di Caterina Silvestri
L’art. 5 della dir. Ue n. 104 del 2014, definisce nella versione italiana «divulgazione delle prove» il peculiare istituto[1] previsto per acquisire documenti, ma più in generale le “prove” necessari nel giudizio di risarcimento danni in favore delle persone e delle imprese che siano state danneggiate da comportamenti anticoncorrenziali .
L’espressione pare derivare dalla traduzione della locuzione «disclosure of evidence» ricorrente nella versione inglese della direttiva, piuttosto che dal lemma «production de preuves» utilizzata nella versione francese. E’ lecito ritenere che la scelta sia del tutto consapevole e voluta proprio in considerazione della tradizione consolidata che la disclosure ha negli ordinamenti di common law e del suo significato ampio, tale da investire tutti gli elementi difensivi utilizzabili e non soltanto i documenti.
I lavori preparatori confermano l’espresso e preciso obiettivo della direttiva di «prevedere un accesso alle prove che consenta ai soggetti danneggiati di ottenere le informazioni pertinenti di cui hanno bisogno per intentare l’azione di risarcimento danni», che pur dovesse restare sotto il controllo giurisdizionale sia per garantire la preservazione dei diritti delle parti che potrebbero trarre nocumento da strumenti non proporzionati alle esigenze del contenzioso, quali il diritto alla riservatezza, sia per dare una delimitazione più chiara ai poteri del giudice, usciti troppo indefiniti dalla nota pronuncia Pfleiderer[2].
Il testo licenziato dal legislatore Ue è, del resto, inequivocabile nel considerare l’accesso alle informazioni, in una materia notoriamente caratterizzata dall’asimmetria informativa, come uno degli strumenti più incisivi nel perseguire l’intento di offrire«un pieno risarcimento» a coloro che siano stati danneggiati dalla violazione della normativa antitrust. Questo scopo ricorre come un mantra nei considerando e in numerose disposizioni della direttiva, correlato, forse indispensabilmente, al carattere effettivo della tutela: così enuncia il quarto considerando, richiedendo che ogni Stato membro disponga di «norme procedurali» e di «mezzi di ricorso» che «garantiscano l’effettivo diritto» al risarcimento e «una tutela giurisdizionale effettiva», come previsto dagli artt. 19, comma 2°, n. 2 tr. Ue. Fonte dell’informazione e fonte della prova traspaiono, in certi passi della direttiva, come elementi quasi sovrapponibili, che partecipano della stessa natura, costituita dall’esercizio di un adeguato diritto di difesa: così il quattordicesimo considerando, che sottolinea come informazioni e prove siano spesso detenuti esclusivamente dalla controparte o da terzi e non siano accessibili al danneggiato, con ciò stigmatizzando anche quei sistemi processuali statali che richiedono un’indicazione dettagliata dei fatti e delle prove sin dall’avvio del giudizio, come in grado di «impedire in maniera indebita l’esercizio efficace del diritto al risarcimento»[3].
L’indicazione è ripetuta dall’art. 4, il quale richiama anche il principio di equivalenza, secondo il quale le violazioni degli artt. 101 e 102 TFUE in nessun caso devono dare luogo a un trattamento meno favorevole di quello previsto per la violazione delle norme nazionali: si dica subito che, nel caso italiano, la tutela offerta dalla direttiva in questione è superiore a quella derivante dal diritto interno, che detta con la l. n. 287 del 1990 le norme a tutela della concorrenza e del mercato, nella quale non ricorre la previsione di accorgimenti processuali tarati sulle speciali esigenze di questo contenzioso.
L’art. 5 della direttiva, dunque, raccoglie e traspone sul piano istruttorio, le indicazioni di effettività della tutela, affidandole in larga misura all’istituto della divulgazione delle prove. Si osservi che l’assetto che quest’ultima riceve nella norma in questione, costituisce il suo contenuto minimo, la cui latitudine potrà essere ampliata, ma non ridotta, dai legislatori nazionali, come predica l’ultimo comma della disposizione, a tenore del quale «il presente articolo non impedisce agli Stati membri di mantenere o introdurre norme che prevedano una divulgazione più ampia delle prove», ferme restando le garanzie che i giudici dovranno adottare per garantire la riservatezza delle informazioni e la tutela del terzo ingiunto, cui dovrà pure essere data la possibilità di essere sentito prima dell’ordine di divulgazione[4], che sole costituiscono profili esclusi dalla disponibilità dei legislatori nazionali[5]
Ciò precisato, l’art. 5 prevede l’istanza di parte, che dovrà essere motivata con riferimento all’azione intentata e ai «fatti e prove ragionevolmente disponibili che siano sufficienti a sostenere la plausibilità della sua domanda di risarcimento del danno» (art. 5, n. 1) e riguardare «la divulgazione delle prove rilevanti» che rientrino nel controllo del convenuto o del terzo.
