La responsabilità penale degli amministratori senza deleghe

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La complessità della vita societaria, la sovrapposizione e l’affollamento, talvolta incontrollato, di interessi e stakeholders che operano all’interno e all’esterno dei soggetti che esercitano in forma collettiva l’attività di impresa, alimentano non di rado zone d’ombra e spazi di ambiguità che offrono sufficiente copertura alla proliferazione di un’ampia gamma di reati societari.

Tuttavia, se ci si limitasse a considerare gli aspetti patologici dell’agire societario, si correrebbe il rischio di finire intrappolati in uno schema di interpretazione di tale fenomeno di tipo meramente punitivo e sanzionatorio. E ciò sarebbe evidentemente riduttivo, perché accanto ai comportamenti deviati di amministratori e dirigenti apicali intenzionalmente votati a delinquere, ve ne sono poi di perfettamente leciti, o non volutamente illeciti, che però, spesso, non sono sufficienti a tenere indenne chi li compie dalle loro possibili conseguenze penali.

     Indice

  1. La responsabilità penale degli amministratori senza deleghe
  2. L’accertamento del nesso eziologico
  3. La responsabilità penale del consigliere senza deleghe secondo il recente orientamento della  Corte di Cassazione

1. La responsabilità penale degli amministratori senza deleghe

Quando si guarda al fenomeno dei reati societari, l’attenzione non può essere circoscritta alla semplice perimetrazione delle condotte penalmente disdicevoli poste in essere dai soggetti titolari di poteri gestori, ma deve opportunamente spingersi a considerare la rilevanza e l’insidiosità dei rischi penali, cui, talvolta inconsapevolmente, si espongono gli amministratori di società senza deleghe e dunque non esecutivi.

Sotto questo profilo, va subito osservato che la disciplina in vigore prima della riforma societaria del 2003 assegnava agli amministratori non esecutivi un generale dovere di sorveglianza che, per la sua ampiezza e indeterminatezza, finiva per far ricadere solidalmente sugli stessi il pregiudizio cagionato dalla condotta attiva degli amministratori delegati.

In quel contesto, la giurisprudenza di legittimità sosteneva l’obbligo per ciascun amministratore di attivarsi allo scopo di controllare l’effettivo operato degli altri amministratori, sicché l’affidamento di singoli e specifici compiti di amministrazione a taluni di essi non escludeva automaticamente la responsabilità degli altri. Conseguentemente, sulla scorta di tale orientamento, veniva generalmente disconosciuta la possibilità per l’amministratore privo di deleghe, chiamato a rispondere dell’illecito penale commesso dall’amministratore delegato, di sottrarsi alla propria concorrente responsabilità, adducendo a discolpa che l’agire illecito fosse stato posto in essere dall’agente attivo e diretto con ampia e totale autonomia (Cass. pen., 11 aprile 2001, n. 5443; Cass. pen., 29 settembre 2003, n. 12696).

In definitiva, dunque, il conferimento con deleghe di specifici compiti gestori soltanto ad alcuni degli amministratori non rivestiva efficacia esimente per la responsabilità degli altri.

Naturalmente la riforma del 2003 ha modificato radicalmente i termini della questione, mutando in profondità il quadro regolatorio della responsabilità degli amministratori.

Così, da una parte, gli amministratori muniti di delega rispondono non più quali mandatari, bensì in ragione della “diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze” (art. 2392 c.c.) e, dall’altra, gli amministratori senza delega non sono più onerati da un generale obbligo di vigilanza, ma ancora, ai sensi dell’art. 2392 c.c., “sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.

La riforma del diritto delle società, dunque, “ha indubbiamente – con più puntuale disposizione letterale – alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe, poiché l’art. 2392 c.c., comma 1, prevede che sono responsabili verso la società nei limiti delle attribuzioni proprie, quali stabilite dalla disciplina normativa” (Cass. pen., 4 maggio 2007, n. 23838).

