La legittimazione ad agire da parte del consumatore ex art. 33 Legge 287/90 (c.d. legge antitrust): possibili soluzioni alternative

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Le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n. 2207 del 2005, dirimendo un contrasto sorto in seno alle proprie sezioni, hanno lasciato intravedere la possibilità di nuove difese azionabili dai consumatori nei confronti degli imprenditori, con riferimento alla tutela della concorrenza e del libero mercato. In sostanza, ciò che fino ad allora era considerato dubbio, da quel momento veniva concesso. Infatti, la succitata pronuncia ha considerato la l. 287 del 1990, “legge dei soggetti di mercato, ovvero di chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo”[1] . Tra gli attori del mercato il Supremo Giudice ha inteso ricomprendere anche il consumatore. Tale soggetto, quindi, nei casi di anomalo funzionamento del mercato, individuati dalla stessa l. 287/90, potrebbe, ex art. 33 l. 287/90, promuovere un’azione volta ad ottenere la dichiarazione di nullità di tutte quelle pratiche anti-concorrenziali e conseguentemente a vedersi risarcito il danno patito a causa di tali pratiche. Ciò che si è fatto, proseguendo sostanzialmente sulla scia dell’arcinota pronuncia del Giudice di Legittimità, la n. 500 del 1999, è stato riconoscere come risarcibile, in quanto giuridicamente tutelato, l’interesse del consumatore a non vedere turbata la libera concorrenza. In questo caso, si è ritenuto possibile ottenere il ristoro del danno subito. La stessa sentenza n. 2207, però, se da un lato contiene quest’apertura, consentendo ai consumatori di agire per vedere dichiarata la nullità dell’intesa illecita, dall’altro ha subito posto dei paletti e, coerentemente con il dettato dell’art. 33 della legge antitrust, ha immediatamente individuato la competenza della Corte d’Appello nei giudizi de quibus.
Nella successiva pronuncia di legittimità sull’argomento[2], pur ribadendosi il principio dettato dalle Sezioni Unite in materia di legittimazione ad agire, si è iniziata a scorgere la reale difficoltà processuale in cui può incorrere il consumatore che decida di agire in giudizio ex art. 33 l. 287 del 1990. Come è stato giustamente notato[3], sono tanti i nodi irrisolti che gettano delle ombre sulla concreta esperibilità di una simile azione. Identificazione dell’elemento soggettivo di chi commette l’infrazione, quantificazione del danno, onere della prova: tutti questi problemi non sono stati affrontati in modo compiuto nelle richiamate decisioni e restano un’incognita cui solo la prassi applicativa potrà far fronte. Così, ad esempio, sull’onere della prova, in un più recente giudizio di merito, si è affermato che “il consumatore che promuove l’azione risarcitoria ex art. 33 l. 287/90, […], non può esimersi dall’onere di provare di aver subito un effettivo pregiudizio in conseguenza dell’atto anticoncorrenziale, in omaggio al principio generale sancito dall’art. 2697 c.c., secondo il quale chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento” [4]E’ evidente, allora, che in considerazione di tale dictum non sarà agevole per il consumatore provare l’intesa illecita “a monte”, dalla quale dipende la risarcibilità del danno causato al contratto “a valle”. Nella stessa pronuncia appena citata, tuttavia, il Collegio Giudicante ha riconosciuto la possibilità di provare per presunzioni il danno patito a seguito dell’intesa anticoncorrenziale, sulla base delle deduzioni ricavabili dal provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (A.G.C.M.) che è intervenuta a sanzionare l’illecito[5]. E’ consequenziale, allora, che la possibilità di avvalersi di una presunzione giuridicamente valida sarà ostaggio della penetranza dell’istruttoria e della puntualità del successivo provvedimento decisorio dell’A.G.C.M. E’ chiaro, quindi, che più fattori di carattere tecnico-pratico si frappongono ad un’azione del consumatore, ex art. 33 l. 287/90. Sarebbero sufficienti, infatti, le difficoltà probatorie e processuali appena citate per rendersi conto di come l’importanza della pronuncia n. 2207 si infranga su diversi ostacoli che rischiano di renderla un’enunciazione di principio senza effettivi risvolti pratici. A ciò si aggiunga che molto spesso ciò di cui il consumatore richiede la restituzione è cosa esigua rispetto ai costi che, almeno inizialmente, sarebbe costretto a sopportare. Così ad esempio, se si guardano la causa petendi e il petitum dei giudizi citati (che rappresentano i leading case in materia), vale a dire contratti di assicurazione e restituzione delle maggiori somme versate a causa di un cartello restrittivo della concorrenza, si comprende come tali azioni rischino di rimanere isolate piuttosto che apripista per altre simili iniziative.
