La rilevanza fiscale e previdenziale delle competenze liquidate dal giudice all’avvocato difensore di se stesso.

Redazione 02/10/00
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di Adriano Carmelo Franco

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L’art. 86 del codice di procedura civile stabilisce che “la parte o la persona che la rappresenta o assiste, quando ha la qualità necessaria per esercitare l’ufficio di difensore con procura presso il giudice adito, può stare in giudizio senza il ministero di altro difensore”.

La norma contenuta nell’art. 86 c.p.c. conferisce all’avvocato il potere di difendere se stesso nel corso di un processo civile, con la conseguenza che allo stesso spettano gli onorari per l’attività difensiva svolta (Cass., 24 gennaio 1994, n. 691).

La problematica relativa all’applicabilità del principio di autodifesa dell’avvocato nel processo esula dalle finalità del presente articolo; nondimeno, al fine di sottolinearne la rilevanza al di fuori del giudizio civile, appare opportuno rammentare, a titolo esemplificativo, che la regola dell’autodifesa è espressamente prevista nel processo innanzi alle Commissioni Tributarie dall’art. 12, comma 6, D.lgs. 31.12.92, n. 546, con la quale norma, precisa la Circolare ministeriale 23.4.96, n. 98/E, “non si è fatto altro che rendere operante anche all’interno del processo tributario una regola già codificata in ordine alla c.d. difesa personale della parte, dall’art. 86 c.p.c.”.

La circostanza che un giudice, all’esito di un processo, condanni il soccombente alla rifusione delle spese, dei diritti e degli onorari alla controparte, che sia avvocato e che, nel corso del processo medesimo, abbia difeso se stesso, pone il problema della rilevanza fiscale e previdenziale dell’importo liquidato, a tal fine, dal giudice all’avvocato. In particolare, in via di prima approssimazione, ci si chiede se detto importo costituisca la base imponibile dell’imposta sul valore aggiunto (IVA) e dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF).

Al quesito posto deve darsi risposta negativa, nel senso che esso non è soggetto alle imposte suindicate.

In ordine alla non imponibilità dell’importo de quo ai fini IVA (con esclusione, altresì, dell’obbligo di fatturazione dello stesso), si osserva quanto segue.

L’art. 3 del D.P.R. 26.10.72, n. 633, comma 3, stabilisce che “le prestazioni indicate nei commi primo e secondo [tra le quali rientrano le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio delle professioni], … costituiscono … prestazioni di servizi anche se effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa …”.

Dal tenore letterale della norma riportata risulta, argomentando a contrario, che sono prestazioni di servizi solo quelle “effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore, ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio dell’impresa …”, mentre non sono prestazioni di servizi, rilevanti ai fini IVA, quelle effettuate per l’uso personale o familiare del lavoratore autonomo (e, quindi, dell’avvocato), ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio della professione.

Il risultato dell’interpretazione letterale della norma è avvalorato dall’interpretazione storica della stessa. Infatti, l’art. 16-bis, d.l. 23/2/95, n. 41, conv. nella legge 22/3/95, n. 85, aveva aggiunto al suddetto art. 3 il seguente periodo: “costituiscono prestazioni di servizio a titolo oneroso quelle effettuate per l’uso personale o familiare dell’imprenditore o di coloro i quali esercitano un’arte o una professione o per altre finalità estranee all’impresa o all’esercizio dell’arte o della professione”. Questo periodo, però, è stato sostituito dall’art. 4, c. 1, d.l. 2/10/95, n. 415, conv. nella legge 29/11/95, n. 507 e, successivamente, dall’art. 14, c. 1, d.lgs. 4/12/97, n. 460, il quale non ha sottoposto alla disciplina delle prestazioni di servizi rilevanti ai fini IVA quelle effettuate per l’uso personale o familiare di coloro i quali esercitano un’arte o una professione o per altre finalità estranee all’esercizio delle medesime.