Il giudizio di “ragionevole disponibilità” della prova e di “plausibilità” della domanda introducono, a mio avviso, a un margine di discutibilità sia sulla detenzione del documento da parte del terzo, sia sul valore probatorio che lo stesso è suscettibile di assumere nel giudizio, dando rilievo a una certa valenza esplorativa dell’istanza, che può investire questi due profili, ben distanti da quella impossibilità di provare altrimenti che ancor oggi soverchia l’utilizzabilità del nostrano ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c.
Mi pare che questa apertura esplorativa sia confermata dal successivo n. 2 dello stesso art. 5, il quale prevede che i giudici possano ordinare «la divulgazione di specifici elementi di prova o rilevanti categorie di prove definiti nel modo più preciso e circoscritto possibile sulla base dei fatti ragionevolmente disponibili nella richiesta motivata.».
E’ chiaro che anche nell’ottica del legislatore europeo debba esserci uno sforzo teso all’individuazione del documento, ma l’apertura alla «categoria di prove», incunea uno spazio di ricerca, consentendo una richiesta che investa, per esempio, tutta la documentazione concernente un certo periodo temporale, senza bisogno di una specifica indicazione del documento.
Certamente l’istituto tratteggiato dalla direttiva Ue non integra, e nemmeno si avvicina, alla fishing expedition di impronta statunitense, delineatasi, si ricorderà, nel caso Hickman del 1947, nel quale fu affermato che per proporre una domanda di discovery è sufficiente, cito a memoria, un’idea generale del pesce che il pescatore spera di catturare[6]. La direttiva non adotta finalità apertamente e dichiaratamente esplorative, ma traspare dal suo impianto generale la presa d’atto che il garantire l’accesso all’informazione e alla prova implica una necessaria attività di ricerca, che deve essere mirata e verosimile, ma che è altresì priva di certezza, atteso che è proprio il gap informativo e probatorio che l’istituto vuole colmare.
Per quanto inusuale nel nostro sistema, la direttiva vi trasporta, dunque, uno strumento istruttorio, la «divulgazione di prove», di nuovo conio e che va oltre la semplice acquisizione del «documento», nozione compresa[7] ma non esaurita dal più ampio concetto di «prove», tra l’altro utilizzato al plurale, che «fornisce al giudice gli strumenti necessari per la ricostruzione in giudizio di accadimenti passati, consentendogli in tal modo di formare il proprio convincimento sulla verità (o sulla non verità) dei fatti storici»[8], come del resto precisa in senso analogo la definizione offerta dall’art. 3, n. 13 della direttiva.
Alla luce dell’impianto prescrittivo e degli scopi della direttiva, non mi pare che l’istituto europeo possa essere depotenziato e rimodellato sul calco dell’art. 210 c.p.c.[9] e magari della sua tradizionale restrittiva lettura.
Il timore è che questi ultimi soverchino anche la devoluzione delle prove Ue, già forse riletta in tono minore dal titolo «esibizione delle prove» con cui l’ha recepita l’art. 3, d.lgs. n. 3 del 2017.
L’utilizzo del termine «esibizione» è già una eco culturalmente sfavorevole e minacciosa di una pigra associazione interpretativa con l’esibizione documentale, benché il mantenimento del complemento «prove», al plurale, lasci aperta perlomeno l’aspirazione a un istituto più moderno e effettivo.
Molto è rimesso al respiro interpretativo che la giurisprudenza saprà offrire alla locuzione «categoria di prove», su cui si basa l’istituto e su cui pure sorge qualche sospetto di fedele ricezione, alimentato dal tono e dal tenore dell’art. 3, n. 2, del d.lgs. n. 3 del 2017. Quest’ultimo si premura di precisare, e inevitabilmente di circoscrivere, il significato della «categoria di prove», la quale nell’ordine di esibizione dovrà essere «individuata mediante il riferimento a caratteristiche comuni dei suoi elementi costitutivi come la natura, il periodo durante il quale sono stati formati, l’oggetto o il contenuto degli elementi di prova di cui è richiesta l’esibizione che rientrano nella stessa categoria.».
Natura, periodo, oggetto o contenuto, nell’ottica del legislatore italiano divengono, dunque, i parametri attraverso i quali trova specificazione e individuazione la classe di mezzi istruttori di cui intenderebbe avvalersi il danneggiato: si tratta di una elencazione di cui la norma non indica il carattere esemplificativo o tassativo, ma non può che ritenersi di natura meramente indicativa, atteso che argomentare diversamente esporrebbe l’art. 3 del d.lgs n. 3 del 2017, alla disapplicazione per contrarietà alla dir. n. 104 del 2014 la quale, come si è detto poco sopra, fissa parametri minimi delle tutele, non depotenziabili dai legislatori nazionali.
