La devianza criminale minorile la tutela dei figli di mafia tra diritto civile e penale: i rapporti tra i provvedimenti civilistici de potestate e la pena accessoria della decadenza dalla responsabilità genitoriale           

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SOMMARIO: 1.Introduzione: la devianza criminale minorile – 2.Gli innovativi provvedimenti de potestate in contesti familiari di mafia: cenni preliminari – 3.I provvedimenti civilistici ex. Artt. 330-333 c.c. Nella prassi tradizionale – 3.1 Ed il  procedimento– 4. Il nuovo filone giurisprudenziale dei provvedimenti de potestate in contesti di mafia: premessa-4.1 Presupposti e valutazione del giudice- 4.2 Le prime critiche- 4.3 Fondamento costituzionale della nuova ermeneutica – 4.4 Riflessioni – 5. Pene accessorie: in generale – 5.1 Pena accessoria della decadenza sospensione dalla responsabilità genitoriale- 5.2 Pena accessoria della decadenza sospensione dalla responsabilità genitoriale in presenza di reati di mafia – 6. Rapporti tra provvedimenti civilistici de potestate e pena accessoria de qua – 6.1 Attuale e permanente utilità dei  provvedimenti civilistici de potestate – 7. Proposte e riflessioni conclusive

1.Introduzione

La devianza minorile criminale rappresenta un fenomeno  che, sempre più frequentemente, si tramanda  all’interno di nuclei familiari contigui a contesti mafiosi, a causa di una educazione fondata sulla trasgressione delle regole del vivere civile e sulla divulgazione della cultura mafiosa di generazione in generazione.

Ciò premesso, è possibile cogliere  l’efficacia di un  intervento statuale in tali contesti, sottoforma di un provvedimento giurisdizionale  de potestate, che sarebbe idoneo, da una parte, ad  aggredire, seppur di riflesso, le strutture mafiose  dal punto di vista delle risorse umane, impedendo, a monte, che vi siano i presupposti per una rigenerazione  del fenomeno mafioso, dall’altra, di tutelare i minori  appartenenti alle famiglie mafiose, i quali, rappresentano  le prime vittime dei sodalizi criminali, spesso subendo, in prima persona, un grave pregiudizio al loro patrimonio morale, in quanto condizionati negativamente dal crescere all’interno di contesti familiari in cui la sopraffazione, la violenza, il perseguimento del potere ad ogni costo, rappresentano dei (dis)valori da tramandare di generazione in generazione. È innegabile, infatti,  che, in alcuni ambienti criminali, sia fondamentale la componente familiare che, sovente, implica il coinvolgimento di figli minorenni all’interno delle attività criminose. Famiglie, in cui la cultura mafiosa viene  tramandata per assicurare un continuum criminale che impedisce di liberarsi dall’ingombrante ombra familiare o di collaborare con le forze dell’ordine.

Si tratta di microcosmi connotati dalla divulgazione della mentalità mafiosa a cui i minori vengono abituati ed educati sin da piccoli. Minori, che fin dall’infanzia sono abituati a concepire lo Stato come nemico, uno Stato rappresentato nella sua veste esclusiva di stampo repressivo. Uno Stato concepito, a sua volta,  come il“mostro”che arresta e condanna i genitori o che impedisce di esercitare ai propri familiari delle  attività illecite che rappresentano, tuttavia, nell’ottica del minore, l’unica fonte di sostentamento dei bisogni familiari. Ed è proprio in assenza della componente maschile, spesso attinta da provvedimenti coercitivi,  che è sempre più la donna ad assumere le redini della famiglia-criminale: donne, che non disdegnano di gestire, in assenza dei propri mariti, gli affari criminosi di famiglia, con grande lucidità ma anche con spiccata durezza. Da ciò, si comprende come in taluni contesti familiari sia proprio la donna, rappresentata da una madre, da una zia, da una nonna, a costituire la cerniera tra i minori ed il sodalizio criminale. La famiglia rappresenta pertanto l’humus in cui i figli di mafia , sin dall’infanzia,vengono indottrinati a concetti come la vendetta, la violenza, le faide familiari .