E le attribuzioni proprie cui fa riferimento la richiamata sentenza della S.C. del maggio 2007 sono puntualmente declinate dall’art. 2381 c.c., comma 3, il quale prescrive che “il consiglio di amministrazione determina il contenuto, i limiti e le eventuali modalità di esercizio della delega; può sempre impartire direttive agli organi delegati e avocare a sé operazioni rientranti nella delega. Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società; quando elaborati, esamina i piani strategici, industriali e finanziari della società; valuta, sulla base della relazione degli organi delegati, il generale andamento della gestione”.

Gli amministratori privi di deleghe, dunque, da un lato sono i naturali destinatari delle informazioni fornite dagli amministratori delegati, e, dall’altro, hanno il diritto/dovere di richiedere informazioni, soprattutto laddove sussistano segnali di pericolo o indici rilevatori del fatto illecito posto in essere dagli organi delegati.

E naturalmente, a seconda che il segnale dell’illecita gestione sia stato effettivamente conosciuto o solo conoscibile, la responsabilità penale degli amministratori privi di delega sarà, rispettivamente, dolosamente o colposamente omissiva. Con la conseguenza, in ogni caso, che essi non potranno essere chiamati a rispondere in modo automatico ed oggettivo per ogni fatto dannoso in virtù della mera posizione di garanzia ricoperta, ma lo saranno esclusivamente in presenza di un accertato difetto di negligenza.

E il difetto di negligenza si sviluppa su un duplice piano: quello relativo al mancato esercizio di un costante controllo sull’attività dei soggetti delegati attraverso l’adempimento dell’obbligo di informazione attiva e passiva e quello conseguente, una volta venuto a conoscenza di fatti pregiudizievoli, che gli impone di intervenire per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose.


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2. L’accertamento del nesso eziologico

Preliminarmente, è opportuno sottolineare che l’art. 2392 c.c. è rubricato “Responsabilità verso la società”. Esso, infatti, nel richiamare al primo comma l’obbligo giuridico per gli amministratori di “adempiere i doveri ad essi imposti dalla legge e dallo statuto con la diligenza richiesta dall’incarico e dalle loro specifiche competenze”, ne afferma la responsabilità solidale verso la società per i “danni derivanti dall’inosservanza di tali doveri”.

Il focus dunque è inevitabilmente rivolto alle conseguenze dannose, in primo luogo sotto il profilo civilistico, del cattivo operato degli amministratori, esecutivi e non. E poiché tale biasimevole operato degli amministratori ben può sfociare nella violazione di doveri imposti dalla legge penale, ecco allora che, con particolare riferimento alla condotta degli amministratori senza deleghe, viene in rilievo il contenuto dell’art. 40 c.p., comma 2, secondo cui “non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Naturalmente, la condotta omissiva degli amministratori senza deleghe avrà rilevanza sotto il profilo penale soltanto laddove sia dimostrato che il comportamento omissivo ad essi addebitato (i) abbia avuto un peso decisivo, nel senso che senza di esso l’evento di reato non si sarebbe verificato e che (ii) esso non sia riconducibile ad una condizione di impossibilità ad adempiere il comando in capo all’obbligato.

In termini pratici, ciò vuol dire che, ai fini della positiva verifica del nesso causale, deve essere accertato che la condotta pretesa dal titolare del potere impeditivo di cui si richiedeva l’attivazione, secondo l’esercizio che di esso avrebbe fatto l’agente modello, dovrà ipoteticamente far venire meno il reato perpetrato dall’esecutore della condotta attiva.

Di qui ben si comprendono i gravosi oneri probatori che investono l’accertamento del nesso causale; gravosità di cui ben conscia pare essere la stessa giurisprudenza di legittimità, la quale con un proprio arresto del 2012 ritiene “solidalmente responsabili al pari di chi abbia cagionato un evento, coloro che non hanno fatto quanto potevano per impedirlo”, sempreché “quei poteri siano ben determinati ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l’evento sarebbe stato scongiurato: il che non sembra essere nella legislazione vigente” (Cass. pen., 5 settembre 2012, n. 23000).

