La responsabilità da reato degli enti

Cito Monica 30/09/10
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L’introduzione del decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 sulla responsabilità degli enti, segna un’eziologia di rottura in una posizione dottrinale tradizionale italiana derivante dal brocardo latino SOCIETAS DELINQUERE NON POTEST. Per la verità di brocardo soltanto si trattava, dato che conoscevamo forme di responsabilità, sia pure non penali, degli enti.

Quando la materia penalistica accenna alla responsabilità, non la nega e ne prende nozione, accede alle misure di sicurezza, pensate in termini reali di confisca riferita a possessi delle associazioni vietate, quando il bene collettivo e non dei singoli vestono: la prima fictio d’appartenenza, e la seconda d’aderenza mancata alla legalità d’uso/possesso/proprietà. Essi vengono confiscati in base all’azione di una fictio di deprivazione in capo ad una persona fisica, anche quando non si verteva in tema di controversia di proprietà.

Il decreto citato nasce quale risposta eretta al baluardo internazionale infranto dall’Italia; che ha sottoscritto convenzioni internazionali impositive – per determinati reati – di previsioni di responsabilità degli enti.

Davigo si mostra molto scettico sulla scelta operativa del legislatore, credendo nell’attuazione degli obblighi internazionali per mezzo del rispetto delle tradizioni di un Paese che, come l’Italia, avesse nella struttura giuridica la figura del civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Esso, soggetto processuale descritto ed individuato, avrebbe potuto oggettivarsi in ente rispondente del proprio operato per mezzo del nuovo strumento giuridico – il decreto 231 appunto – quale civilmente obbligato per la pena pecuniaria, nonché (e altrettanto frequentemente) quale responsabile civile.

Dato però che i maxi processi sono figli di problemi maxi complessi, il processo milanese per l’affare Parmalat risultò avere 4.000 parti civili che, rappresentate per blocchi da un numero relativamente ridotto di avvocati, vedeva l’appello svolgersi non per parti ma per difensori. L’antica idea polemica contro i maxi processi impossibili da farsi perché pregni di tempo sprecato, si è sopita nella contraria grande verità dell’economia temporale. Il risparmio è dato dal non rifacimento per 30/40/50 volte delle stesse prove. Certamente tali processi sono di difficile gestione ed il legislatore dovrebbe occuparsene, anche se qualche tellurica scelta è compiuta, data da una responsabilità dall’impalpabile natura, perché «da reato». Secondo alcuni, questo integra responsabilità sostanzialmente penale anche in ragione delle modalità d’accertamento della stessa. Secondo altri, non si tratterebbe di responsabilità penale. Costoro obiettano essere, tutto sommato, anche la responsabilità civile una responsabilità «da reato» (nascente da reato), ma non affatto di natura penale.

Il delicato problema del non poter accedere, però, in tale ultima materia, alla prova per presunzioni, genera perlomeno la necessità di un criterio d’imputazione oggettiva. Tale criterio ai suoi esordi generò piccole perplessità legate all’essere norma «da adattamento/i». Adesso, è esploso in una serie di questioni volturate dall’art. 5 del decreto 231/2001. Dato l’ente quale responsabile per reati commessi nel suo interesse o vantaggio, esso lo sarà ab origine:

a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza/amministrazione/direzione;

b) da un’unità autonoma finanziariamente ed istituzionalmente;

c) da persone esercenti, anche di fatto, la gestione o controllo dell’ufficio;

d) da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera della legge al punto a);

ed in questo elaborato di punti che precedono, che attengono a una classificazione dottrinaria tendente alla tassatività.

Il secondo comma stabilisce che l’ente non risponde se le persone indicate nel comma precedente hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi. Forse il secondo comma nutre in sé il difetto dell’interpretazione della pressione sul terzo vantaggio. Chiaro è che, se vertiamo sull’interesse esclusivo/proprio/di terzi, non c’è interesse dell’ente. Cosa allora è da intendersi per interesse e/o vantaggio? Sono i due termini endiadi? Sinonimi?

La maggior parte della dottrina insisteva sulla sinonimia, da diversissimi punti prospettici. Poi è intervenuta una sentenza della II Sezione Penale della Cassazione, che in tema di responsabilità da reato di persone giuridiche e società in particolare, ha dichiarato l’espressione normativa individualizzante il presupposto della commissione dei reati nel suo interesse o vantaggio, non come contenente un’endiadi, dato che i termini hanno riguardo a concetti giuridicamente diversissimi.

