La responsabilità civile del medico e della struttura sanitaria

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Introduzione.

Il tema della responsabilità civile del medico ha subito negli ultimi anni una profonda evoluzione, che si è riflessa anche nel mutamento di terminologia: si parla oggi di responsabilità medica per sottolineare che, alla responsabilità del professionista, si aggiunge quella della struttura sanitaria (pubblica o privata che sia) presso la quale il medico presta la propria attività. L’evoluzione ha riguardato in maniera significativa la disciplina in materia, divenuta sempre più complessa e articolata e sulla quale si è accumulata ormai una vastissima bibliografia e giurisprudenza.

Se, in passato, l’atteggiamento dei Giudici nei confronti dei medici era caratterizzato da un maggiore “favore”, la situazione è ormai cambiata, a causa soprattutto della diversa considerazione sociale e culturale del fenomeno. Il progresso medico e scientifico ha infatti aumentato le attese da parte dei pazienti, che guardano alla prestazione sanitaria con una sempre minore disponibilità ad accettare i margini di incertezza ad essa connessi: la primitiva ammirazione o gratitudine per gli straordinari progressi della medicina sembra essersi trasformata in desiderio di rivalsa per l’ipotesi di fallimento delle cure.

Peraltro, tale atteggiamento comporta conseguenze di enorme rilevanza. Negli ultimi tempi, si è assistito a un atteggiamento sempre più intransigente da parte delle assicurazioni, che si rifiutano di stipulare polizze in grado di proteggere gli errori dei dottori, e ad un incremento delle controversie che vedono coinvolti medici e strutture ospedaliere, con relativo aumento delle sentenze di condanna al risarcimento dei danni.

Le conseguenze di tale maggior numero di azioni legali nei confronti del personale medico ha portato all’ampliamento del fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, che consiste nella modifica del comportamento professionale dei medici – soprattutto di quelli specialistici – a causa del timore di procedimenti giudiziari per malpractice1.

All’uso “difensivo” della medicina conseguono ulteriori conseguenze, tra le quali:

  1. il fatto che più gli specialisti prescrivono procedure diagnostiche ultronee o trattamenti aggressivi per condizioni a basso rischio, più questo tipo di approccio tende a diventare lo standard per la pratica clinica, con un impatto notevole sui costi a carico dei sistemi sanitari2, riduzione della possibilità di accesso ai servizi ed elevazione della quantità di esami “pretesa” dai pazienti;

  2. la sostanziale riduzione della qualità dell’assistenza sanitaria per procedure invasive non necessarie e risultati falso-positivi, che possono produrre stress emotivi e la necessità di ulteriori accertamenti diagnostici.

Ad integrazione di questa breve premessa, alcuni significativi dati:

  • nel 2001 le richieste di risarcimento danni nei confronti dei medici erano circa 12.000, mentre nel 2010 hanno raggiunto quota 30.000, con un trend di crescita del 150%. Per quanto riguarda l’ambito della responsabilità professionale del medico, il numero di sinistri ha subito un incremento del 148%, in merito alla responsabilità civile delle strutture sanitarie, la crescita è stata del 31%;

  • sempre secondo le stime, il totale dei danni provocati da malpractice medica è di circa 260 milioni di Euro, e 500 milioni di Euro risulta essere l’importo corrisposto dalle Regioni per garantire le proprie strutture per la responsabilità civile degli operatori sanitari;

  • le specialità più colpite dalle denunce dei pazienti sono: ortopedia e traumatologia (15,1%), pronto soccorso (14,7%), chirurgia generale (9,6%), ostetricia e ginecologia (8,8%), medicina generale (4,3%), oculistica (3,5%) ed otorinolaringoiatria (2,9%). La quota maggiore di importi liquidati negli ospedali riguarda errori chirurgici (36%), diagnostici (25%), terapeutici (11%), di prevenzione (7%) e in procedure invasive (5%);

  • gli errori avvengono più spesso durante un intervento chirurgico, meno nella preparazione della diagnosi, durante la riabilitazione di un paziente o la terapia farmacologica;

  • per quanto riguarda l’esito delle denunce, nel 63% dei procedimenti viene riconosciuta la responsabilità del medico, il 37% si conclude senza addebiti3.

La natura della responsabilità medica.

A che titolo è chiamato a rispondere il sanitario che cagiona un danno ad un paziente sottoposto alle sue cure?

Il paziente che si presenta in una struttura ospedaliera per sottoporsi ad una visita o ad un ricovero, conclude con la stessa un contratto di prestazione d’opera atipico di spedalità4. Fra il medico che esercita la sua professione all’interno dell’ospedale e l’ente ospedaliero intercorre, invece, un rapporto di lavoro che ha alla base un altro e diverso contratto rispetto a quello che lega paziente e struttura sanitaria.

Ma tra medico e paziente? Che rapporto intercorre tra questi due soggetti e qual è il tipo di responsabilità che ne deriva?

La giurisprudenza è ormai unanime nel riconoscere che la responsabilità del medico verso il malato è di natura contrattuale5, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, al fine di un ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto. A sua volta, anche l’obbligazione del medico dipendente ospedaliero nei confronti del paziente, ancorché non fondata sul contratto, ha natura contrattuale6.