Dalla modifica del citato art. 16-bis si evince che il legislatore ha inequivocabilmente inteso sottrarre alla disciplina delle prestazioni di servizi ex art. 3 D.P.R. 633/72 le prestazioni effettuate per l’uso personale o familiare del lavoratore autonomo ovvero a titolo gratuito per altre finalità estranee all’esercizio della professione, sancendo, pertanto, il principio della non imponibilità dell’attività di “autoconsumo” del professionista.

L’interpretazione sistematica dell’art. 3, D.P.R. 633/72, alla luce del disposto di cui all’art. 18, comma primo, del medesimo decreto, conferma il risultato del procedimento ermeneutico, lessicale e storico, su delineato.

L’art. 18, comma primo, in questione, dispone, infatti, che “il soggetto che effettua la cessione di beni o prestazione di servizi imponibile deve addebitare la relativa imposta, a titolo di rivalsa, al cessionario o al committente”

In base alla norma riportata, l’avvocato deve addebitare l’IVA al committente della prestazione, ossia al cliente, anche se il corrispettivo della medesima venga versato da un terzo

L’obbligo del professionista di addebitare l’IVA al committente, cioè al cliente, risulta esplicitamente dalla Circolare ministeriale “Min. Fin. Dip. Ent. Dir. Centr. Affari Giuridici e contenzioso tributario 6.12.94 n. 203/E/III-7-1260”, la quale precisa che “il soggetto passivo della rivalsa, ex art. 18 del D.P.R. n. 633 del 26.10.1972, resta, comunque, il cliente, nei confronti del quale va emessa, da parte del professionista, la relativa fattura”.

Dall’art. 18 cit., come puntualmente interpretato dalla menzionata circolare, discende che l’avvocato non può addebitare l’IVA, né, quindi, rilasciare la fattura, al soccombente in giudizio, atteso che questi è terzo rispetto al rapporto “professionista/cliente”, ossia al rapporto tra il soggetto che deve emettere la fattura ed il soggetto nei cui confronti essa deve essere rilasciata.

Nel caso dell’avvocato che difende se stesso, però, le due figure del professionista e del cliente sono riunite nella stessa persona, onde l’avvocato dovrebbe rilasciare la fattura a se stesso, il che, tuttavia, in base alle considerazioni svolte, deve escludersi, giacché “la prestazione [professionale] a se stessi è per sua natura gratuita”, come testualmente risulta dalla risposta ad interpello prot. FGE n. 40208/2003, fornita, in data 5.5.03, dalla Direzione Regionale del Lazio-Fiscalità Generale.

Dal combinato disposto di cui agli articoli 3 e 18 del D.P.R. 633/72 discende, quindi, che la prestazione svolta dall’avvocato a favore di se stesso, essendo, per sua natura gratuita, non costituisce prestazione di servizi rilevante ai sensi del D.P.R. 633/72, con la conseguenza che il compenso per la stessa, liquidato dal giudice, non rientra nella base imponibile dell’IVA, né deve essere fatturato.
In merito alla non imponibilità ai fini IRPEF dell’importo liquidato dal giudice, a titolo di diritti, onorari e spese, all’avvocato che sia risultato vittorioso in un processo in cui ha difeso se stesso, si espone quanto segue.

L’art. 50, D.P.R. 22.12.86, n. 917, dispone che “il reddito derivante dall’esercizio di arti e professioni è costituito dalla differenza tra l’ammontare dei compensi in denaro o in natura percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di partecipazione agli utili, e quello delle spese sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione …”.

L’importo corrisposto dalla parte soccombente alla controparte vittoriosa, che rivesta la qualità di avvocato, non costituisce, però, un compenso derivante dall’esercizio della professione, bensì “il mero ritorno delle spese processuali dovute dalla parte vincente al proprio legale; ma poiché nel caso di specie esse sono la stessa persona, nessun compenso di carattere professionale può propriamente dirsi corrisposto [dalla parte] e percepito [dall’avvocato]” (risposta ad interpello, prot. FGE n. 40208/2003, cit.).