Per comprendere e contrastare le mafie, è, pertanto, necessario analizzare e prevenire la cultura mafiosa con cui, spesso,  i bambini appartenenti a famiglie malavitose, sono portati ad annullare i propri sentimenti , a trasgredire le regole, a concepire l’appartenenza ad una famiglia mafiosa come motivo di vanto, specie nei rapporti relazionali con i loro coetanei, che, a loro volta vedranno in quel compagno di classe, in quell’amichetto, un punto di riferimento, un’amicizia di cui andare fieri. Si tratta di bambini e di ragazzi che ambiscono a diventare boss pur nella “consapevolezza” di andare incontro alla morte o al carcere.

Tuttavia, non si tratta di ambizioni pienamente consapevoli, in quanto rappresentano solo l’esito di una inconscia recezione di valori antisociali derivanti da una diseducazione familiare che ha impedito loro di poter scegliere “liberamente” il proprio percorso di vita. Per questi ragazzi sarà difficile se non impossibile, in concreto,  progettare o decidere di intraprendere un’attività lavorativa lecita in quanto, per loro, la strada sembra già scritta: una strada senza alternative, in cui ciò che per la società costituisce un fenomeno da rigettare, per loro rappresenta l’unica normalità perseguibile. Pertanto, poiché tale mentalità mafiosa si tramanda di generazione in generazione, l’unico modo per consentire a tali minori di avere una effettiva e  concreta libertà di scegliere è quello rappresentato da un intervento dello Stato finalizzato al sostegno del corretto sviluppo psicofisico del minore mediante l’interruzione della catena criminosa familiare e di porre, così,  in seria difficoltà le strutture mafiose che, sempre più frequentemente, ricercano  nuovi adolescenti da reclutare ed  inglobare nel proprio “sistema”. Ragazzi attratti dall’idea del rispetto guadagnato con la sola violenza, dall’accumulo quotidiano di denaro, dal farsi rapidamente una famiglia a cui tramandare, a loro volta, i valori antisociali inculcati dai propri genitori, in una spirale senza fine.

Tuttavia, poiché la validità di una norma e di un provvedimento giuridico  non può sganciarsi dalla sua effettività e dalla sua efficacia nella realtà sociale, è necessario analizzare e differenziare i contesti sociali, economici, territoriali, familiari e criminosi in cui tali provvedimenti andranno applicati.

Non può, infatti, negarsi che la ‘ndrangheta e la mafia rappresentino  dei fenomeni criminosi che, specie dal punto di vista strutturale, presentino delle peculiari connotazioni: un forte e frequente ricorso ai rituali di iniziazione dei nuovi affiliati, spesso connotati da sfumature pseudo religiose, volti a verificare e ad attestare l’idoneità del nuovo (giovane) adepto ad entrare a far parte dell’organizzazione criminosa; al contempo, un’organizzazione ben strutturata, di stampo gerarchico, ramificata in diversi territori, ma pur sempre riconducibile ad un unico fulcro: la Calabria o la Sicilia.Nel primo ambito, assumono  rilevanza fondamentale le “ndrine”, una sorta di famiglia allargata che rappresenta un modulo organizzativo formidabile per assicurare un continuum familiare fondato sulla lealtà e fedeltà ai propri consodali ed in cui, la devianza dai vincoli familiari e dai rispettivi valori antisociali, viene punita anche con la morte.

