; 3) la ritenuta deve essere applicata, in ogni caso, non sull’intera somma percepita, ma sulla differenza tra l’indennità corrisposta e il valore di terreno, ossia solo sulla plusvalenza.

L’Agenzia delle Entrate contesta integralmente.

La Commissione Provinciale di Catania rigetta il ricorso in linea con la giurisprudenza di legittimità, che sembrerebbe in tal modo confermare la legittimità dell’operato dell’IACP.

 

 

 

Introduzione

L’art. 11 della L. 30 dicembre 1991, n. 413, confluito nell’art. 35 del D.P.R. 8/06/2001, n. 327, stabilisce la tassazione delle somme percepite a titolo di indennità di esproprio (o di cessione volontaria) a seguito del procedimento espropriativo.

Il disposto normativo ha così incluso tra i “redditi diversi”, di cui all’art. 81 del DPR 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi), le plusvalenze c.d. “da esproprio”, sottoponendole ad un’imposta del 20 per cento sull’indennità liquidata all’espropriato, applicata/ritenuta dall’ente espropriante in qualità di sostituto d’imposta al momento del pagamento dell’indennizzo.

La misura dell’indennità espropriativa è identificata, in linea generale ex art. 37 del D.P.R. 8/06/2001, n. 327,  con il valore venale del bene espropriato.

Invero, nella realtà espropriativa odierna tale corrispondenza non può dirsi esistente, poiché è alquanto complesso distinguere tra il prelievo coattivo eseguito a titolo di espropriazione per pubblica utilità e quello di natura tributaria[4], con il rischio  che il proprietario espropriato finirà per subire uno spossessamento del proprio patrimonio non neutralizzato da alcun “giusto indennizzo” a titolo di corrispettivo[5].

Ci si chiede, allora, se l’indennità di occupazione decurtata dalla ritenuta fiscale da accordare al proprietario espropriato in misura non corrispondente  al “giusto indennizzo”, possa dirsi legittima anche alla luce della normativa comunitaria e delle prese di posizione della CEDU sul tema[6].

 

 

 

 

  1. 1.      L’inquadramento normativo

 Il quadro normativo previsto per le plusvalenze che presentano siffatte peculiarità si prospetta in questi termini: ai sensi del comma 5 dell’art. 11 cit. sono assoggettate a tassazione le plusvalenze conseguenti alla percezione, da parte di soggetti che non esercitano imprese commerciali, di somme a titolo di indennità di esproprio o di cessione volontaria nel corso del procedimento espropriativo, nonché di somme comunque dovute per effetto di acquisizione coattiva conseguente ad occupazioni di urgenza divenute illegittime; il comma 6 stabilisce, altresì, che costituiscono reddito imponibile e concorrono alla formazione dei redditi diversi di cui all’ art. 67 del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, le somme percepite a titolo di indennità di occupazione, diverse da quelle sopra considerate e gli interessi comunque dovuti su tutte le somme in questione; il comma 7, infine, che gli enti eroganti tali somme dovute a titolo di indennità devono operare una ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento, ma resta tuttavia in facoltà del contribuente optare, in sede di dichiarazione annuale dei redditi, per la tassazione ordinaria; in questo caso la ritenuta si considera effettuata a titolo di acconto.

L’art. 37 del DPR n. 327/2001 ha sostanzialmente confermato i criteri di determinazione dell’indennità di esproprio dei terreni edificabili introdotti dall’art. 5 bis della legge n. 359/1992 e l’art. 35 ha ribadito la soggezione ad imposta dell’indennizzo, mentre l’art. 36 del DPR n. 327/2001 stabilisce che, in caso di espropriazione di terreni destinati ad opere private di pubblica utilità (che non consistano in abitazioni rientranti nell’ambito dell’edilizia residenziale pubblica) l’indennizzo deve corrispondere al valore di mercato del bene.

  1. 2.      L’espropriazione per pubblica utilità e il giusto indennizzo

L’espropriazione è l’istituto di diritto pubblico in base al quale un soggetto, previa corresponsione di una giusta indennità, può essere privato, in tutto o in parte, di uno o più beni immobili di sua proprietà per una causa di pubblico interesse legalmente dichiarata (opere pubbliche o di pubblica utilità), e mediante un atto autoritativo (decreto di esproprio) o un contratto privatistico (cessione volontaria) (ex art. 834 c.c.) [7].

Tale procedura si svolge attraverso una serie coordinata di fasi –  per così dire – a formazione progressiva[8], tra le quali acquista importanza il momento di quantificazione dell’indennizzo espropriativo[9].

