La filiera agroalimentare tra criminalità organizzata ed economia non osservata

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Nel 2016 il fatturato del settore agroalimentare in Italia è stato stimato in 130 miliardi di euro e, occupando circa 385.000 persone[1], ha confermato l’Italia come una delle maggiori potenze del settore. Ciò nonostante, studi specifici rivelano come negli ultimi anni vi sia stato un progressivo abbandono del suolo agricolo, una diminuzione della manodopera, e un notevole aumento delle importazioni[2].

È pertanto inevitabile chiedersi quali possano essere i reali motivi per cui un settore con un tale potenziale rischi di indebolirsi sempre di più: domanda a cui non è facile dare una risposta esaustiva, tenuto conto della molteplicità di fattori di cui è necessario tener conto.

Quello della filiera agroalimentare rappresenta infatti un fenomeno con risvolti economici, politici, sociali, amministrativi e penali, che riguarda l’ambito sia nazionale che internazionale: un fenomeno tipicamente globale perché si dipana attraverso scambi commerciali all’interno di un Paese, tra Paesi all’interno di un’area Regionale, e tra Paesi di continenti diversi, là dove per ciascuna di queste aree di produzione o di consumo vigono interessi e norme diverse.

Le agromafie in Italia

Per svolgere un’analisi completa del sistema economico italiano non si può prescindere da alcune delle sue principali peculiarità: tra queste, la convivenza con un altissimo tasso di economia non osservata (in cui rientra tanto l’economia sommersa quanto l’economia illegale), il cui valore è stato stimato dall’Istat in circa 209 miliardi di euro (pari al 12,4% del PIL)[3]. Situazione – inutile dirlo – aggravata dalla forte pervasività delle organizzazioni criminali nel nostro territorio. Invero, produzione, trasformazione, trasporto, commercializzazione e vendita sono sempre più condizionati, e in diversi casi addirittura pilotati, da soggetti che, disponendo di ingenti risorse economiche e ampi poteri derivanti dal sodalizio mafioso, decidono di aumentare e trasformare il proprio patrimonio di provenienza illecita, investendo su settori legali. Primo tra tutti, quello agroalimentare. Perché? Perché il comparto agroalimentare si presta, grandemente, a condizionamenti e penetrazioni. Partendo dalle frodi all’Unione Europea e all’Ag.E.A. aventi ad oggetto il sistema delle erogazioni in agricoltura, passa per la tratta di esseri umani finalizzata al grave sfruttamento nei campi e all’intermediazione illecita di manodopera, prosegue con il sistema dei trasporti su gomma, e arriva fino alla gestione dei mercati ortofrutticoli e della grande distribuzione organizzata. Il tutto, mediante un sofisticato sistema di riciclaggio che permette di trasformare capitali illegali in capitali legali, rendendo sempre più difficile la ricostruzione della filiera del denaro di provenienza illecita.

Le inchieste, i sequestri e i dati statistici sono, se osservati con attenzione, la fotografia di quella che oggi potremmo definire una mafia 3.0: una criminalità organizzata al passo con i tempi, capace di utilizzare metodi e strumenti innovativi, al cui servizio vi è una struttura “intelligente” che ne accoglie le disponibilità finanziarie al fine di “pulirle” e accrescerle attraverso mezzi leciti e modalità apparentemente tali. La nuova mafia ha spostato lo scontro con le istituzioni e le forze dell’ordine su un livello più sofisticato, agendo secondo standard operativi che, abbandonando le comunicazioni tramite “pizzini”, le permettono di assumere un carattere transnazionale e globale, servendosi di centrali off shore, criptovalute e monete elettroniche, blockchain, società, import export, fondi di investimento internazionali e ogni altro mezzo idoneo a garantirle cospicui profitti. Le stesse organizzazioni criminali, sempre più interessate a sviluppare affari in collaborazione che non a combattersi, hanno ormai determinato una “governance multilivello” capace di approntare un sistema economico finalizzato a soddisfare le esigenze delle diverse associazioni. Si sono quindi venuti a creare dei veri e propri apparati imprenditoriali-criminali dotati del know how necessario per infiltrarsi nell’economia legale, a fronte dei quali si pone la necessità di aggiornare e potenziare l’attuale normativa in materia agroalimentare attraverso un intervento a 360° che parta dal contrasto allo sfruttamento dell’immigrazione fino ad arrivare alle misure antiriciclaggio. Complice di tale atrofia legislativa è probabilmente il fatto che sia stata finora negata la natura unitaria del fenomeno che, se analizzato pezzo per pezzo non preoccupa (rilevando al massimo sotto profili di microcriminalità), ma se guardato complessivamente è la cartina tornasole di un fattore che rischia di distruggere in pochi anni l’economia italiana.