La natura giuridica della responsabilità del medico non muta qualora questi sia collabori con una struttura ospedaliera privata, in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi verso il fruitore dei servizi, anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura.

La ratio giustificatrice di tale interpretazione risiede nel c.d. “contatto sociale”7: l’obbligazione “contrattuale” che sorge senza contratto8 trae la sua ragione giustificativa nel comportamento richiesto al medico che è quello di garantire la tutela di interessi che sono emersi o esposti a pericolo nel momento in cui avviene il contatto sociale.

In altre parole, gli obblighi ai quali soggiace il medico dipendente sono più intensi del generico neminem laedere che incombe sulla generalità dei consociati e che comporterebbe solo il sorgere di una responsabilità extracontrattuale, sicuramente meno vantaggiosa per il malato.

Dall’inquadramento della responsabilità del medico all’interno della responsabilità ex contractu discendono poi una serie di conseguenze favorevoli per il malato in termini di onere della prova e di prescrizione.

L’obbligazione del medico: di mezzi o di risultato?

L’obbligazione assunta dal medico, sia che questi operi come libero professionista, sia che agisca come dipendente di una azienda sanitaria, è ricondotta generalmente allo schema della locatio operis. Il professionista non è tenuto all’esecuzione di un’opera o di un servizio ma esclusivamente ad un idoneo impiego di mezzi in funzione del perseguimento di un risultato che potrebbe anche non venire9.

La qualificazione dell’obbligazione del medico come obbligazione di mezzi si giustifica in ragione dell’intrinseca aleatorietà degli esiti dell’attività considerata. Il ricorso agli strumenti della scienza, d’altronde, non consente al medico di prevenire ogni forma di rischio o di danno connesso alla propria attività, e conseguentemente non gli si può chiedere a tutti i costi l’esito positivo del trattamento.

Il medico, in altri termini, non si impegna a guarire il paziente, bensì ad assumere un comportamento tecnicamente qualificato, ovvero a curare il paziente in modo diligente e coscienzioso, mettendo a disposizione di questi tutte le conoscenze che si danno per acquisite dalla comunità medico-scientifica al momento in cui sorge il rapporto con il paziente. In sostanza, se si recupera la tradizionale distinzione tra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, l’obbligazione cui è tenuto il medico rientra fra le prime.

Il medico, pertanto, non è obbligato a raggiungere il risultato avuto di mira dal paziente, bensì è tenuto a porre in essere un comportamento diligente secondo le generali regole di prudenza, diligenza e perizia: ne consegue che l’inadempimento del professionista, fonte di responsabilità dello stesso, non può essere desunto dal mancato raggiungimento del risultato utile, ma deve essere valutato alla stregua della violazione dei doveri inerenti allo svolgimento dell’attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza.

L’evoluzione interpretativa, tuttavia, ha posto in crisi la tradizionale qualificazione dell’obbligazione del medico come obbligazione di mezzi e tende ad introdurre in tale categoria elementi propri delle obbligazioni di risultato, in cui ciò che è dovuto è l’obiettivo concordato e non l’attività svolta per conseguirlo. In tali casi, quindi, il mancato conseguimento del bene è di per sé considerato fattispecie di inadempimento, salvo poi al debitore dimostrare la non imputabilità dello stesso (art. 1218 c.c.).

Tale tendenza si manifesta, in particolare, con riferimento a quelle ipotesi in cui l’operazione effettuata dal medico venga considerata di prestazione di routine, che prevedono regole tecniche che, se applicate in modo diligente, assicurano, nella quasi totalità dei casi, il raggiungimento del risultato sperato. In tali casi, il mancato raggiungimento del risultato fa presumere la negligenza o l’imperizia del sanitario e, dunque, il suo inadempimento10.

Sintomatica di tale orientamento è la sentenza della Corte di Cassazione n. 14759 del 26/06/2007), che ha precisato: “Se è vero, infatti, che l’obbligazione assunta dal professionista e dalla struttura ospedaliera è di mezzi e non di risultato e che il mancato o incompleto raggiungimento del risultato non può, di per se, implicare, dunque, inadempimento (o inesatto inadempimento), è anche vero che il totale insuccesso di un intervento di routine e dagli esiti normalmente favorevoli, come il parziale insuccesso che si registra nei casi in cui dall’intervento sia derivata una menomazione più gravosa di quella che era lecito attendersi da una corretta terapia della lesione o della malattia, si presenta come possibile ed altamente probabile conseguenza dell’inesatto adempimento della prestazione”.

Può in tal modo sorgere il dubbio che, con tale presunzione, i giudici convertano l’obbligazione di mezzi in obbligazione di risultato. Concretamente, tuttavia, permane una sostanziale differenza, ovvero la liberazione dalla responsabilità da parte del sanitario non avviene solo se quest’ultimo dimostra che la prestazione è diventata impossibile per causa a lui imputabile o per caso fortuito, ma anche con la prova del proprio comportamento diligente, perito, prudente.