Il criterio indennitario oggi esistente segue regole diverse in dipendenza della natura e destinazione dell’area da espropriare, ma la necessità comunemente avvertita nella realtà espropriativa è quella di garantire la serietà dell’indennizzo espropriativo. Tale esigenza, tuttavia, non può dirsi realizzata.

 Ed infatti, attraverso il meccanismo della tassazione della plusvalenza si incide sul valore concretamente percepito dall’espropriato, diminuendo in modo significativo la misura, già ridotta, dell’indennizzo. Il risultato di questo meccanismo –  punctum dolens della procedura de quo – è ovviamente percepito con sfavore dal proprietario, che otterrà una somma a titolo di indennità di esproprio, talmente ridotta dal valore venale del bene, da apparire meramente simbolica [10].

Davanti ad una tale conclusione non stupisce affatto, quindi, che la tassazione dell’indennità di esproprio  – con il meccanismo della “ritenuta a titolo di imposta nella misura del 20 per cento”, operata dall’espropriante al momento della corresponsione dell’indennizzo all’espropriato-  sia stata considerata una forma di ulteriore espropriazione, “una sorta di espropriazione di secondo grado” in contrasto con l’art. 42 Cost.[11]

  1. 3.      Il rapporto tra la normativa CEDU e le norme nazionali; il ruolo della Corte Europea

Il tema ha una portata certamente più ampia, coinvolgendo il profilo del rapporto tra la CEDU e le disposizioni nazionali in materia di tassazione delle plusvalenze derivanti da procedimenti espropriativi; nonché il ruolo della Corte Europea[12].

Com’è noto, in presenza di un’antinomia tra una disposizione della Convenzione e una norma di diritto interno, il giudice comune è obbligato a risolvere il contrasto, in primis, per via interpretativa (c.d. interpretazione «convenzionalmente orientata»[13]) e, laddove non risulti possibile, a promuovere un incidente di legittimità dinanzi alla Corte costituzionale, la quale utilizzerà la Convenzione alla stregua di parametro interposto nel giudizio di costituzionalità[14].

L’importanza della c.d. interpretazione convenzionalmente orientata è un punto decisivo, atteso che nei casi in cui siffatta operazione ermeneutica risulti esperibile, la conformità del diritto nazionale alla CEDU potrà essere assicurata direttamente dai giudici comuni[15].

Tuttavia, non può trascurarsi neppure il ruolo che assume la Corte EDU.

A tal proposito, la giurisprudenza della Corte europea valuta la legittimità delle misure limitative del diritto di proprietà alla stregua sia dei principio di non discriminazione e di proporzionalità, sia dei “principi generali del diritto internazionale”, quest’ultima, con riferimento alle misure espropriative della proprietà, è generalmente riferita all’obbligo degli Stati di erogare un indennizzo a fronte di provvedimenti di espropriazione[16].

In questo senso, per ciò che concerne il regime impositivo delle plusvalenze derivanti da procedimenti espropriativi, l’imposizione tributaria risulta compatibile con l’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale alla CEDU[17] nella misura in cui risponde ad un interesse generale, sia prevista dalla legge, sia conforme ai principi del diritto internazionale, rispetti un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gli imperativi e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo l’interesse generale tutelato e il diritto dei singoli inciso e sia conforme al principio di non discriminazione[18].

Conclusioni e alcuni spunti di riflessione 

La sentenza in commento offe lo spunto per la riapertura di diverse tematiche[19].

In primo luogo, il contrasto tra l’art. 11 della l. n. 413 del 1991 e l’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale non discende, a ben vedere, dal contenuto precettivo della disposizione nazionale, bensì dalle peculiari vicende nell’ambito delle quali la norma de qua è stata applicata[20].

In secondo luogo, dal punto di vista dei rapporti tra CEDU e diritto interno, appaiono legittime le censure del ricorrente sulle cause effettive della lamentata alterazione del «giusto equilibrio» tra imposizione fiscale e diritto di proprietà[21]: in tali casi, l’organo giudicante può promuovere un incidente di legittimità costituzionale della disposizione applicata (art. 11 della l. n. 413 del 1991) per contrasto con l’art. 117, 1° comma, Cost. in relazione alla violazione del parametro interposto rappresentato dall’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale della CEDU.

Per altro verso, ai fini di un’eventuale successiva azione dinanzi alla Corte Europea, occorre considerare che il ricorso è, in tale sede, condizionato al previo esperimento di «tutti i ricorsi offerti dalla legislazione nazionale, accessibili e suscettibili di fornire un mezzo efficace e sufficiente a riparare le doglianze di cui lo Stato convenuto è ritenuto come responsabile»[22].