Di peculiare interesse è anche l’art. 5, n. 3, della direttiva, il quale demanda al giudice cui sia richiesto l’ordine di esibizione il giudizio di proporzionalità tra la misura richiesta e gli interessi in gioco. E’ la stessa norma a indicare gli aspetti che il giudice dovrà considerare, consistenti: a) «in quale misura la domanda di risarcimento gli argomenti di difesa siano corroborati da fatti e prove disponibili che giustificano la domanda di divulgazione delle prove;»; b) «la portata e costi della divulgazione in particolare per i terzi interessati, anche al fine di prevenire la ricerca generica di informazioni verosimilmente non rilevanti per le parti nel procedimento;»; c) «se le prove di cui è richiesta la divulgazione contengano informazioni riservate in particolari riguardanti parti terze, e le modalità atte a proteggere tali informazioni riservate.».
Si tratta, evidentemente, anche in questo contesto, di un giudizio di rilevanza che il giudice dovrà svolgere circa l’utilità della prova oggetto della richiesta di esibizione nell’àmbito dell’azione risarcitoria esercitata, ma questa utilità probatoria non costituisce l’unico profilo che il giudice deve valutare, aggiungendosi l’ineliminabile valutazione dei costi economici legati all’ordine in questione[10].
Il giudice dovrà anche preoccuparsi, alla luce di questi elementi, di combinare l’utilità suscettibile di essere tratta dall’esibizione con la natura riservata delle informazioni eventualmente portate dalla divulgazione (art. 5, n. 4).
Sul piano delle sanzioni, l’art. 8, n. 1 della direttiva, pur rimettendo alla legge interna la loro specificazione, individua i comportamenti che ne dovranno costituire l’oggetto: il mancato rispetto o il rifiuto di rispettare l’ordine di divulgazione di un giudice nazionale, la distruzione di prove, la violazione degli obblighi imposti dall’ordine a tutela di informazioni riservate, la violazione dei limiti all’uso delle prove previsti dalla direttiva medesima.
La stessa norma, al n. 2 detta anche i criteri di determinazione delle sanzioni, le quali dovranno essere «efficaci, proporzionate e dissuasive (…)». La disposizione accoglie anche quella che fu un tempo l’indicazione di Andrioli circa le conseguenze che la violazione dell’ordine di divulgazione è suscettibile di esplicare sul contenzioso, specificando che le sanzioni comprendono «la possibilità di trarre conclusioni negative, quali presumere che la questione sia stata provata o respingere in tutto o in parte domande e eccezioni, e la possibilità di ordinare il pagamento delle spese.»
L’art. 6 del d.lgs, n. 3 del 2017, ha recepito queste indicazioni e ha fissato serie sanzioni amministrative pecuniarie a carico della parte inadempiente, devolute a favore della cassa delle ammende, che vanno da euro 15.000,00 a euro 150.000,00, oltre alla possibilità che il giudice, ferme restando le sanzioni pecuniari, possa «valutato ogni elemento di prova, [può] ritenere provato il fatto al quale la prova si riferisce» (art. 6, n. 6).
Sarà il tempo a dirci se la tradizione che obera l’art. 210 c.p.c. sarà in grado di contagiare, disinnescandone la funzionalità, la divulgazione di prove Ue, o se sarà quest’ultima a incoraggiare una lettura dell’istituto interno in chiave di effettività e in linea con il mutato contesto sociale e giuridico.
[1] Definisce, invece, «mediamente innovative» le norme in questione, A. Fabbri, La “esibizione” istruttoria nel private enforcement del diritto antitrust, in Il private enforcement antitrust dopo il d.lgs 19 gennaio 2017, n. 3, a cura di Sassani, Pisa, 2017, p. 169.