La più recente giurisprudenza tende da ultimo a riconoscere quale obbligazione di risultato, e non di mezzi, la prestazione assunta dal chirurgo estetico, ciò in funzione del fatto che nell’ambito della chirurgia estetica, diversamente dagli altri ambiti dell’attività medico-chirurgica, il professionista non interviene su una situazione patologica, ma su una situazione di assenza di malattia, assumendo l’impegno a far ottenere al paziente un miglioramento estetico preciso e dettagliatamente prospettato al paziente medesimo11.

Il grado di diligenza nell’esecuzione della prestazione medica. Il contratto di spedalità ed il consenso informato.

Posto che la diligenza richiesta al medico è quella professionale, specifica del buon medico (art. 1176, comma II, c.c.), tre sono gli obblighi fondamentali cui il medico si deve attenere:

  • obbligo di cura. E’ l’attenzione che il soggetto deve impiegare nell’esecuzione della prestazione, prendendo le iniziative necessarie e verificando le proprie capacità ed i propri mezzi nell’eseguire la prestazione. La violazione di tale obbligo comporta il sorgere della colpa per negligenza;

  • obbligo della prudenza. E’ l’osservanza delle misure di cautela idonee ad evitare che sia impedito il soddisfacimento dell’obbligazione o comunque che siano pregiudicati altri interessi del creditore. La violazione di tale obbligo comporta il sorgere della colpa per imprudenza;

  • obbligo della perizia. In senso oggettivo è l’impiego di adeguate nozioni e strumenti tecnici. In senso soggettivo indica l’abilità e la preparazione tecnica del soggetto obbligato: in caso di sua violazione vi è responsabilità per imperizia.

L’obbligazione di diligenza muta ulteriormente a seconda del grado di specializzazione posseduto dal medico e richiesto dalla prestazione: la giurisprudenza distingue tra una diligenza professionale generica ed una specializzata, e quella richiesta nel singolo caso deve essere valutata sulla base della qualità o meno di specialista del soggetto che esegue la prestazione.

La diligenza specifica del debitore qualificato comporta il rispetto di tutte le regole e di tutti gli accorgimenti che nel loro insieme costituiscono la conoscenza della professione medica. In definitiva, la diligenza che il medico-chirurgo deve impiegare nello svolgimento della professione sanitaria è quella del regolato e accorto professionista esercente la sua attività con scrupolosa attenzione e adeguata preparazione professionale.

Il richiamo alla diligenza ha, dunque, la funzione di ricondurre la responsabilità del medico alla violazione di obblighi specifici derivanti da regole disciplinari precise: come è stato recentemente confermato dalla giurisprudenza, la diligenza assume il duplice significato di parametro di imputazione dell’inadempimento e criterio di determinazione del contenuto dell’obbligazione.

Accanto all’onere di agire diligentemente, è previsto un ulteriore obbligo cui deve attenersi il medico: l’obbligo di vigilanza nella fase post-operatoria. Se l’intervento operatorio in senso stretto può ritenersi concluso con l’uscita della paziente dalla camera operatoria, tuttavia un obbligo di sorveglianza sulla salute del soggetto operato certamente grava sul sanitario anche nella fase successiva.

In realtà tale dovere di sorveglianza può considerarsi una specificazione del generale dovere di diligenza: il medico-chirurgo deve comportarsi diligentemente durante tutto l’intervento e quindi sia in fase pre-operatoria che post-operatoria, così da garantire la completa risoluzione dell’intervento.

Da quanto sinora detto si può quindi dire che il medico risponde per colpa ogniqualvolta non si sia attenuto alle generali regole di prudenza, diligenza e perizia valutate in relazione all’attività esercitata e al grado di specializzazione dello stesso.

La responsabilità del medico risulta peraltro limitata ai soli casi di dolo o colpa grave quando “la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà” (art. 2236, c.c.). Detto principio si applica soltanto quando il caso concreto si presenti come straordinario ed eccezionale, non essendo stato adeguatamente studiato nella scienza e sperimentato nella pratica, ovvero quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi sistemi diagnostici, terapeutici e di tecnica giuridica, tra i quali il medico deve operare la sua scelta. In sostanza, la limitazione della responsabilità del medico alle sole ipotesi di dolo o di colpa grave si applica soltanto in ordine a interventi chirurgici di particolare complessità; vuoi perché il caso non è ancora stato studiato a sufficienza, vuoi perché non sono stati sufficientemente applicati i metodi da adottare.

La giurisprudenza è piuttosto rigorosa in tema di prova dell’eccezionalità e complessità dell’intervento: il medico che invoca l’art. 2236 c.c. è tenuto a provare in modo puntuale gli elementi che rendono l’intervento in oggetto complesso, ovvero le circostanze che evidenziano che il caso è ancora poco studiato12.

Va inoltre rilevato che la limitazione di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c. attiene esclusivamente alla perizia13, e non anche alla diligenza e alla prudenza. Da ciò consegue che quantunque il medico, in un caso di particolare difficoltà, abbia usato tutta la perizia dovuta, non rimane esente da responsabilità se dal suo operato sia derivato un danno per negligenza o imprudenza: in questi casi il professionista risponde anche per colpa lieve.