Il fenomeno riguarda principalmente due settori dell’economia: quello dell’agricoltura e quello dell’industria alimentare.

 

1. Agricoltura: dal favoreggiamento dell’immigrazione clandestina al caporalato

 

Come anticipato, uno dei settori economici più esposti al lavoro irregolare e alle infiltrazioni della criminalità organizzata è certamente l’agricoltura, dove spesso il lavoro si combina con il caporalato e con lo sfruttamento dell’immigrazione clandestina, vale a dire con forme di intermediazione illecita che sono espressione di un meccanismo di reclutamento e impiego della manodopera, spesso migrante e in numerosi casi legata persino alla tratta internazionale di esseri umani: è proprio per questo motivo che oggi potrebbe addirittura parlarsi di una nuova forma di schiavitù.

È bene osservare che non tutte le condotte di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina sono rivolte al grave sfruttamento lavorativo. Ciò nonostante, i numeri raccolti dall’Oss. Placido Rizzotto[4] delineano con chiarezza che le due problematiche – in numerosi casi – entrano in contatto, creando una distorsione del mercato del lavoro e gravi violazioni dei diritti umani:

– un tasso del 28% di lavoratori agricoli migranti (di cui 135.234 – corrispondenti al 47% – provenienti da paesi extra-UE);
– un totale di 405.000 lavoratori stranieri in agricoltura (tra “regolari” e irregolari), molti dei quali versanti in condizioni di grave vulnerabilità sociale e forte sofferenza occupazionale, con la logica conseguenza di essere esposti, il più delle volte, a episodi di sfruttamento o riduzione in schiavitù.

Più in generale:
– il tasso di irregolarità dei rapporti di lavoro in agricoltura si attesta al 39%, con più di 400.000 lavoratori agricoli esposti al rischio di un ingaggio irregolare e sotto caporale;
– l’ispettorato del lavoro sottopone a controllo solo circa 7.000 aziende all’anno, e più del 50% risulta presentare irregolarità.

Anche attraverso una lettura semplicistica di tali dati non si potrebbe fare a meno di percepire il senso di abbandono dei lavoratori agricoli italiani nei confronti delle istituzioni, resi vittime di un’incontrollata prevaricazione della criminalità organizzata e dell’indiscussa preminenza dell’economia non osservata. Gli effetti di tale situazione sono evidenti: distorsione del mercato, creazione di rilevanti spazi entro cui possono inserirsi interessi mafiosi, sbilanciamento della concorrenza a sfavore di lavoratori e imprese onesti che si trovano a dover competere con soggetti che possono contare sui vantaggi derivanti dallo sfruttamento. È proprio per tale motivo, quindi, che il contrasto al lavoro nero e allo sfruttamento lavorativo deve diventare, partendo dalla prevenzione, una priorità per il sistema imprenditoriale onesto, le forze sindacali e le istituzioni.