In definitiva, dunque, da un lato occorre verificare se esistono e quali sono i poteri impeditivi a disposizione del singolo amministratore non esecutivo e, dall’altro, deve essere accertata l’esistenza del nesso causale tra la mancata attivazione di tali poteri impeditivi e la consumazione del reato.

Per altro verso, il dovere di impedire l’evento di reato facente capo all’amministratore privo di deleghe deve prevedere l’effettiva possibilità dell’agente di attivarsi in tal senso facendo ricorso a poteri effettivi e oggettivamente funzionali all’impedimento della realizzazione dell’illecito, perché in mancanza di tali poteri è ovvio che nessun rimprovero potrà essere mosso all’amministratore non esecutivo.

Si tratta, come prima dicevamo, di dimostrazioni probatorie non semplici, in quanto è estremamente complesso soprattutto il ragionamento controfattuale con il quale dovrà essere provato, oltre ogni ragionevole dubbio, che in assenza del comportamento omissivo addebitato all’amministratore senza deleghe l’evento di reato certamente non si sarebbe verificato.

Ma il meccanismo di sostituzione mentale che è alla base di qualsiasi ragionamento controfattuale intanto sarà possibile, in quanto siano note le leggi scientifiche o esperenziali che governano gli accadimenti oggetto di indagine.

Da questo punto di vista, come affermato dalla S.C. con la nota Sentenza Thyssenkrupp (Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343), “nei reati commissivi l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento”, cosicché non sorgono problematiche particolari quanto alla posizione in essere del giudizio controfattuale. Viceversa, le cose si complicano enormemente nel caso dei reati omissivi, perché in tali casi oggetto del meccanismo di sostituzione mentale non è un’azione ma, per riprendere le parole della S.C., “un nulla”, qualcosa cioè che non ha consistenza naturalistica.

3. La responsabilità penale del consigliere senza deleghe secondo il recente orientamento della Corte di Cassazione

Volendo affrontare la tematica della responsabilità penale degli amministratori senza deleghe alla luce di talune recenti sentenze della Corte di Cassazione, il quadro generale in precedenza delineato appare confermato e ulteriormente arricchito da alcuni importanti principi di diritto.

Innanzitutto, infatti, con proprio arresto del 2021 la S.C. in materia di bancarotta fraudolenta ha avuto modo di affermare che “ai fini della configurabilità del concorso dell’amministratore privo di delega per omesso impedimento dell’evento, è necessario che emerga la prova, da un lato, dell’effettiva conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società o, quanto meno, di ‘segnali di allarme’ inequivocabili dai quali desumere l’accettazione del rischio – secondo i criteri propri del dolo eventuale – del verificarsi dell’evento illecito e dall’altro, della volontà – nella forma del dolo indiretto – di non attivarsi per scongiurare l’evento” (Cass. pen. 13 settembre 2021, n. 33856).

In secondo luogo, la S.C. ha recentissimamente avuto modo di ribadire che “l’art. 2392 cod. civ., norma che regola la posizione di garanzia degli amministratori all’interno delle S.p.A., dispone che questi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge o dallo statuto, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o attribuite in concreto ad uno o più di essi” (Cass. pen., 28 marzo 2022, n. 11087).

Da ciò consegue, che in assenza di deleghe formalizzate a favore del comitato esecutivo e/o di uno o più consigliere specificamente individuati, tutti i componenti del consiglio di amministrazione rispondono degli illeciti deliberati dal consiglio, ad eccezione del consigliere che, “essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio” (art. 2392, comma 3, c.c.).

Mentre, conclude ancora la S.C. con la richiamata sentenza del marzo 2022, quando l’illecito penale afferisca ad una materia oggetto di delega, allora la responsabilità penale dell’amministratore non esecutivo verrà in rilievo “per effetto della violazione dolosa o colposa del dovere di informazione” che su di esso grava e che gli impone, in presenza di segnali di allarme, “di attivarsi per assumere ulteriori informazioni” e di fare quanto nelle proprie possibilità “per impedire il compimento dell’atto pregiudizievole o eliderne le conseguenze dannose”.

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