Accanto alla responsabilità medica tradizionalmente considerata, deve ricordarsi che con la accettazione del paziente in una struttura sanitaria (pubblica o privata) viene concluso un contratto atipico di spedalità, avente ad oggetto non solo le cure mediche e chirurgiche, generali e specialistiche, ma anche ogni altro obbligo accessorio e strumentale alle prestazioni di diagnosi e di cura, come apprestare personale medico ausiliario e personale paramedico, i medicinali e tutte le attrezzature necessarie, oltre alle prestazioni latu sensu alberghiere (ed agli obblighi concernenti il consenso informato, su cui cfr. infra)14.

Da ciò deriva una responsabilità dell’ente “per fatto proprio”, ovvero qualora la struttura sanitaria risulti inadempiente agli obblighi integrativi e suppletivi rispetto a quello di fornire il trattamento diagnostico e terapeutico corretto.

La struttura sanitaria risponde, in altri termini, non solo nel caso in cui il danno subito dal paziente sia riconducibile dal negligente operato del proprio personale dipendente, ma anche qualora il danno sia riconducibile a un difetto della strumentazione in suo possesso e/o ad una disfunzione del suo apparato strutturale ed organizzativo.

In questa prospettiva è stata riconosciuta, per esempio, la responsabilità della struttura sanitaria per non aver garantito la sicurezza dell’ambiente di ricovero, il buon funzionamento delle attrezzature e degli strumenti utilizzati per le cure, la custodia e la protezione degli assistiti parzialmente o totalmente privi della capacità di autotutela.

L’evoluzione della materia ha portato da ultimo al riconoscimento di una nuova forma di responsabilità sanitaria, quella da omesso o incompleto consenso informato, ricorrente indipendentemente dalla bontà tecnica del trattamento sanitario ricevuto dal paziente.

Tale ipotesi porta a considerare un altro diritto costituzionalmente garantito (dall’art. 13, Cost.), ovvero quello che tutela la libertà di autodeterminazione intesa come libertà di disporre del proprio corpo.

Il medico, e la struttura sanitaria, possono garantire tale libertà solo se prima dell’atto medico procedono a fornire una adeguata informazione al paziente, ottenendone il consenso informato, che sarà validamente acquisito in quanto esso sia realmente informato, ovvero preceduto da una specifica informazione su quanto forma oggetto dell’attività che deve essere prestata dal sanitario e sui rischi conseguenti.

Negli ultimi anni il tema del consenso informato ha assunto dimensioni di un certo rilievo, tanto da assurgere a vero e proprio strumento di controllo della liceità e correttezza dell’attività medica, prospettando la possibilità di ottenere un risarcimento anche qualora non sia ravvisabile in capo al sanitario alcuna colpa diagnostico-terapeutica.

La correttezza o meno del trattamento non assume infatti alcun rilievo ai fini della sussistenza dell’illecito per violazione del consenso informato, in quanto è del tutto indifferente ai fini della configurazione della condotta omissiva dannosa e dell’ingiustizia del fatto, la quale sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit di informazione, non è stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni, con la conseguenza che, quindi, tale trattamento non può dirsi avvenuto previa prestazione di un valido consenso ed appare eseguito in violazione tanto dell’art. 32 Cost., comma 2, quanto dell’art. 13 Cost.15.

L’onere della prova.

Inquadrata nell’ambito contrattuale la responsabilità della struttura sanitaria e del medico, nel rapporto con il paziente, il problema del riparto dell’onere probatorio deve seguire i criteri fissati in materia contrattuale, ovvero comporta l’applicazione dei principi generali di cui all’art. 1218 c.c. in tema di ripartizione dell’onere della prova, nonché di quanto stabilito dalla Corte di Cassazione (Sezioni Unite) con la sentenza n. 13533 del 30/10/2001.

L’art. 1218 c.c., in tema di inadempimento contrattuale, prevede che il debitore inadempiente è tenuto al risarcimento del danno salvo che non provi che l’inadempimento della prestazione o il ritardo nell’adempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Le Sezioni Unite16 hanno poi specificato che il creditore che agisce per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve dare la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo, costituito dall’avvenuto adempimento.

Analogo principio è stato enunciato con riguardo all’inesatto adempimento, rilevando che al creditore istante è sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento.

La giurisprudenza delle Sezioni Semplici di Cassazione, applicando detti principi all’onere della prova nelle cause di responsabilità professionale del medico, ha stabilito che grava sull’attore (paziente danneggiato che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria) provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente (ai sensi dell’art. 1176, comma II c.c. e, se necessario, la difficoltà dell’intervento, se vuole invocare il parametro di responsabilità di cui all’art. 2236 c.c.), che l’inadempimento non vi è stato (ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante) e/o che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile.

Porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa in pieno quella linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova che va accentuando il principio della “vicinanza della prova”, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla.

Secondo detto principio, l’onere della prova va posto a carico del soggetto nella cui sfera si é prodotto l’inadempimento e che é quindi in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore. Infatti, poiché l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché non vi è dubbio che la prova sia “vicina” a chi ha eseguito la prestazione; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto17.

