La fase esecutiva nel processo penale

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Con l’adozione di un provvedimento giurisdizionale di condanna che acquisisce definitività si riconosce, in modo irreversibile la responsabilità penale dell’autore.

Una volta esaurito il processo di cognizione con il conseguente superamento della presunzione di non colpevolezza si determina la condizione indispensabile per l’apertura del procedimento diretto all’attuazione delle decisioni contenute nel provvedimento di condanna.

Nonostante sia automatico ricondurre l’esecuzione del comando sanzionatorio alla stretta connessione che esiste tra il binomio “giudizio – condanna”, per un verso, il giudizio di colpevolezza non rappresenta l’unico epilogo del processo penale e, per altro, la stessa attivazione del processo è naturalmente fonte di afflizione per il destinatario dell’accertamento penale.

Se non è relativa all’ambito cautelare, l’esecutività del provvedimento giurisdizionale presuppone la irrevocabilità che, a sua volta, si concretizza con l’esaurimento della giurisdizione di cognizione. La conseguente formazione del giudicato determina la creazione del presupposto necessario per l’apertura della fase esecutiva.

Si tratta di una fase autonoma, perché distinta, rispetto a quella cognitiva, ma, di solito, ad essa conseguente, perché la forza esecutiva dei provvedimenti giurisdizionali dipende dalla loro irrevocabilità (ex art. 650 c.p.p.), la quale pretende che un giudizio si sia concretizzato con l’esercizio della funzione giurisdizionale, nel rispetto dell’eventuale ricorso al doppio grado di giurisdizione anche di merito (ex art. 648 c.p.p.).

In estrema sintesi, si può affermare che l’esecuzione penale, così come disciplinata nel libro X del codice di rito, comprende l’attuazione di quei provvedimenti, in capo agli organi, di volta in volta, legittimati, diretti all’attuazione del comando sanzionatorio contenuto nel titolo esecutivo.

Nell’ambito dei rapporti con autorità giudiziarie straniere, i meccanismi esecutivi conseguono all’attivazione del procedimento di estradizione“attiva”, cioè dall’estero (ex artt. 720 ss. c.p.p.) o all’emissione di mandato di arresto europeo (con procedura attiva ex artt. 28-33 l. n. 69/2005) vale a dire azionando procedure dirette a ottenere la consegna della persona nei confronti della quale la sanzione penale deve essere eseguita.

Nel rispetto di quanto consacrato sia nelle Carte internazionali dei diritti fondamentali sia nella Costituzione italiana, l’esecuzione della sanzione penale deve avvenire secondo modalità idonee a favorire, al suo termine, il reinserimento del condannato nella comunità sociale.

In via prioritaria, queste modalità esecutive non possono intaccare la dignità della persona, né consistere in trattamenti disumani e degradanti, anche se questo rappresenti l’indefettibile presupposto di qualsiasi società civile, il controllo giurisdizionale in sede sovranazionale ha censurato più volte l’attuale situazione penitenziaria nazionale.

Si allude al fenomeno del “sovraffollamento carcerario” – documentato dal grande divario tra la capienza massima e quella effettiva che esiste negli istituti penitenziari, determinante per la Corte europea condizioni di vita ritenute integranti la violazione di cui all’articolo 3 CEDU.

In ragione della “messa in mora” conseguente alle ultime condanne della Corte europea, il legislatore ha apportato, in via di urgenza, riforme all’ordinamento in grado di incidere efficacemente sul fenomeno. Al di là di quelle che agiscono nel procedimento cautelare (ex art. 1 d.l. 1.7.2013, n. 78, conv. dalla l. 9.8.2013, n. 94; d.l. 23.12.2013, n. 146, conv. dalla l. 21.2.2014, n. 10), dirette a ridurre l’incidenza della misura coercitiva nel circuito penitenziario, il legislatore ha provveduto in materia di sospensione dell’esecuzione delle pene detentive, estendendone l’ambito di azione (ex art. 656, co. 4-bis e 5, c.p.p., d.l. n. 78/2013, conv. dalla l. n. 94/2013), di misure alternative alla detenzione, innalzando il limite di pena per l’affidamento in prova a quattro anni (ex art. 47, co. 3-bis, ord. Penit., d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014) e ampliando l’azione della detenzione domiciliare (d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014), nonché di liberazione anticipata prevista dall’articolo 54 dell’Ordinamento Penitenziario, aumentando la detrazione a settantacinque giorni per ogni singolo semestre di pena scontata (ex art. 4 d.l. n. 146/2013, conv. dalla l. n. 10/2014). La stessa cassazione non ha mancato di sottolineare la stretta connessione che esiste tra questi istituti e il fenomeno del sovraffollamento (Cass. pen., 11.12.2013-10.2.2014, n. 6138, in relazione alla detenzione domiciliare come funzionale all’alleggerimento del carico carcerario).