La soluzione ultima ovviamente non è immune da rischi: ed infatti, sotto tale profilo è bene tenere presente che, nella prospettiva della Corte Europea, l’applicazione di una medesima disposizione di legge può risultare – a seconda delle peculiarità delle diverse vicende di causa – talora incompatibile con la normativa CEDU e talora pienamente legittima[23], in quanto la Corte opera una valutazione in concreto delle caratteristiche del caso di specie, al fine di determinare se, nelle singole vicende considerate, siano stati pienamente rispettati i diritti riconosciuti dalla Convenzione[24].

Tuttavia non si può sottacere un dato essenziale: nei casi come quello in esame, in cui sembrerebbe esistere un orientamento comunitario in materia[25], consentire ai giudici nazionali di disapplicare le disposizioni nazionali incompatibili con la CEDU – al pari di quanto avviene per la soluzione delle antinomie tra diritto interno e diritto UE – conferirebbe (come è stato rilevato da molti) al sistema una flessibilità, che permetterebbe di risolvere rapidamente quelle problematiche più note e per le quali la Corte europea sembrerebbe avere preso posizione[26].

 


[1] La si legga in: http://www.servizieconsulenzasrl.it/

[2] L’IACP era stata condannata, con sentenza del CGA di Palermo, n. 504-2013, a corrispondere a favore dei ricorrenti una somma a titolo di indennità espropriativa del fondo, che tuttavia veniva corrisposta al netto della ritenuta fiscale.

[3] Richiamando, altresì, la numerosa giurisprudenza CEDU in materia.

[4] La misura attuale dell’indennità di espropriazione è regolata dal DPR n. 327/2001 (T.U. in materia di espropriazione per pubblica utilità), entrato in vigore il 30/06/2003, che, nell’attribuzione dell’indennizzo, fa esplicito riferimento al valore venale del bene, ma con delle deroghe concernenti le aree fabbricabili. Ed infatti, in base all’art. 37 T.U., il proprietario del terreno edificabile che ne subisce l’espropriazione, percepisce, a titolo di indennizzo una somma che oscilla tra il 30 e il 50% del valore di mercato del bene.

[5]  Per una trattazione del problema, F. Caringella, L’indennita di esproprio sotto i riflettori della Corte Costituzionale, Urb. App. , 1997, 7-20; A. Pubosa, Il ristoro è «serio» quando lo dice la CorteLe Regioni,  1994, 567 ss., F.G. Scoca, L’indennizzo seriamente irrisorio, Riv. dir. amm., 1994, 437 ss.

[6] Il problema della determinazione dell’indennizzo come serio ristoro, ovvero come integrale riparazione per l’espropriazione, ha risvolti di non poco conto e, non a caso, costituisce uno dei punti di maggior dibattito nei rapporti tra cittadino e P.A.

[7] Tale definizione è il linea sia con l’art. 42 Cost., a norma del quale la proprietà privata può essere espropriata per motivi di interesse generale, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, sia con l’art. 1 del protocollo n. 1 della CEDU, secondo il quale lo Stato, tramite l’espropriazione, consegue coattivamente un’entrata, acquistando la proprietà di un bene in natura, controbilanciando l’operazione con la corresponsione di un equo corrispettivo a favore del proprietario espropriato. Per una definizione calzante di espropriazione, si veda F. Caringella, G. De Marzo, R. De Nictolis, L. Maruotti, Il nuovo diritto amministrativo, Milano, 2007, 5 (Commento di R. De Nictolis).

[8] La procedura espropriativa si scinde in una serie ben precisa di fasi che trovano la loro disciplina nella L. 22 ottobre 1971 n. 865. Significativo è il momento esatto della conclusione dell’iter, che coincide con il pagamento dell’indennità espropriativa, sulla quale verrà operata la ritenuta a titolo d’imposta. Con il pagamento, quindi, l’atto di cessione può dirsi perfezionato e ha inizio il momento impositivo. Si legge in F. Caringella, G. De Marzo,  R. De Nictolis, L. Maruotti, Il nuovo diritto amministrativo, Milano, 2007, 490 (Commento di F. Caringella), «se l’espropriazione tutela il difficile equilibrio tra poteri pubblici e interessi privati, l’indennizzo dovrebbe costituire l’elemento risolutore del contrasto». Si legge in G. Cerisano, La procedura di espropriazione per pubblica utilità, Padova, 2008, 129 ss, che i principi generali in tema di determinazione indennitaria radicati nell’impianto normativo, anche per effetto degli interventi della Corte Costituzionale, devono essere ravvisati nelle circostanze che:1) non esiste un precetto costituzionale secondo il quale l’indennità debba necessariamente ristorare integralmente il proprietario per la perdita subita; 2) l’indennizzo deve essere determinato, non sulla base di valutazioni astratte, ma tenendo conto della reale connotazione e rilevanza economica del bene; 3) la stima del bene deve essere riferita al momento temporale in cui si svolge il procedimento di espropriazione.