L’inadempimento rilevante nell’ambito dell’azione di responsabilità per risarcimento del danno nelle obbligazioni sanitarie non è peraltro qualunque inadempimento, ma “…solo quello che costituisce causa (o concausa) efficiente del danno. Ciò comporta che l’allegazione del creditore non può attenere ad un inadempimento, qualunque esso sia, ma ad un inadempimento, per così dire, qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno18.

La ripartizione dell’onere probatorio, inoltre, non risente più della distinzione tra obbligazioni di mezzi ed obbligazioni di risultato, non adeguandosi alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni.

Il meccanismo di ripartizione dell’onere della prova ai sensi dell’art. 2697 c.c. in materia di responsabilità contrattuale è infatti identico, sia che il creditore agisca per l’adempimento dell’obbligazione (ex art. 1453, c.c.), sia che domandi il risarcimento per l’inadempimento contrattuale (ex art. 1218, c.c.), senza richiamarsi alla distinzione tra obbligazioni di mezzi e di risultato.

La giurisprudenza ha poi per lungo tempo distinto tra prestazioni di facile e di difficile esecuzione ai fini di stabilire su chi grava l’onere probatorio. Secondo tale consolidato orientamento l’onere probatorio era così ripartito:

  • negli interventi di c.d. facile esecuzione, caratterizzati da regole precise e di dominio comune in ambito medico, l’inosservanza di tali regole configurava tout-court la colpa del medico: operava, in altri termini, una presunzione di colpa. Provato dal creditore-paziente che l’intervento richiesto era di facile o routinaria esecuzione, si presumeva la colpa del professionista che, se voleva andare esente da responsabilità, doveva dimostrare che l’insuccesso dell’operazione chirurgica non era dipeso dalla propria negligenza o imperizia, ma da eventi imprevisti e imprevedibili secondo l’ordinaria diligenza professionale, ovvero dall’esistenza di particolari condizioni fisiche del cliente non accertabili con il medesimo criterio dell’ordinaria diligenza professionale;

  • negli interventi di difficile esecuzione, il medico – se voleva limitare la propria responsabilità – aveva l’onere di provare soltanto la natura complessa dell’operazione, mentre ricadeva sul paziente l’onere di provare quali siano state le modalità di esecuzione ritenute inidonee. In sostanza, una volta provato dal professionista che la prestazione implicava problemi tecnici di particolare difficoltà, era il paziente a dover dimostrare, in modo preciso e specifico, quali fossero state le modalità di esecuzione ritenute inidonee.

Sul punto, tuttavia, la giurisprudenza è ormai unanime nello stabilire che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione o implicante problemi tecnici di particolare complessità non rileva ai fini del riparto dell’onere probatorio, dovendo essere apprezzata unicamente per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà19.

La prescrizione dell’azione.

Alla ormai accertata natura contrattuale del rapporto che si instaura con il paziente, consegue che la prescrizione della relativa azione abbia durata decennale.

Pertanto, quando la pretesa risarcitoria fatta valere è rapportata ad una responsabilità contrattuale (ciò che avviene nella maggior parte dei casi) altro regime prescrizionale non può trovare applicazione se non quello desumibile dal combinato disposto degli articoli 2935 e 2946 c.c., per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui i diritto può essere fatto valere (al verificarsi del danno) e si compie nel termine di dieci anni20.

In tema di dies a quo per la decorrenza della prescrizione in ambito di responsabilità medica si sono espresse di recente anche le Sezioni Unite della Cassazione, che con la sentenza n. 583 del 11/01/2008 hanno specificato che il “verificarsi del danno” coincide con la manifestazione esterna del danno, ovvero quando esso diviene “oggettivamente percepibile e riconoscibile” anche in relazione alla sua rilevanza giuridica. Ai fini del decorso della prescrizione, non è pertanto sufficiente la mera consapevolezza della vittima di “stare male”, bensì occorre che quest’ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la gravità delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro “rilevanza giuridica”.

L’individuazione del dies a quo ancorata solo al parametro dell’”esteriorizzazione del danno” può tuttavia rivelarsi limitante ed impedire una piena comprensione delle ragioni che giustificano l’inattività (incolpevole) della vittima rispetto all’esercizio dei suoi diritti, specie nel caso di danno lungolatente (nel caso di specie, contagio di HIV da emotrasfusione).

Per tale motivo, il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno di chi assume di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo decorre dal momento in cui viene percepita o può essere percepita quale danno ingiusto conseguente al comportamento doloso o colposo di un terzo, usando l’ordinaria oggettiva diligenza e tenuto conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.

Il nuovo istituto della mediazione civile (D. Lgs. 28/2010).

Il Decreto Legislativo 04/03/2010, n. 2821, attuativo della riforma del processo civile22, regola il procedimento di composizione stragiudiziale delle controversie in materia civile e commerciale vertente su diritti disponibili ed ha piena efficacia dal 20/03/2011.

Il Decreto dispone espressamente (art. 5) che “chi intende esercitare in giudizio un’azione relativa ad una controversia in materia di condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante dalla circolazione di veicoli e natanti, da responsabilità medica e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicita’, contratti assicurativi, bancari e finanziari, e’ tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione”.

L’esperimento del procedimento di mediazione diventa pertanto condizione di procedibilita’ della domanda giudiziale23, salvo il caso (art. 5, comma IV, lett. f)) dell’azione civile esercitata nel processo penale.