Il rispetto delle fonti sovranazionali, nel più ampio quadro di cooperazione giudiziaria prevista in uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia, impone però altri necessari adeguamenti del nostro ordinamento.

Se alcuni sono stati soddisfatti in vista del perseguimento degli obiettivi programmati in sede europea, come nel caso dell’attuazione della Carta dei detenuti (d.m. 5.12.2012) o dell’adeguamento alle disposizioni dello statuto istitutivo della Corte penale internazionale (l. 20.12.2012, n. 237), altri anche adesso non si sono perfezionati nonostante i solleciti provenienti dai vari organismi sovranazionali.

Il panorama normativo è diretto a cambiare ancora in modo significativo, a seguito dell’approvazione della delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie (reclusione e arresti domiciliari) e dell’entrata in vigore della riforma relativa alla sospensione del processo con messa alla prova (l. 28.4.2014, n. 67).

Il panorama normativo evidenzia modalità esecutive differenziate in ragione della diversa tipologia sanzionatoria.

In relazione all’esecuzione delle pene detentive, l’iniziativa dell’ufficio del pubblico ministero comporta l’adozione di un ordine di esecuzione, che va consegnato all’interessato, con il quale si dispone la carcerazione del condannato (ex art. 656, co. 1, c.p.p.). Se questo è detenuto, l’ordine di esecuzione è comunicato al Ministro della giustizia e notificato all’interessato.

Al fine di assicurare la necessaria informazione, in linea con quanto oggi preteso dalla relativa direttiva UE è previsto che copia del provvedimento che costituisce titolo di custodia sia inserito nella cartella personale del detenuto e che il direttore dell’istituto penitenziario accerti, dove occorra con l’aiuto dell’interprete, che l’interessato abbia precisa conoscenza del provvedimento (ex art. 94, co. 1-bis, disp. att. c.p.p.). È anche previsto che il direttore consegni al detenuto, nel corso del primo colloquio o all’atto del suo ingresso in istituto, la Carta dei detenuti (d.m. 5.12.2012) per “consentire il migliore esercizio dei suoi diritti e assicurare la maggiore consapevolezza delle regole che conformano la vita nel contesto carcerario”.

In contemporanea all’ordine, l’ufficio del pubblico ministero emette il decreto di sospensione della stessa esecuzione ogni volta che la pena detentiva, anche se costituisca residuo di maggior pena, non risulti superiore a tre anni o quattro, nell’ipotesi di detenzione domiciliare, oppure sei, se si tratti di condannato tossicodipendente o alcooldipendente nei confronti del quale, in ragione di questo stato, si possono applicare particolari misure alternative di esecuzione. In caso di cumulo con precedenti titoli esecutivi, l’ufficio del pubblico ministero trasmette preventivamente gli atti al magistrato di sorveglianza perché provveda all’eventuale applicazione della liberazione anticipata (ex art. 656, co. da 4-bis a 4-quater, c.p.p.).

L’ordine di esecuzione e il decreto di sospensione sono notificati al condannato e al difensore nominato per la fase dell’esecuzione o, in difetto, al difensore che lo ha assistito nella fase del giudizio (ex art. 656, co. 5, c.p.p.).

Il meccanismo sospensivo è giustificato dall’esigenza di evitare il transito per l’istituto penitenziario nei confronti di quei condannati che si trovano nelle condizioni per poter ottenere dal tribunale di sorveglianza la concessione di una misura alternativa alla detenzione (affidamento in prova, detenzione domiciliare, detenzione domiciliare speciale).

Condizioni ostative alla sua azione sono espressamente individuate dal legislatore in situazioni che denotano una particolare pericolosità che si deduce dal tipo di delitto commesso e dall’attualità della misura custodiale in carcere per il fatto oggetto della condanna (ex art. 656, co. 9, c.p.p.) . A questo si aggiunge l’impossibilità di usufruire della sospensione più di una volta per la stessa condanna (ex art. 656, co. 7, c.p.p.).

Questo meccanismo sospensivo si differenzia da quello che compete al magistrato di sorveglianza (ex art. 47, co. 4, l. 26.7.1975, n. 354), che agisce, innanzitutto, nel corso dell’esecuzione, anche in relazione alle altre situazioni determinanti, ex lege, il differimento obbligatorio o facoltativo dell’esecuzione ai sensi degli articoli 146 e 147 del codice penale.

In sede applicativa si è anche precisato che, se il condannato si trova nelle condizioni per essere ammesso alle misure alternative alla detenzione, ha diritto esclusivamente alla sospensione prevista dall’articolo 656 del codice di procedura penale e, dove il beneficio gli venga negato dal tribunale di sorveglianza, l’interessato non può usufruire di una seconda sospensione, ai fini dell’esecuzione di pena detentiva non superiore a diciotto mesi presso il proprio domicilio su provvedimento del magistrato di sorveglianza.

Dott.ssa Concas Alessandra

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