E’ necessario, dunque, riflettere su possibili soluzioni alternative che consentano al consumatore di agire in giudizio in modo più agile, per ottenere il risarcimento del danno subito. Proprio prendendo spunto dall’esempio appena citato, si può tentare di percorrere una strada diversa che riconduca l’azione del consumatore nell’alveo delle disposizioni codicistiche in materia di contratto. Così, la soluzione differente dall’azione ex art. 33 l. 287/90 potrebbe essere rintracciata nell’applicazione dell’art. 1440 c.c., che recita: “Se i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto è valido, benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse; ma il contraente in mala fede risponde dei danni”. La disposizione – inserita tra le norme relative ai contratti ed in particolare tra quelle che disciplinano i vizi del consenso – ha carattere sussidiario rispetto alla precedente (art. 1439 c.c.), che riguarda l’annullabilità del contratto in caso di dolo di uno dei contraenti, trovando applicazione laddove si sarebbe comunque arrivati alla conclusione dell’accordo, seppure a condizioni diverse. In tal caso, al contraente raggirato spetta un risarcimento. La giurisprudenza, sia di merito sia di legittimità, ha chiarito il contenuto del dolo e la distribuzione dell’onere della prova con riferimento all’art. 1440 c.c. Relativamente all’elemento psicologico, è stato affermato che, ad esempio, “le false o omesse indicazioni di fatti la cui conoscenza è indispensabile alla controparte per una corretta formazione della sua volontà contrattuale […] possono comportare l’obbligo per il contraente mendace o reticente di risarcire il danno, ove la controparte si sarebbe comunque determinata a concludere l’affare ma a condizioni diverse, salvo che il contraente mendace non provi che la controparte era comunque a conoscenza dei fatti da lui maliziosamente occultati o che avrebbe potuto conoscerli, usando la normale diligenza[6]. Ultimamente, inoltre, è stato altresì sottolineato, in tema di oggetto della prova, ex art. 1440 c.c., che “il vaglio critico delle risultanze probatorie, ai fini della verifica del dolo, deve invece convergere sulla condotta mantenuta dal deceptor e le conseguenze da essa prodotte sull’altra parte contrattuale[7]. Infine, quanto all’onere della prova in tema di dolo incidente, la giurisprudenza di prime cure ha avuto modo di affermare che “[…] l’attore una volta provata l’esistenza delle circostanze maliziosamente taciute su un elemento non trascurabile del contratto, non è tenuto a provare altro ai fini dell’ "an debeatur", in quanto deve ritenersi operante la presunzione "iuris tantum" che senza tale condotta, le condizioni contrattuali sarebbero state diverse e quindi per lui più favorevoli[8]. Tanto detto – quanto meno con riferimento all’oggetto dei summenzionati giudizi volti ad ottenere il ristoro del danno subito dal consumatore in ragione del comportamento anticoncorrenziale delle compagnie assicuratrici – è possibile giungere alla seguente conclusione. Nell’ambito delle trattative che portano alla stipula del contratto di assicurazione, la compagnia, per tramite dei propri agenti, fornisce al potenziale cliente tutti quegli strumenti (es. condizioni di polizza, attestato di rischio, ecc.) idonei ad incidere e determinare la sua volontà contrattuale. E’ evidente che da tali elementi il consumatore desuma anche la congruità del prezzo, senza effettiva possibilità di influire sullo stesso o di poter ottenere ulteriori notizie per valutarne l’effettiva rispondenza al valore del servizio offerto. In sostanza, si deve fare affidamento sul “contraente forte”. Qualora, poi, il consumatore dovesse venire a conoscenza (ad es. tramite i provvedimenti dell’A.G.C.M.) del fatto che tale prezzo non rappresentava solo il frutto di una scelta di mercato, ma il risultato di un accordo anticoncorrenziale illecito, potrebbe a giusta ragione ritenere viziato il suo consenso nella misura in cui una corretta informazione l’avrebbe certamente portato a stipulare il contratto, ma a condizioni diverse. Così, analogamente, tale impostazione può essere utilizzata in tutti quei contesti in cui l’imprenditore manifesta la propria offerta attraverso documenti o opuscoli informativi, facendo apparire i prezzi dei beni o servizi offerti esclusivamente quale corrispettivo per il proprio operato, e tacendo fraudolentemente l’intesa anticoncorrenziale “a monte” che va ad incidere su quanto previsto nei contratti “a valle”. Il tutto con uno sgravio dell’onere probatorio per la parte attrice (il consumatore dovrebbe provare solo l’elemento che ha inciso sulla formazione della sua volontà contrattuale, ad esempio attraverso l’esibizione del provvedimento dell’A.G.C.M.) e la possibilità di ridurre i costi iniziali per adire l’Autorità Giudiziaria.
 
Gallucci Alessandro


[1] Cass. SS.UU., 4 febbraio 2005, n. 2207.
[2] Cass. civ., 28 ottobre 2005, n. 21081.
[3] C. Poncibò, Profili di risarcibilità del danno per violazione della normativa antitrust, Giust. Civ., 2006, 10, 2051.
[4] Corte d’Appello di Napoli, Sez. I Civ., 19 ottobre 2007.
[5] Corte d’Appello di Napoli, cit.
[6] Cass. civ. , 5 febbario 2007, n. 2479.
[7] Cass. civ., 19 giugno 2008, n. 16663.
[8] Trib. Roma, 14 febbraio 2008.

Gallucci Alessandro

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