[9] I criteri stabiliti nel tempo dal legislatore a titolo di indennità sono stati spesso dichiarati incostituzionali oppure sono stati percepiti come incompleti. Per un rapido excursus sulla materia si veda, S. De Santis e S. D’Angelo, La misura del giusto indennizzo, Cooperative e Consorzi, n. 6 del 2009, nota 1.

[10] La riduzione, infatti, si attesta a valori prossimi al 25 ed al 42 per cento ­ in caso di cessione volontaria ­ del valore venale del bene

[11] Si legge in G. Bergonzioni, Indennità di espropriazione, diritto di proprietà e dovere inderogabile di solidarietà, Riv. dir. trib., 12, 2004, 718 ss. La natura sostanzialmente contributiva dell’espropriazione emerge quando l’indennità viene determinata in una misura inferiore al valore che il bene espropriato avrebbe in una libera contrattazione. All’espropriato viene sottratta una parte del valore economico del bene, tanto maggiore quanto minore è la misura dell’indennità di espropriazione rispetto al valore venale del terreno. Il vantaggio per l’amministrazione è dunque duplice: acquista coattivamente un bene immobile, e lo paga meno di quanto dovrebbe.

[12] Con riferimento alla tutela del diritto di proprietà nel diritto dell’Unione europea, si veda L. Schiano di Pepe, La proprietà nella convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e nel diritto dell’Unione europea, in G. Visintini (a cura di) Trattato di diritto immobiliare, 259 e ss

[13] P. Ivaldi, L’adattamento al diritto internazionale cit., 158.  Non si trascuri, tuttavia, che Il principio di legalità impone che – nell’ambito di tale operazione – l’interprete si mantenga nell’ambito dei significati ammissibili alla luce della formulazione della norma, non essendo consentito pervenire ad interpretazioni contra legem

[14] Nel caso Di Belmonte c. Italia, 16 marzo 2010, la Corte osserva che «la CEDU è una delle principali fonti di diritto internazionale di fonte pattizia e, in caso di contrasto non sanabile da una interpretazione conforme delle norme nazionali, la Corte Costituzionale costituisce parametro interposto di legittimità costituzionale delle leggi, da sottoporre al previo riscontro di conformità con la Costituzione». In tal modo la Corte è giunta più volte a ritenere che l’antinomia tra il diritto interno e le disposizioni della CEDU, sulla scorta degli ormai consolidati principi che disciplinano i rapporti tra le fonti in questione, necessità di un incidente di legittimità costituzionale soltanto ove non sia possibile addivenire ad un’interpretazione della normativa nazionale c.d. convenzionalmente orientata. Per un’ampia disamina dei margini di applicabilità della CEDU in ambito tributario, cfr. S. Marchese, Diritti fondamentali europei e diritto tributario dopo il trattato di Lisbonaretro, 2012, I, 241 e ss. Sul punto si veda, altresì, S. Carrea, “Diritto e Pratica Tributaria” n. 2 del 2014, pag. 20199. Tale articolazione dei rapporti tra convenzioni internazionali e diritto interno è stata affermata dalla Corte costituzionale. Per una analisi della giurisprudenza costituzionale in materia, si veda S. Carrea, cit.; R. Conti, Cedu, Costituzione e diritti fondamentali: una partita da giocare alla pari,in R. Foglia – R. Cosio (a cura di), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Milano, 2013, 165 e ss.

[15] L’interpretazione conforme può essere definita come l’operazione attraverso la quale il giudice sceglie – tra i possibili significati legittimamente attribuibili ad una disposizione di diritto interno – l’ermeneutica della stessa che meglio realizza gli obiettivi della norma sovraordinata. Sulla nozione di interpretazione conforme si veda, in particolare, V. Piccone, L’interpretazione conforme nell’ordinamento integrato, in R. Foglia – R. Cosio (a cura di), Il diritto europeo nel dialogo delle Corti, Milano,2013, 277 e ss.