Deve, pertanto, ritenersi, con la Direzione Regionale delle Entrate del Lazio, che “gl’importi in questione non siano imponibili nemmeno ai fini IRPEF (e, questo, anche per considerazioni di simmetria esegetica con quanto accade ai fini IVA), né sotto il profilo di compensi di lavoro autonomo, né sotto il profilo di altro tipo di reddito”. “Ed invero, in base all’art. 6, comma 2 del Decreto del Presidente della Repubblica 917/86, sono tassabili solo i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessioni dei relativi crediti, e le indennità conseguite, anche in forma assicurativa, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, che costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti; nella fattispecie, invece, i pagamenti in questione non sono stati corrisposti in sostituzione di redditi, ovvero per la perdita di redditi, bensì soltanto per compensare le spese che l’assistito vittorioso deve sostenere per il suo legale”. “Nel caso de quo, invero, tali spese non sono state effettivamente sostenute solo per il fatto della coincidenza dei due soggetti; ma il loro ripianamento, appunto, va, secondo la scrivente [Direzione Regionale] imputato al risarcimento dell’onere e dell’impegno personale a cui il soggetto è stato costretto, per la necessità dell’autodifesa (la quale, di per sé, resta gratuita” (risposta ad interpello, prot. FGE n. 40208/2003, cit.).

Per mero tuziorismo, si precisa che l’importo corrisposto all’avvocato vittorioso, difensore di se stesso, non è sussumibile neppure nella categoria dei redditi diversi di cui all’art. 81 del D.P.R. 22.12.86 n. 917, stante la natura tassativa della loro elencazione, nella quale non rientra l’importo de quo.

Dalle considerazioni svolte, discende, altresì, che l’importo in esame non è assoggettato ad alcun tributo o contributo la cui base imponibile sia comune a quella dell’IVA e/o dell’IRPEF. A titolo esemplificativo, deve ritenersi che detto importo non sia imponibile ai fini:
– del contributo integrativo di cui all’art. 11 della legge 20.09.80, n. 586, che gli avvocati debbono corrispondere alla Cassa di Previdenza ed Assistenza Forense, nella misura del 2% dei corrispettivi rientranti nel volume d’affari ai fini IVA (contributo che, dal 24.2.95, concorre a formare la base imponibile IVA, ex art. 16, D.L. 23.2.95, n. 41, conv., con modificazioni, nella L. 22.3.95, n. 85);
– del contributo soggettivo di cui all’art. 10 della legge 20.09.80, n. 586, che gli avvocati iscritti alla Cassa di Previdenza ed Assistenza Forense debbono corrispondere alla stessa in percentuale sul reddito professionale netto da essi percepito;
– del contributo previdenziale di cui all’art. 2, comma 29, della L. 8.8.95, n. 335, che gli avvocati non iscritti alla suddetta Cassa debbono versare alla gestione separata dell’Istituto Nazionale di Previdenza ed Assistenza Sociale (INPS), prevista dall’art. 2, cit., comma 26, in percentuale sul loro reddito professionale determinato ai fini dell’IRPEF.

E’, altresì, evidente che l’importo liquidato dal giudice all’avvocato che sia parte vittoriosa, non è soggetto neppure alla ritenuta d’acconto di cui all’art. 25 D.P.R. 29/09/73, n. 600, il quale, al comma 1, stabilisce che “i soggetti indicati nel primo comma dell’articolo 23 [dello stesso D.P.R., tra i quali rientra, ad esempio, il condominio quale sostituto d’imposta], che corrispondono a soggetti residenti nel territorio dello Stato compensi comunque denominati, anche sotto forma di partecipazione agli utili, per prestazioni di lavoro autonomo, … devono operare all’atto del pagamento una ritenuta del 20 per cento a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche dovuta dai percipienti, con obbligo di rivalsa…”.

La ritenuta verrebbe, infatti, operata come acconto su un’imposta – l’IRPEF – al cui pagamento l’avvocato non è tenuto.

Roma, 16 maggio 2003
Avv. Adriano Carmelo FRANCO

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