Criticità e interventi necessari

La legislazione penale sul caporalato, avviatasi nel 2011 con la legge n. 148 è giunta ad una nuova tappa con la legge n. 199 del 2016, che ha riformato il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’art. 603 bis c.p. La norma così rivisitata tuttavia non riesce a circoscrivere precisamente l’elemento costitutivo del reato, con la conseguenza che una lettura generica delle espressioni riportate potrebbe portare a qualificare come comportamento delittuoso anche situazioni che dovrebbero essere lasciate alle controversie civili o addirittura a sanzioni amministrative, e viceversa. Si può quindi dire che quello del 2016 si è rivelato, in definitiva, un intervento parziale, che per di più non riesce ad inserirsi in un progetto di contrasto omogeneo con le varie dinamiche che intervengono in questo settore: l’art. 600 c.p. (che disciplina il reato di riduzione in schiavitù) continua infatti a rimanere inapplicato anche nei casi più gravi, con la conseguenza che permane l’incertezza circa la linea di demarcazione intercorrente tra le due fattispecie delittuose (quella che punisce la riduzione in schiavitù e quella che punisce, invece, lo sfruttamento del lavoro)[5]. Proprio tale tipo di difficoltà interpretativa è stata recentemente affrontata – con diverse risultanze – dalla Corte d’Assise di Lecce (prima) e dalla Corte d’Assise d’appello di Lecce (dopo) relativamente al processo che vide coinvolta un’articolata organizzazione criminale transnazionale finalizzata al reclutamento di cittadini extracomunitari (introdotti clandestinamente in Italia o comunque presenti irregolarmente sul territorio) da destinare allo sfruttamento lavorativo nella raccolta di angurie a Nardò, in provincia di Lecce. In un primo momento, la Corte d’Assise di Lecce riconobbe per la prima volta la sussistenza del reato di riduzione in schiavitù in un procedimento concernente il mondo del lavoro, rappresentando una svolta storica nella lotta contro la criminalità organizzata; tuttavia la Corte d’Assise d’appello di legge, proprio quest’anno, ha ribaltato l’esito del procedimento, assolvendo 11 dei 13 imputati. Anche tale renversement giurisprudenziale, pertanto, evidenzia come la normativa sia ancora confusa, colma allo stesso tempo di sovrapposizioni e lacune.

Occorre in definitiva una disciplina chiara, completa e capace di coniugare repressione e prevenzione senza perdere di vista la realtà sociale:

– le condotte costituenti reato vanno definite con precisione;
– va rafforzato il profilo della premialità, non solo a favore dell’imputato ma soprattutto della persona offesa (che il più delle volte non denuncia temendo di peggiorare la propria situazione), a cui va dato coraggio e forza attraverso misure che le consentano di poter proseguire la propria vita lavorativa all’interno di altre aziende (come già fatto mediante l’art. 18 del d.lgs. 25 luglio 1998 n. 286 “Testo Unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulle condizioni dello straniero”, che prevede, come è noto, che lo straniero vittima di violenza o sfruttamento, che abbia tentato di sottrarsi ai condizionamenti di un’associazione dedita alla commissione di gravi reati, o per effetto di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o nel corso del giudizio, possa beneficiare di un permesso di soggiorno ulteriore);
– va introdotta la misura di prevenzione del controllo giudiziario, da applicare fin dalle indagini preliminari alle aziende i cui titolari o gestori siano indagati per sfruttamenti lavorativi;
– sotto il profilo della prevenzione, invece, vanno aumentati i controlli dell’ispettorato del lavoro e delle forze dell’ordine, anche mediante nuove tecnologie (come ad esempio l’uso di droni nello svolgimento di attività ispettive, già sperimentato ma non ancora diffuso, che permetterebbe di effettuare numerosi accertamenti in tempi rapidi e quindi in linea con le emergenze stagionali connesse all’agricoltura).