La obbligatorietà della mediazione è ulteriormente sottolineata dal fatto che all’atto del conferimento dell’incarico l’avvocato e’ tenuto a informare per scritto l’assistito della possibilità di avvalersi del procedimento di mediazione: in caso di violazione a tali obblighi di informazione, il contratto tra l’avvocato e l’assistito e’ annullabile.

La disciplina introdotta con il Decreto prevede, in sintesi, che:

  • presentata la domanda presso l’organismo di mediazione, è designato un mediatore, e fissato il primo incontro tra le parti (non oltre quindici giorni dal deposito della domanda);

  • dal momento della comunicazione alle altre parti, la domanda di mediazione produce l’interruzione della prescrizione del diritto;

  • il mediatore prevede solitamente un incontro con entrambe le parti, una sessione con ciascuna di essere separatamente ed un ultimo incontro congiunto in cui arrivare – se possibile – alla mediazione;

  • qualora la controversia richieda specifiche competenze tecniche (ad esempio quella in materia di responsabilità medica), il mediatore “titolare” può nominare uno o più ausiliari, alla stregua di consulenti tecnici che possano affiancarlo nella gestione della controversia (art. 8, comma I);

  • sia che venga raggiunto un accordo, sia che la conciliazione non riesca24, sia che una delle parti non partecipi alla conciliazione25, il mediatore forma un processo verbale sottoscritto dalle parti (art. 11);

  • il verbale di accordo omologato – su istanza di parte – con decreto del Presidente del Tribunale costituisce titolo esecutivo per esecuzione forzata e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale (art. 12);

  • chi presta il proprio servizio nell’organismo deputato alla mediazione è tenuto ad un dovere di riservatezza (art. 9) rispetto alle dichiarazioni rese e alle informazioni acquisite durante il procedimento medesimo;

  • le dichiarazioni rese e le informazioni acquisite nel corso del procedimento di mediazione non possono inoltre essere utilizzate nel giudizio avente il medesimo oggetto anche parziale, iniziato, riassunto o proseguito dopo l’insuccesso della mediazione, salvo consenso della parte dichiarante o dalla quale provengono le informazioni (art. 10);

  • la durata del procedimento non può essere superiore a quattro mesi (art. 6), trascorso il quale si può procedere giudizialmente26.

Sono infine previste agevolazioni fiscali: in particolare, il verbale di conciliazione sarà esente dall’imposta di registro sino all’importo di € 51.000,00, e le parti avranno diritto a un credito d’imposta fino a un massimo di € 500,00 per il pagamento delle indennità complessivamente dovute all’organismo di mediazione.

1 I ricercatori del Department of Health Policy and Management della Harvard Medical School ha analizzato un gruppo di specialisti di aree terapeutiche operanti in Pennsylvania. Dalla ricerca è emerso che su un totale di 824 medici, ben il il 93% ha dichiarato di praticare medicina difensiva.

2 Secondo quanto sostenuto dal sottosegretario al Welfare con delega alla salute, Ferruccio Fazio, nel corso della presentazione di uno studio ad hoc, realizzato dell’Ordine dei medici di Roma, la medicina difensiva costa ogni anno al Servizio sanitario nazionale tra i 12 e i 20 miliardi di Euro (fonte: SanitàNews, 27/01/2009).

3 Fonte dei dati: Editoriale di Paolo Vinci sul Giornale delle Assicurazioni, marzo 2010.

4 Cfr. sul punto Tribunale di Terni, 08/02/2010; Tribunale di Milano, 30/09/2009; Tribunale di Pescara, 11/05/2009; Tribunale di Roma, Sez. II, 01/04/2009; Cass. civ., Sez. III, 08/10/2008, n. 24791; Tribunale di Tricase, Sez. I, 17/04/2008; Tribunale di Marsala, 20/02/2008; Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577; Tribunale di Roma, Sez. II, 04/01/2008; Cass. civ., Sez. III, 13/04/2007, n. 8826.

5 Tra le più recenti pronunce che riconoscono la natura contrattuale della responsabilità medica, cfr. Tribunale di Bari, Sez. III, 17/03/2010; Cass. civ., Sez. III, 09/02/2010, n. 2847; Cass. civ., Sez. III, 26/01/2010, n. 1524; Cass. civ., Sez. III, 04/01/2010, n. 13; Tribunale di Monza Sez. I, 07/05/2008; Tribunale di Roma, Sez. II, 30/10/2009; Cass. civ., Sez. III, 29/09/2009, n. 20806; Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577; Tribunale di Modena, 25/10/2007; Tribunale di Bologna Sez. III Sent., 09/10/2007; Cass. Civ., Sez. III, 13/04/2007, n. 8826.