[2] Così il Parere del Comitato economico e sociale europeo in merito alla proposta di direttiva del 6 marzo 2014, COM(2013) 404 final — 2013/0185 (COD), in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=celex:52013AE4975#ntr5-C_2014067IT.01008301-E0005, cui appartengono le espressioni virgolettate del testo. Corte giust., 14 giugno 2001, Pfleiderer AG c. Bundeskartellamt, C-360/09, in http://curia.europa.eu/juris/liste.jsf?language=it&num=C-360/09&td=ALL, la quale, adita in via di interpretazione pregiudiziale in materia di intese e in particolare sul regolamento n. 1 del 2003, concernente l’applicazione delle regole di concorrenza di cui agli articoli 101 e 102 tr. FUe, ha stabilito che le norme europee non ostano a che un soggetto, danneggiato da un’infrazione al diritto della concorrenza dell’Unione e che intenda conseguire il risarcimento del danno, ottenga l’accesso ai documenti relativi ad un procedimento di clemenza riguardante l’autore di tale infrazione, precisando che: «Spetta tuttavia ai giudici degli Stati membri, sulla base del loro diritto nazionale, determinare le condizioni alle quali un simile accesso deve essere autorizzato o negato, procedendo a un bilanciamento tra gli interessi tutelati dal diritto dell’Unione». Si veda anche Green Paper, Damages actions for breach of the EC antitrust rules, {SEC(2005) 1732}/* COM/2005/0672 final */, in https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/ALL/?uri=CELEX%3A52005DC0672, séguito dal White Paper, Damages actions for breach of the EC antitrust rules, Brussels, 2.4.2008 COM(2008) 165 final, in https://www.ab.gov.tr/files/ardb/evt/1_avrupa_birligi/1_6_raporlar/1_1_white_papers/com2008_white_paper_on_damages_actions_for_breach_of__ec_antitrust_rules.pdf.
[3] In senso adesivo i rilievi di De CRISTOFARO, Innovazione e prospettive nella dimensione processuale che sta al cuore del private antitrust enforcement, cit., par. 8, e ivi, supra, nota n. 22.
[4] La possibilità dei legislatori nazionali di predisporre misure più incisive è, infatti, fatta salva dall’art. 5, n. 8 «fermi restando i paragrafi 4 e 7 e l’art. 6» che, appunto, disciplinano la divulgazione che implica doveri di riservatezza, la posizione del terzo e prove incluse nel fascicolo di un’autorità garante della concorrenza.
[5] Sulla trasposizione della direttiva in Germania, Francia, Italia, Spagna, Inghilterra e Galles, AA.VV., La transposition de la directive 2014/104/UE relative aux actions en dommages et intérêts pour violation du droit des pratiques anticoncurrentielles, Dossier Concurrences, in Revue des droits de la concurrence, 2015, 2, p. 11, può leggersi anche al seguente sito file:///C:/Users/Caterina%20Silvestri/Documents/Caterina/Universit%C3%A0/Articoli/Ordine%20di%20esibizione/03Concurrences_2-2015_Dossier_A.-S._Chone-Grimaldi_et_al-1.pdf
[6] Hickman v. Taylor, 329 U.S. 495 (1947). Per un’analisi dell’istituto statunitense, Taruffo, voce Diritto processuale civile dei paesi anglosassoni, in Dig., disc. priv., sez. civ., VI, Torino, 1990, p. 355; Dondi, Questioni di efficienza della fase preparatoria nel processo civile statunitense (e prospettive italiane di riforma), in questa rivista, 2003, p. 164; Ficcarelli, Esibizione di documenti e discovery, cit., p. 142 ss.
[7] Sulla nozione di documento, supra nota n. 1.
[8] La definizione è di Comoglio, Le prove, in Trattato di diritto privato, a cura di Rescigno, Torino, 2010, p. 181.
[9] Non mi pare che condividano le considerazioni da me espresse nel testo Finocchiaro, La divulgazione delle prove nella direttiva Antitrust Private Enforcement, in Riv. dir. ind., 2016, 3, p. 221; De Santis, Processo civile, antitrust litigation e consumer protection, in Riv. dir. proc. civ., 2015, p. 1495; cfr. Giussani, Direttiva e princìpi del processo civile italiano, in Quaderni di AIDA, XXIV, Milano, 2015, p. 251, che mi pare si limiti a esprimere rilievi di comunanza on l’ordine di esibizione di diritto interno e la divulgazione di fonte Ue; Vincre, La Direttiva 2014/104/UE sulla domanda di risarcimento del danno per violazione delle norme antitrust nel processo civile, in Riv. dir. proc. civ., 2015, p. 1153; sottolinea la novità della divulgazione rispetto all’ordine di esibizione Fabbri, La “esibizione” istruttoria nel private enforcement del diritto antitrust, cit., p. 175.
[10] Si tratta di un esempio di gestione del processo da parte del giudice al quale non sono estranee considerazioni di carattere economico; Cadiet, Case management judiciaire et déformalisation de la procédure, in Rev. française d’administration publique, 2008, n. 125, pp. 133-150, può leggersi all’indirizzo internet https://www.cairn.info/revue-francaise-d-administration-publique-2008-1-page-133.htm; De Cristofaro, Case management e riforma del processo civile inglese tra effettività della giurisdizione e diritto costituzionale al giusto processo, in Riv. dir. proc., 2010, p. 290 ss.; Caponi, Doing business come scopo del processo civile?, in Foro it., 2015, IV, c. 10.
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