[16] Per un approfondimento sul punto, si veda M. L. Padelletti, Espropriazione e indennizzo nella Convenzione europea dei diritti dell’Uomo e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Studi senesi, 2003, 278 ess.; A. Saccucci, Indennità di esproprio e obblighi internazionali dopo le sentenze della Corte costituzionale, in Rivista di diritto internazionale, 2008, 143 e ss.; S. Mirate, CEDU, parametro di costituzionalità per l’indennità di esproprio e risarcimento danni da occupazione acquisitiva, in Urbanistica e appalti, 2008, 163 e ss.; M. Trimarchi, Proprietà e indennità di espropriazione, in Europa e diritto privato, 2009, 1021 e ss

[17] L’art. 1 del Primo Protocollo – dopo aver enunciato il principio generale secondo cui «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni» – ammette che taluno possa essere «privato della sua proprietà (…) per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale». Il secondo paragrafo, invece, fa salvo il «diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende». 

[18] Nel caso “Di Belmonte”, in cui il ricorrente lamentava, tra l’altro, la contrarietà della tassazione applicata rispetto all’art. 1 del Primo Protocollo Addizionale alla CEDU, la Corte europea ha ritenuto che l’illegittimità del prelievo discende dalla considerazione secondo cui, nelle circostanze concrete della vicenda analizzata, l’applicazione dell’art. 11 della l. n. 413 del 1991 ha infranto «il giusto equilibrio che deve sussistere fra le esigenze dell’interesse generale e la salvaguardia dei diritti fondamentali dell’individuo».

[19] Con il presente lavoro si offrono solo alcuni spunti di riflessione che tuttavia, lungi dal fornire soluzioni definitive, richiederebbero maggiori approfondimenti  per tentare, quantomeno, di affrontare compiutamente le complesse e dibattute tematiche, ancora foriere di dubbi ed incertezze, non solo per la migliore dottrina, ma anche per la giurisprudenza. Il rinvio, quindi, va agli autori indicati nelle note precedenti e alle posizioni giurisprudenziali più recenti.

[20] Si veda G. Parodi, Le sentenze della Corte EDU come fonte di diritto cit., 1750

[21] Peraltro, nei casi in cui – come nella vicenda esaminata – la violazione dei diritti CEDU non deriva in astratto dalla formulazione delle norme interne, bensì dalle concrete modalità della loro applicazione ad opera delle autorità nazionali, l’instaurazione di un’azione risarcitoria nei confronti dell’autorità responsabile della violazione (eventualmente anche «in seconda battuta», in caso di esito negativo del contenzioso tributario) può risultare opportuna per il contribuente.

[22] L’art. 35, par. 1, della CEDU dispone, infatti,che «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti». È, peraltro, d’uopo sottolineare, a tale riguardo, come nell’ambito dei ricorsi al cui previo esaurimento è condizionato l’accesso alla Corte EDU si annoverino esclusivamente i rimedi «accessibili e suscettibili di fornire un mezzo efficace e sufficiente a riparare le doglianze di cui lo Stato è ritenuto responsabile» (cfr. M. de Salvia, Esaurimento delle vie di ricorso interne, 34-35). Si veda, sul punto, anche A. Di Stefano, Convenzione europea dei diritti dell’uomo e principio di sussidiarietà, Ed. it., Catania, 2009, 159 e ss.

[23] Da tale circostanza si evince la limitata portata dei precedenti della Corte EDU, nonché l’importanza di valutarne con estrema attenzione la rilevanza, avendo riguardo alle concrete caratteristiche della fattispecie di volta in volta considerata.

[24] In particolare, in dottrina è stato osservato che mentre «per la Corte EDU (…) il caso è l’unica direzione di senso del dictum» e «la decisione, strettamente calibrata sulle vicende della fattispecie concreta, non aspira a definire massime di giudizio in definitamente valide pro futuro e, pertanto, è generalmente non universalizzabile perché frutto di “sincretismo pragmatico”» (cfr. F. Gallo, Rapporti fra Corte costituzionale e Corte EDU, Relazione Bruxelles 24 maggio2012).

[25] Il rinvio va, ad esempio, alla soluzione del caso Di Belmonte c. Italia, 16 marzo 2010, nonché alla decisioni comunitarie  in materia ben rappresentate nella sentenza che si commenta e a cui rinviavano i ricorrenti.

[26] Anche se la Corte Costituzionale ha, di recente, negato con fermezza la possibilità di far luogo ad una «disapplicazione» del diritto interno per contrasto con la CEDU, escludendo, in particolare, che tale facoltà possa discendere dalla previsione dell’adesione dell’UE alla CEDU inserita dal Trattato di Lisbona all’art. 6 del TUE (cfr. Corte cost., 11 marzo 2011, n. 80, punto 5 in diritto).

Sentenza collegata

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Avv. Nicotra Antonio

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