Se questa appare ad oggi la soluzione che meglio tiene conto della realtà sociale nella quale è chiamato ad operare il medico e risulta essere anche quella più vantaggiosa per il malato, non si può dimenticare che si è a lungo sostenuta la natura extracontrattuale della responsabilità medica (cfr. Cass. civ., 20/11/1998, n. 11743, in Rep. Foro it., 1998; Cass. civ., 26/03/1990, n. 2428; Tribunale di Verona, 04/10/1990, secondo cui la responsabilità del medico inquadrato in una struttura ospedaliera verso il paziente è di natura aquiliana. Il fondamento giuridico si fonderebbe sulla puntuale considerazione che il medico non è vincolato da alcun contratto con il paziente essendo legato soltanto all’ente ospedaliero da un rapporto di lavoro subordinato).

6 Cfr., tra le altre, Tribunale Bari, Sez. II, 08/07/2009; Tribunale di Roma, Sez. II, 01/04/2009; Tribunale di Torino, Sez. IV, 30/03/2009; Tribunale di Bari, Sez. II, 16/02/2009; Tribunale di Monza, Sez. I, 07/05/2008; Tribunale di Milano, Sez. V, 22/04/2008; Corte di Appello di Genova, Sez. I, 02/02/2008; Tribunale di Reggio Emilia, Sez. II, 16/01/2008; Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577; Cass. civ., n. 13953/2007.

7 Tribunale di Bari, Sez. III, 17/03/2010; Tribunale di Bari, Sez. II, 11/01/2010; Cass. civ., Sez. III, 04/01/2010, n. 13; Tribunale di Roma, Sez. II, 30/10/2009; Tribunale di Novara, 07/10/2009; Tribunale di Roma, Sez. II, 20/07/2009; Cass. civ., Sez. III, 14/07/2009, n. 16382; Tribunale di Bari, Sez. II, 08/07/2009; Cass. civ., Sez. III, 11/05/2009, n. 10741; Tribunale di Pescara, 11/05/2009; Tribunale di Roma, Sez. II, 01/04/2009; Tribunale di Torino, Sez. IV, 30/03/2009; Tribunale di Bari, Sez. II, 10/03/2009; Tribunale di Bari, Sez. II, 16/02/2009; Tribunale di Campobasso, 27/01/2009.

8 La norma che ha consentito di sviluppare un vero e proprio tertium genus di fonte dell’obbligazione, diverso e distinto dal contratto e dal fatto illecito, è l’art. 1173 c.c. Proprio l’indeterminatezza della formulazione della norma (qualunque atto o fatto) ha consentito di ammettere che un’obbligazione possa sorgere fra medico dipendete e paziente, pur se fra questi due soggetti non è stato stipulato un contratto.

9 Cfr., tra le altre, Tribunale di Milano, 22/10/2009; Tribunale di Benevento, 08/06/2009; Cass. Civ., Sez. III, 26/06/2007, n. 14759; Corte di Appello di Roma, Sez. III, 24/01/2006; Cass. civ. Sez. III, 30/07/2004, n. 14638, in Mass. Giur. It., 2004; Cass. civ., Sez. III, 04/03/2004, n. 4400, in Resp. civ., 2004, 205; Tribunale di Roma, 17/10/2007.

10 Nelle prestazioni mediche di routine, in altri termini, l’oggetto dell’obbligazione, ossia il risultato utile che il creditore (il paziente) ha diritto di attendersi, diventa non più soltanto l’impegno conforme alle regole dell’arte del medico, bensì il risultato positivo che ci si attende da quel genere di operazione.

11 Ne deriva che le aspettative del cliente non si limitano all’attesa di un risultato modestamente migliorativo, ma comprendono la pretesa di un esito indiscutibilmente migliorativo nel senso prospettato dal medico. Cfr. Tribunale di Monza, Sez. IV, sentenza del 14/01/2008.

Contra, cfr. Corte di Appello di Roma, Sez. III, 20/03/2007: “… anche nell’ipotesi di intervento di chirurgia estetica l’obbligazione è di mezzi e non di risultato, assumendo, anche in questo caso, rilievo specifico ed assorbente l’attività di diagnosi, di scelta della terapia e di successiva esecuzione della terapia stessa, ovvero la prestazione di un bene immateriale rispetto al quale non sono percepibili, come per i beni materiali, le difformità o i vizi eventualmente presenti”.

12 In altre parole, il sanitario chiamato a rispondere del proprio operato, non può limitarsi ad affermare apoditticamente che l’intervento effettuato è complesso o poco studiato.

13 Il medico risponde pertanto solo per colpa grave quando, in un caso di particolare complessità la perizia richiesta trascenda i limiti della preparazione e dell’abilità propria del professionista medio, tenuto conto della specializzazione del sanitario e delle e delle caratteristiche del centro ospedaliero in cui l’intervento è stato effettuato.

14 La struttura sanitaria risponde di ciò in applicazione del principio civilistico cuius comoda eius et incomoda: la responsabilità contrattuale qui “… trova fondamento non già nella colpa, bensì nel rischio connaturato all’utilizzazione di terzi nell’adempimento dell’obbligazione”. L’ente risponde infatti di “…tutte le ingerenze dannose che al dipendente sono rese possibili dalla posizione conferitagli rispetto al terzo danneggiato, e cioè dei danni che il dipendente può arrecare in ragione di quel particolare contatto cui si espone nei suoi confronti il paziente nell’attuazione del rapporto con la struttura sanitaria” (Cass. Civ., 13/04/2007, n. 8826).