Per quanto riguarda invece il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, va sicuramente modificato il decreto sicurezza bis, alla luce e nel rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia (tra questi, principalmente quelli prescritti dalla Convenzione di Montego Bay, richiamata dallo stesso articolo 1 del decreto)[6], ma anche attraverso l’introduzione di indicazioni che consentano una valutazione obiettiva delle condotte poste in essere: profili, questi, di estrema attualità e necessità, soprattutto alla luce delle recenti ordinanze emesse dal Tribunale di Agrigento relativamente al caso Sea Watch 3 [7] e al caso Open Arms [8], attraverso cui sono state palesate precarietà e incompatibilità del suddetto decreto, e che rappresentano un importante tassello nella sempre più articolata rete di interventi giurisdizionali che, relativamente alla c.d. “crisi dei soccorsi in mare”, stanno progressivamente riaffermando il primato dei diritti fondamentali rispetto alle – pur legittime, ma di rango inferiore – esigenze di controllo dei confini territoriali.

 

2. Industria alimentare: dall’italian sounding alla GDO

 

Il tema dell’alimentazione ha assunto negli ultimi anni un ruolo dominante nella vita economica del paese, complice l’attenzione offerta dalla vetrina internazionale di Expo 2015 ma anche – e forse principalmente – i social network, attraverso cui gli scambi commerciali e pubblicitari hanno iniziato a diffondersi ad una velocità mai vista prima. L’industria alimentare[9] sembra quindi godere di ottima salute: è un comparto freddo, versatile, capace di superare anche le peggiori crisi economiche perché, in fin dei conti, non si potrà mai fare a meno di mangiare. Tali vantaggi, tuttavia, sono mitigati dal costante rischio che un settore con un tale potenziale possa attirare interessi da parte di ambienti mafiosi, famigerati per la propria vocazione ad inserirsi in contesti a bassa intensità espositiva in cui possono essere conseguiti ingenti guadagni. Proprio per tale motivo il settore alimentare, negli ultimi anni, si è trasformato in una fonte strategica di traffici lucrativi capace di rafforzare considerevolmente la filiera agromafiosa e i suoi articolati interessi economici e relazionali. Diverse inchieste hanno dimostrato come la criminalità organizzata manifesti il proprio interesse tanto nella filiera produttiva – come si è detto – quanto nel controllo delle successive fasi del trasporto su gomma, dei mercati ortofrutticoli e delle carni e della grande distribuzione organizzata. A titolo meramente esemplificativo: Cosa Nostra catanese risulta impegnata nella gestione (diretta o mediante prestanomi) di aziende operanti nel settore ortofrutticolo; i clan camorristici hanno acquisito nel corso del tempo una gestione monopolistica del settore dei trasporti su gomma; la ‘Ndrangheta ha conquistato un serrato controllo delle attività economiche nel settore ittico e in quello agrumicolo; è stato anche dimostrato come la criminalità organizzata controllasse, attraverso una complessa rete di società variamente intestate a uomini di fiducia delle cosche, l’Ortomercato di Milano ed anche il Mercato Ortofrutticolo di Forlì[10].

Considerevole importanza assume in quest’ottica anche la Grande Distribuzione Organizzata[11], che per le sue caratteristiche risulta particolarmente adatta al riciclaggio di denaro. Oltre a questa redditizia qualità, la Gdo assume una posizione di potere anche nella politica dei prezzi. Infatti, attraverso la Gdo passa il 70% degli acquisti alimentari: ne consegue che rappresenta per i produttori agricoli il principale canale di distribuzione, cui essi si affidano per rimanere sul mercato e ottenere la necessaria redditività. La dimensione reticolare e diffusa della Gdo, pertanto, la rende un’imperdibile occasione per controllare il settore, riciclare denaro di provenienza illecita e allargare la propria influenza[12].

