La direttiva rimpatri ed il caso el dridi

Corsi Giuseppe 26/04/12
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Nella sentenza El Dridi del 28 aprile 2011, la Corte di Giustizia ha riconosciuto il contrasto tra la direttiva rimpatri (2008/115/CE), dotata di effetto diretto, e il reato ex art.14 del t.u. Immigrazione , inerente l’inottemperanza dello straniero all’ordine di allontanamento, così come previsto nella prima versione, anteriore al d.l. n.89/2011 (convertito dalla l. n.129/11).

A tal riguardo, si specifica, fin d’ora, che, in virtù dell’art. 2 del codice penale italiano, vige il principio del favor rei, per cui si applica la normativa favorevole successiva al caso concreto.

Nel paragrafo n.55 della medesima sentenza, viene enunciato il seguente principio relativo all’incidenza del diritto dell’Unione sul diritto penale degli Stati membri: essi non possono legiferare in modo “tale da compromettere la realizzazione degli obbiettivi perseguiti da una direttiva e da privare così quest’ultima del suo effetto utile”.

Ne deriva che, qualora l’effetto utile venga reso vano dalla normativa nazionale, quest’ultima deve essere disapplicata da parte del giudice interno.

Gli obbiettivi perseguiti dalla Direttiva rimpatri sono rappresentati dal seguente interesse : l’efficacia delle procedure di rimpatrio e la tutela dei diritti fondamentali dello straniero (ad esempio, la libertà personale).

Tale interesse sono pregiudicati nel caso in cui la normativa interna sanzioni l’inosservanza della procedura di rimpatrio con una pena detentiva inflitta a carico del cittadino extra-”comunitario” inottemperante alla medesima procedura.

Esaminando l’efficacia della procedura di ogni stato membro ai fini di un rimpatrio effettivo, nella sentenza El Dridi la corte afferma che la pena detentiva, inflitta durante la procedura di espulsione, non è funzionale alla produzione dell’effetto utile della direttiva n.115/08.

Più precisamente, possiamo parlare di un sistema “graduale” perseguito dalla UE: vi deve essere, cioè, una vera e propria gradualità, nel rispetto del principio di proporzione e dei diritti fondamentali . Quindi, occorre preferire, in primo luogo, il rimpatrio volontario a quello forzato ( “considerando”, par. 10), garantendo altresì: un periodo per consentire il medesimo rimpatrio volontario; una specifica assistenza e consulenza, sfruttando il fondo europeo per i rimpatri (“considerando”, n.10); l’assistenza legale d’ufficio (“considerando”, nn. 11 e 13, IV comma).

Il periodo ove effettuare la partenza volontaria, invece, può non essere concesso, od essere concesso per un termine più breve di 7 giorni (art. 7, comma IV della direttiva) solo nel caso in cui vi sia il rischio che si perdano le tracce del soggetto (“rischio di fuga”) o se la persona costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, la pubblica sicurezza o la sicurezza nazionale, .

A contrario, una pena detentiva, che implica la permanenza del cittadino straniero nel territorio nazionale, ritarda l’esecuzione della procedura di rimpatrio e, quindi, ritarda l’effetto utile dell’espulsione.

Dunque , occorre ricorrere, scaduto il termine di allontanamento volontario, alle misure coercitive ex art.8 n.4 della Direttiva (come l’accompagnamento coattivo alla frontiera). Qualora tali misure non siano efficaci rispetto all’obbiettivo posto dal paragrafo n.52, lo Stato potrà applicare misure penali nei confronti dei cittadini irregolari.

Ciò premesso, si comprende meglio la ratio per cui l’art.14, V comma ter, del t.u. Immigrazione sia stato riformato dal d.l. n.89 del 2011, con la multa in luogo della reclusione!

Per quanto concerne il rispetto dei diritti fondamentali dello straniero, la sentenza El Dridi, al paragrafo n.33, afferma che la Direttiva rimpatri “non permette agli Stati membri di applicare norme più severe nell’ambito che essa disciplina”.

La Direttiva consente il “trattenimento” dello straniero irregolare in centri di permanenza temporanea, solo ed unicamente al fine di “preparare il rimpatrio e/o effettuare l’allontanamento”.

Questa misura è soggetta ai presupposti oggettivi del pericolo di fuga o della sussistenza oggettiva di condotte poste in essere dall’agente al fine di impedire il proprio rimpatrio. I termini non devono essere superiori ai sei mesi, prorogabili per un massimo di ulteriori dodici.

Essa è comunque una misura diversa dalla reclusione in carcere.

Il trattamento disciplinato ex artt. 15 e 16 è, secondo il paragrafo 42, “la misura più restrittiva della libertà che la direttiva consenta nell’ambito di una procedura di allontanamento coattivo” e le pene della reclusione e dell’arresto sono peggiori del centro di permanenza temporanea e non garantiscono l’”effetto utile” di tutela dei diritti fondamentali.

Per completezza, riporto, come precedenti al d. l. n. 89 del giugno 2011, Trib. Torino, sent. 5/I/11, ove il giudice competente ha disapplicato il delitto di inosservanza dell’ordine di allontanamento del questore per contrasto con la direttiva dei rimpatri; Trib. Nola, sent. 17/II/11 per ragioni analoghe; contra, Corte di Appello di Ancona, 31/I/11, che nega, invece, la disapplicabilità dell’art.14, V c. ter, sulla base dell’argomentazione del difetto di competenza dell’UE in materia penale, nonchè per la legittimità dell’ordine di espulsione antecedente al termine di recepimento della direttiva rimpatri.

Successivamente alla novella del giugno 2011, trovo significativa Cass., sez. I pen., sent. 23.9.2011 (dep. 10.10.2011), n. 36451, per cui si perviene all’intimazione di allontanamento solo dopo l’esito infruttuoso dei meccanismi di agevolazione della partenza volontaria ed alla scadenza del periodo di trattenimento presso un centro ad hoc ( dando una interpretazione sistematica alla ratio dell’effetto utile sopra evidenziata).

Corsi Giuseppe

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