Sul punto, sulla stessa linea, cfr. Tribunale di Milano, 30/09/2009; Tribunale di Pescara, 11/05/2009; Tribunale di Roma, Sez. II, 01/04/2009; Cass. civ., Sez. III, 08/10/2008, n. 24791; Tribunale di Marsala, 20/02/2008; Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577; Cass. civ., Sez. III, 22/08/2007, n. 17836; Cass. civ., Sez. III, 14/06/2007, n. 13953; Cass. civ., Sez. III, 24/01/2007, n. 1516.

15 In tema di consenso informato e di sua autonoma rilevanza rispetto alla correttezza del trattamento medico cfr., tra le più recenti, Cass. civ., Sez. III, 09/02/2010, n. 2847; Tribunale di Milano, Sez. V, 27/01/2010; Tribunale di Trieste, 12/01/2010; Tribunale di Palermo, 09/12/2009; Tribunale di Bari, Sez. II, 17/11/2009; Cass. civ., Sez. III, 29/09/2009, n. 20806; Cass. civ., Sez. III, 11/05/2009, n. 10741; Tribunali di Bari, Sez. II, 10/03/2009; Cass. civ., Sez. III, 30/01/2009, n. 2468; Tribunale di Bologna, Sez. III, 23/01/2009; Tribunale di Bologna, Sez. III, 19/01/2009; Tribunale di Napoli, 16/10/2008.

16 Con la fondamentale sentenza 30/10/2001, n. 13533.

17 Si veda, tra le più perentorie sul punto, Tribunale di Lanusei, 19/05/2009, secondo cui: “In base al principio di riferibilità o vicinanza della prova compete al medico, che sia in possesso degli elementi utili per paralizzare la pretesa del creditore, provare l’incolpevolezza dell’inadempimento, ossia l’impossibilità della prestazione per causa non imputabile al debitore e la diligenza nell’adempimento, tanto più se l’esecuzione della prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore in quanto estranee al bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore, nella specie specialista di una professione protetta, mentre compete al paziente l’onere di allegare l’inesattezza dell’inadempimento”.

Cfr. inoltre sul punto, tra le più recenti, Tribunale di Piacenza, 19/11/2009; Tribunale di Bari, Sez. II, 08/07/2009; Corte di Appello di Roma Sez. III, 09/06/2009; Cass. civ., Sez. I, 15/05/2009, n. 11309; Tribunale di Chieti, 20/02/2009; Cass. civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577.

Va detto che è stato criticamente osservato che il principio di riferibilità o di vicinanza della prova può condurre a soluzioni differenti in funzione della concreta prestazione presa in esame e che non sempre la prova dell’esattezza dell’adempimento é più agevole per il debitore di quanto non sia per il creditore la prova della inesattezza dello stesso, é tuttavia certo che la prova dalla incolpevolezza dell’inadempimento (recte: della impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile) e della diligenza nell’adempimento é sempre riferibile alla sfera d’azione del debitore; in misura, inoltre, tanto più marcata quanto più l’esecuzione dalla prestazione consista nell’applicazione di regole tecniche, sconosciute al creditore siccome estranee al bagaglio della comune esperienza e specificamente proprie di quello del debitore, nella specie specialista nell’esercizio di una professione protetta.

18 Cass. Civ., Sez. Unite, 11/01/2008, n. 577, in Mass. Giur. It., 2008.

19 Sentenza esemplare di questo nuovo trend è senz’altro Cass. civ., Sez. III, 28/05/2004, n. 10297. Conformi, tra le più recenti, Tribunale di Novara, 07/10/2009; Tribunale di Roma, Sez. XII, 11/05/2009; Tribunale di Roma, Sez. XIII, 07/01/2009; Corte di Appello di Napoli, Sez. III, 10/07/2008.

20 Il principio sopra esposto è stato confermato, tra le altre, da Cass. civ., Sez. III, 19/04/2006, n. 9085; Tribunale di Potenza, 08/01/2008; Tribunale di Genova, Sez. II, sentenza del 23/03/2007; Tribunale di Monza, 23/11/2006.

21 Decreto Legislativo 04/03/2010, n. 28, Attuazione dell’articolo 60 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in materia di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, in G.U. 5 marzo 2010, n. 53. Con esso viene anche attuata la direttiva dell’Unione europea n. 52/2008.

22 L. 18/06/2009 , n. 69, Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile, sulla G.U. n. 140 del 19/06/2009 (S.O. n. 95).

23 L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza.

24 All’esito del processo civile, se il provvedimento del giudice corrisponde interamente al contenuto della proposta conciliativa, non accettata in sede di mediazione dalla parte vincitrice, il giudice esclude la ripetizione delle spese della parte vincitrice che ha rifiutato la proposta, relativamente al periodo successivo alla stessa, e la condanna al pagamento delle spese processuali della parte soccombente riferite al medesimo periodo, nonché al pagamento del contributo unificato.

25 Dalla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione il giudice può desumere argomenti di prova nel successivo giudizio ai sensi dell’articolo 116, comma II, c.p.c..

26 Il termine decorre dalla data di deposito della domanda di mediazione.

Avv. Walter Giacardi

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