Negli ultimi anni la mafia ha esteso i propri interessi anche alla logistica (magazzinaggio e trasporto). Invero, potendo contare sui vantaggi derivanti dal sodalizio mafioso (primo tra tutti, la capacità di riciclare milioni di euro), ha avviato un processo di trasformazione e consolidamento del sistema degli autotrasporti che le ha permesso, nel giro di pochi anni, di controllare l’intero settore e, in particolare, quello del trasporto ortofrutticolo[13]. Le infiltrazioni della criminalità nella filiera dell’autotrasporto hanno inoltre comportato in diverse occasioni gravissime ripercussioni sulla dinamica dei prezzi del comparto ortofrutticolo, determinandone un aumento sproporzionato e scaricato, alla fine, sulle spalle degli agricoltori e dei consumatori finali (emblematico, in tal senso, il caso del pomodoro ciliegino di Vittoria – in provincia di Ragusa – che, attraversando tutta l’Italia fino ad arrivare ai principali mercati ortofrutticoli del Nord, riscendeva poi in Sicilia per essere venduto ad un prezzo notevolmente superiore: ovviamente perché strumento di riciclaggio e speculazioni illegali).

Nell’ambito della criminalità economica connessa all’industria alimentare, risaltano invece i c.d. crimini alimentari, tra i quali spiccano – per la gravità attraverso cui si ripercuotono sul sistema economico italiano – le contraffazioni: è il cosiddetto metodo dell’italian sounding (ossia l’insieme delle pratiche di produzione e di commercializzazione di prodotti che “suonano” italiani). Nel 2019 il “made in Italy” alimentare ha raggiunto un record storico nel settore, dove l’export ha raggiunto la quota di 41 miliardi di euro. Il trend positivo è stato confermato anche nel 2018, con un incremento del 3,3% delle esportazioni nei primi sette mesi. Tuttavia, l’aumento delle esportazioni e la globalizzazione dei mercati ha creato una vera e propria “filiera della contraffazione alimentare“, sistema imprenditoriale parallelo a quello originale ma con considerevoli vantaggi competitivi. Come scrive Gian Carlo Caselli “il luogo col quale ci confrontiamo non è più soltanto il piccolo mercato del quartiere ma l’economia globale, offuscata da nuovi agropirati e dagli agromafiosi”[14]. Questa stessa citazione anticipa con chiarezza la vera natura del problema: una compagine di stampo criminale che, spesso in regime di anonimato e di extraterritorialità (con la conseguente impossibilità per le diverse autorità giudiziarie, talvolta, di intervenire con libertà a causa dei limiti territoriali della legislazione penale), saccheggia un business preziosissimo per l’Italia. Relativamente all’agropirateria internazionale si stima infatti un fatturato di oltre 100 miliardi[15], cui consegue un mancato gettito fiscale pari a 5,7 miliardi di euro e la perdita di circa 100.000 posti di lavoro regolare.

La diffusione di tale fenomeno criminale si spiega attraverso il connotato di “invisibilità” che lo caratterizza e che gli permette, il più delle volte, di sfuggire anche ai controlli delle Forze dell’Ordine. E se neanche le Forze dell’Ordine riescono ad accertare – se non attraverso tecniche sperimentali – la genuinità dei prodotti sul mercato, si può ragionevolmente dedurre che tanto meno il consumatore finale sarà in grado di riconoscere un prodotto “piratato”. Tra questi problemi spicca la notoria inadeguatezza della normativa in materia agroalimentare (e in particolare dell’art. 515 c.p.) che, al di là del deficit di notitiae criminis, difficilmente riesce a tutelare l’identità del cibo e i consumatori: mancano infatti  adeguati strumenti di prevenzione e deterrenza penale che contrastino efficacemente l’agropirateria e l’agromafia, capaci di inquadrare tale tipo di crimini all’interno di un meccanismo più ampio e, quindi, operare un contrasto anticipato, stante la difficoltà di intervenire quando il prodotto è ormai entrato nel mercato.

Criticità e interventi necessari.