Si distingue un interesse a monte – per effetto di un indebito arricchimento prefigurato, e magari non realizzato, in conseguenza di un illecito – da un vantaggio, ovviamente conseguito con la commissione del reato, seppure non ex ante prospettato. Sicché, interesse e vantaggio sono in concorso reale. La questione parrebbe di lana caprina, legata al dipendere dal momento dell’osservatore: ossia quello in cui è posta in essere l’azione, o quello della realizzazione dell’evento, e quindi del concretizzarsi del vantaggio. In realtà, la questione si complica, ponendo l’altro aspetto dell’interesse (vantaggio perseguito dall’agente, da colui che pone in essere la condotta), o deve esservi un elemento oggettivo della/nella stessa?

Si sarebbe potuta asserire un’importanza relativa delle sistemazioni concettuali tra elementi soggettivi ed oggettivi, ma , introdotta nell’ordinamento la novità, essa apporterà modifiche e creazioni di complicati profili. Infatti, subito dopo l’introduzione del decreto de quo, sono andati ampliati i casi dei quali le società stanzialmente rispondono per pratica giudiziaria: dalla indebita percezione di erogazioni alla truffa in danno dello Stato od altro ente pubblico per il conseguimento delle già accennate erogazioni pubbliche, sino alle – o a partire dalle – concussioni e corruzioni, arrivando alla modernità con le frodi informatiche.

In virtù di una serie di nuove convenzioni internazionali, si è successivamente ed ulteriormente ampliato lo schermo della casistica ed abbiamo registrato: falsità in monete, reati societari, delitti con finalità terroristiche ed eversive dell’ordine democratico, pratiche di mutilazioni di organi genitali femminili, delitti contro la personalità individuale, abusi di mercato. Ma il problema è veramente esploso con la sussunzione legislativa dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose gravi o gravissime commesse con violazione delle norme antinfortunistiche sulla tutela dell’igiene e della salute sul lavoro (ex art. 25 septies decreto cit.).

Un inevitabile, cacofonico, giro di parole porta ad asserire che, se il legislatore avesse introdotto l’omissione dolosa di cautele contro gl’infortuni sul lavoro, nulla quæstio. Il problema è che l’omicidio e le lesioni colpose sono reati colposi, e questo crea altro complesso problema: la valutazione circa l’interesse o vantaggio.

Non è che non ci siano reati colposi in cui l’evento non sia voluto. Supponiamo che Tizio, ritenendo per colpa di versare in ipotesi di causa di giustificazione di legittima difesa, esploda dei colpi di arma da fuoco all’indirizzo di un ritenuto aggressore armato di mitraglietta, allo scopo di ucciderlo. L’evento è voluto, e l’omicidio colposo, perché l’errore cade sull’esistenza della causa di giustificazione. Il Davigo, per l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime –derivate da violazioni delle norme antinfortunistiche – ha provato a pensare all’esistenza di un’ipotesi di scuola, che desse per voluto l’evento, ma non è riuscito a trovarla. Si tratta di reati in cui necessariamente l’evento non è voluto; anzi, neppure accettato, perché altrimenti parleremmo di omicidio volontario e lesioni volontarie, quantomeno sotto il profilo del dolo eventuale. L’interesse o vantaggio non può che esser collegato alla condotta.

Posto l’esempio di una società che risparmi sulle misure di sicurezza, aumenti i ritmi lavorativi e veda qualcuno dei dipendenti farsi male, ciò inerisce ad una condotta certamente riferita ad interessi-vantaggi, ma l’evento non può dirsi che, verificatosi, costituisca in sé un elemento dal quale trarre vantaggio. Anzi, le lesioni, addirittura la morte, traggono la lettura giuridica di un simile fatto nell’alveo della colpa cosciente: l’autore immagina il verificarsi dell’evento, ma è sicuro che non si verificherà. Se, invece, mette in conto che possa verificarsi, si dovrà parlare del dolo eventuale.

Diversamente, secondo altri, è da intendere l’art. 5, e non come nella precedente dinamica conoscitiva, tendente a spezzare il reato, non visto come composto di condotta ed evento, ma ragguaglio d’interesse e vantaggio; ovvero come assenza di un aggancio normativo che consenta di computare interesse o vantaggio alla condotta anziché al reato nel suo complesso.

L’osservazione opposta, abrogativa, vede non esservi il reato di lesioni colpose gravi o gravissime e d’omicidio colposo, ricondotti ad ipotesi di interesse/vantaggio dell’ente; ma la c.d. interpretazione utile, quella che salva il senso della norma partendo dal presupposto di un’imprescindibile logica legislativa tutta da ricercare e cristallizzare.