Diversamente, nella realtà partenopea, si assiste ad un fenomeno differente: minori inseriti in organizzazioni criminali con compiti di manovalanza (vedette e/o pusher di associazioni finalizzate al traffico e cessione di sostanze stupefacenti, operanti su piazze di spaccio sia  fisiche, aperte senza soluzioni di continuità,  che itineranti tramite l’uso dei social network o impiegati in efferate attività delittuose, tra cui rapine, estorsioni e delitti contro la persona volti ad agevolare l’affermazione violenta sul territorio del sodalizio criminale) oppure minori con ruoli di primo piano come nel caso denominato, ormai, con l’espressione “paranza dei bambini”: un cartello composto da giovanissimi adolescenti appartenenti o discendenti dalle tradizionali famiglie malavitose napoletane che, sfruttando l’assenza dei vecchi boss, ora detenuti, ora uccisi, tentano, quotidianamente, di affermarsi all’interno dei propri quartieri attraverso un uso esibizionistico della forza, spesso sfociato in stese (sparatorie intimidatorie), ovvero manifestazioni di forza compiute con delle  metodologie e  delle finalità assimilabili a quelle terroristiche. La finalità di intimidire la popolazione e gli imprenditori locali, di scacciare le vecchie famiglie malavitose, di sfidare lo Stato compiendo sparatorie nelle prossime adiacenze di luoghi istituzionali. Trattasi di ragazzi che, spesso sotto l’effetto di sostanze alcoliche o stupefacenti, si rendono colpevoli di fatti di grande allarme sociale: omicidi, estorsioni, delitti legati al traffico di stupefacenti, riconducibili a contesti associativi, spesso a  carattere familiare.

Ciò che infatti caratterizza il fenomeno camorristico rispetto alle altre mafie, è rappresentato da una progressiva fluidità e da un incessante magmatismo che è dovuto all’assenza di strutture rigide, di particolari riti di iniziazione e di selezione. A differenza dei clan casertani, infatti, nella realtà partenopea, salvo casi eccezionali, per entrare a far parte del sistema è sufficiente che il ragazzino si presenti quale figlio, nipote, cugino, parente di un personaggio affidabile. L’assenza di stringenti requisiti di carattere selettivo, rischiano quindi di agevolare e  sollecitare un intenso afflusso di minori all’interno del circuito criminoso. Ciò a cui  si assiste, ormai,  a Napoli, è uno scolorimento del confine tra micro e macro criminalità: spesso, ma non sempre, i giovanissimi componenti delle Baby gang,che, specie nel weekend, imperversano per le strade della città, con intenti delittuosi, provengono da famiglie con pregiudizi penali. È tuttavia necessario distinguere tra il fenomeno, seppur allarmante, delle baby-gang da quello della adesione dei minori a sodalizi criminali nelle forme sopra evidenziate .

Nel primo caso, si tratta di adolescenti, i quali,una volta raggiunte le zone borghesi della città, con fare di sfida,  realizzano reati per lo più di impeto sia contro il patrimonio che  contro la persona, sfruttando, in chiave intimidatrice, la forza derivante dall’essere parte di un branco. Diversamente, nel secondo caso si assiste alla intraneità del minore nelle dinamiche criminali dell’organizzazione camorristica sino alla formazione di veri e propri cartelli composti da giovanissimi  che sono succeduti ai propri ascendenti nella direzione e gestione dei traffici familiari, ponendo in essere una vera lotta generazionale contro gli  esponenti dei clan storici. Da ciò emerge, che, seppur per cause differenti, anche in Campania,  la riproduzione culturale e generazionale  della Camorra all’interno di contesti familiari, ha assicurato ed assicura, tuttora,  una irrefrenabile riproduzione organizzativa.