Ogni ipotesi di riforma della materia alimentare deve prima effettuare una ricognizione della politica economico-sociale e dell’attuale assetto sanzionatorio, oggi confusamente distribuito tra normativa italiana ed europea, nella consapevolezza dell’importantissimo ruolo che la globalizzazione dei mercati oggi ricopre all’interno di tale fenomeno. Occorre infatti ricordare che tale fenomeno si espande oltre i confini nazionali, e profitta della libertà economica offerta dall’Unione Europea e della concomitante disomogeneità della normativa di prevenzione e contrasto. Due i punti cruciali su cui la normativa europea gira tuttora a vuoto: la mancata estensione del reato di associazione mafiosa a tutti gli Stati Membri e, soprattutto, l’impossibilità di confiscare i beni oltre i confini nazionali alla criminalità organizzata anche in assenza di una condanna definitiva (quando gravi indizi di colpevolezza si accompagnano all’impossibilità, da parte dell’indagato o dell’imputato, di dimostrare la provenienza lecita delle proprie ricchezze).

Si pone quindi la necessità di intervenire con forza ed efficacia contro le organizzazioni criminali, principali antagoniste dell’economia del cibo. Stessa attenzione meritano gli agropirati, che approfittando delle debolezze del sistema e delle moderne tecnologie falsano il mercato, generando gravi danni al benessere del paese.

Infine, va ricostruita l’intera filiera del denaro di provenienza illecita attraverso un rafforzamento della normativa antiriciclaggio, che presti maggiore attenzione alle figure del prestanome e del prestaconto e che tenga conto dei nuovi metodi, altamente sofisticati, attraverso cui oggi le mafie sono in grado di pulire e moltiplicare i propri capitali.

Occorre, in definitiva, prendere consapevolezza della mutata realtà economica del paese e della centralità assunta dalla filiera agroalimentare, avviare una complessa stagione normativa supportata da un’analisi costante del fenomeno e una conseguente azione di prevenzione e di repressione, in grado di garantire economia sana, dignità lavorativa e consapevolezza per i cittadini.

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[1]Industria alimentare”, su mise.gov.it.

[2]Italiano 100%: il falso mito. Importiamo grandi quantità di materie prime”, su ilfattoalimentare.it.

[3] Elaborazione Oss. Placido Rizzotto su dati Istat, Crea, Corte dei Conti e Commissione Parlamentare Antimafia.

[4] Elaborazione Oss. Placido Rizzotto su dati Istat, Crea, Corte dei Conti e Commissione Parlamentare Antimafia.

[5] Sciacchitano R., “Sfruttamento del lavoro e riduzione in schiavitù: problemi interpretativi ed evoluzioni giurisprudenziali”, Diritto & Diritti, 19 giugno 2019 (Pubblicazione Scientifica allegata alla documentazione prodotta).

[6] Secondo cui “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batta la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio e i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”.

[7] Ordinanza n. 2592/19 R.G.GIP del Tribunale di Agrigento.

[8] https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/08/30/open-arms-gip-italia-era-obbligata-a-indicare-porto-sicuro-possibile-omissione-datti-dufficio-e-sequestro-di-persona/5419742/

[9] Indica quel settore del mercato composto dalle imprese che si dedicano alla lavorazione e trasformazione di prodotti provenienti da attività primarie quali l’agricoltura, la zootecnica, la silvicoltura e la pesca.

[10]6° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia”, Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, Minerva, 2019.

[11] La Gdo gestisce numerose attività commerciali sotto forma di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e non alimentari di largo consumo in punti vendita a libero servizio distribuiti su tutto il territorio nazionale.

[12] Come dimostrato dalla clamorosa inchiesta che ha fatto emergere come il clan catanese dei Laudani sia riuscito a penetrare, addirittura, all’interno del colosso internazionale della Lidl.

[13] Al riguardo si segnalano le operazioni “Gea” e “La Paganese”, che hanno fatto emergere accordi sottesi a gestire il settore della logistica tra clan camorristici e mafia siciliana.

[14]Frodi agroalimentari: profili giuridici e prospettive di tutela”, SSM e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare.

[15]6° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia”, Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul sistema agroalimentare, Minerva, 2019.

Roberto Sciacchitano

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