Il legislatore avrebbe dovuto non attendere l’espressione giurisprudenziale sulla questione delle “morti bianche”, ed intervenire subito a modifica dell’art. 5, nel momento stesso in cui ha introdotto, nella descrizione dei reati pei quali si configura la responsabilità dell’ente, anche una classificazione dei reati colposi e l’idea di vendita circa i beni confiscati.

La relazione di accompagnamento al decreto prevedeva l’introduzione, tra i reati presupposti, di reati colposi d’evento, come quelli di omicidio e lesioni colpose in materia di tutela sui luoghi di lavoro. In fase di lavori, è necessitata la modifica del criterio d’imputazione oggettiva stabilita in via ordinaria dall’art. 5 del D.Lgsl. 23/2001; criterio che, all’evidenza, era stato elaborato sull’esclusivo sfondo dei reati dolosi.

Il non discutibile rilievo che nei reati colposi l’evento è necessariamente non voluto, importa la non coerenza della formula che vede l’interesse o il vantaggio dell’ente elementi qualificanti della commissione del reato, pacifico essendo che i reati di omicidio e lesioni colpose si compiono con il verificarsi dell’evento costitutivo del reato stesso, appunto la morte o le lesioni.

In attesa che il legislatore provveda, le cause arrivano, i processi devono essere svolti e l’operatore deve farsi un’idea. Quest’idea può consistere nel collegare l’interesse o vantaggio non all’evento, ma alla condotta; che, essendo comunque un elemento essenziale del reato, è in tal senso il reato in senso ampio. L’alternativa è asserire la mancanza di senso dell’assunto che un reato colposo porti alla responsabilità dell’ente. La ragione molto semplicemente si rinviene nel dato della lesione o morte del dipendente, in violazione delle norme antinfortunistiche, “qualitativamente” e “quantitativamente” nell’interesse o vantaggio societario. È del tutto evidente – a meno che non si voglia concepire un’intenzione di sterminio sociale di tutti i dipendenti, per cui sarebbe persino sciolto il consesso per associazione a delinquere (comunque rientrando nel campo del dolo) – che non v’è finalità mediata, e al più degli scopi immediati nel cambiamento/elisione di orari e strumenti e misure interne di lavoro. Rimane da stabilire se questo significa un elemento oggettivo della condotta; una condotta finalizzata a procurare quel precipuo vantaggio/interesse non permutabile oppure, al contrario, soggettivamente volto a procurare; infine entrambe le vie.

Le difese sosterranno quest’ultima tesi: il dover essere provata sia l’oggettiva finalizzazione, sia l’elemento soggettivo. Ed è complesso trovare l’elemento soggettivo del reato, se non si ricorre a massime d’esperienza e “presunzioni”; agenti ispiratori. Per fare un esempio, il Davigo così si esprime: «[…] la mancata indicazione della provenienza del bene da parte dell’imputato è prova dell’elemento soggettivo del reato circa la consapevolezza della provenienza del delitto».

Centinaia di ricorsi configurano massime come questa in termini di violazione del diritto al silenzio. Ma l’ordinamento, secondo la giurisprudenza, fa onere, in caso di formule giuridiche a richiesta di un facere, all’imputato d’allegare il giustificato motivo che il pubblico ministero può far verificare.  Di talché si esclude la probatio diabolica di eleggere e poi slegare dall’analisi minuziosa tutte le illecite provenienze.

Con l’auspicata introduzione d’una preclusione, nel linguaggio giuridico da tempo classico delle stesse («salvo non risulti altrimenti»), accompagnante la dizione d’interesse e/o vantaggio, il legislatore potrebbe riportare la questione al solo elemento oggettivo della fattispecie.

La responsabilità di tipo penalistico solleva, accanto alle forti perplessità esposte, anche profili di discussione sulla legittimità costituzionale. Il distico normativo si muove su:

a) la chiarezza nel delineare l’onere della prova dell’assenza del requisito soggettivo a carico dell’ente;

b) il ritenere che la responsabilità non ha carattere penale, recuperando il modello della colpa di organizzazione, noto agli amministrativisti nell’ambito della responsabilità civile della P.A.

Per chiudere concentricamente, però, volgiamo lo sguardo al panorama datoci dalle funzioni autoritative. Nell’esercizio all’interno della potestà pubblicistica, del tutto compatibile con il sistema delle prescrizioni – ed in tal senso si muove anche la giurisprudenza – vediamo se è possibile una ricostruzione che consenta di superare l’alternativa legata alla qualificazione della responsabilità dell’ente, e per farlo muoviamo dalla struttura analitica del reato.

 

Cito Monica

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