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La tutela giuridica del minore

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2.Gli innovativi provvedimenti de potestate in contesti familiari di mafia: cenni preliminari

Tale premessa ha messo in luce l’esigenza di guardare al fenomeno mafioso con una prospettiva diversa: non un semplice raggruppamento di clan composti da soggetti da perseguire esclusivamente dal punto di vista penale, bensì un fenomeno che ha le sue radici in fattori sociali e familiari accomunati dalla divulgazione dell’illegalità. È necessario, pertanto, adottare un approccio multidisciplinare in cui, il diritto penale, rappresenta solo uno degli strumenti e dei rimedi a cui ricorrere, senza dover assegnare ad esso una inappropriata funzione  di prevenzione che spetta, invece,  ad altri settori: interventi sociali rappresentati da un maggiore efficientamento  dei servizi sociali, delle istituzioni scolastiche e dei centri culturali. Da tale quadro, emerge che tra l’intervento repressivo di carattere penale e quello puramente preventivo, affidato alle strutture sociali, è possibile individuare un ulteriore margine di intervento statale, specificamente in ambito civilistico, mediante i provvedimenti de potestate. Esso, tuttavia, da una parte, non può assolvere ad una funzione puramente preventiva che si fondi su meri automatismi o meccanismi presuntivi assoluti e dall’altra   non deve intervenire,  in un’ottica repressiva, nei confronti dei genitori mafiosi, bensì a tutela e  salvaguardia dei loro figli, qualora vi sia il serio rischio che possano subire un pregiudizio irreversibile alla propria crescita morale e psicofisica.

In tale contesto, si collocano i provvedimenti adottati recentemente, dal Tribunale dei Minorenni di Reggio Calabria e di Napoli, che nell’ottica di una dinamica ermeneutica degli articoli 330 e 333 del codice civile, hanno disposto la decadenza o la limitazione della responsabilità genitoriale di padri e madri coinvolti in organizzazioni mafiose, disponendone l’allontanamento dei figli ed il  rispettivo collocamento in territori geograficamente e socialmente lontani da quelli in cui sono stati, loro malgrado, costretti a crescere. Provvedimenti, non contro le famiglie, bensì a salvaguardia della autodeterminazione degli adolescenti, consentendo loro di sperimentare dei contesti pedagogici e sociali differenti in cui possano essere sentirsi liberi dalle pressioni familiari proprie dei contesti mafiosi[1]. Solo indirettamente tali provvedimenti sono idonei, altresì,  ad aggredire il fenomeno mafioso nella sua essenza, ovvero il vincolo familiare che si tramanda di generazione in generazione. Trattasi di  provvedimenti tali da  suscitare reazioni eclatanti da parte degli stessi appartenenti ai clan mafiosi. Se infatti, alcuni ‘ndranghetisti dichiarati decaduti nei confronti dei rispettivi figli, hanno apprezzato l’utilità di tali provvedimenti al punto da riconoscerne la finalità di tutela del minore, in altri casi, la consapevolezza di perdere il vincolo familiare  a causa della decadenza della responsabilità genitoriale disposta dalla giustizia minorile, ha indotto alcuni esponenti della camorra di Secondigliano a reagire, in modo eclatante ed impulsivo, attraverso una raffica di proiettili esplosi nell’aprile 2016, nei confronti della caserma locale dei Carabinieri, “colpevole” di aver tolto a queste famiglie malavitose, i propri figli. La novità rappresentata dal filone giurisprudenziale inaugurato dalla giustizia minorile reggina, seguita poi  da quella partenopea, consiste, pertanto, nell’estendere l’ambito di applicazione degli articoli 330 e  333 c.c. Anche a  contesti familiari di tipo mafioso.

3.I provvedimenti civilistici ex. Artt. 330-333 c.c. Nella prassi tradizionale

Prima ancora di approfondire il nuovo filone giurisprudenziale inaugurato dai giudici minorili reggini, appare opportuno analizzare la struttura ed il quadro generico dei rimedi civilistici de potestate così come applicati nella prassi tradizionale.

Rispetto alle condotte pregiudizievoli da parte dei genitori,infatti,  il codice civile prevede il ricorso a provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale: la decadenza e la sospensione, disciplinati, rispettivamente,dagli articoli 330 e 333 c.c. Al fine di sanzionare quei genitori che non esercitino le proprie prerogative in modo responsabile e conforme ai propri doveri costituzionali. Invero, il recente uso del termine “responsabilità” genitoriale[2] in luogo di “potestà”, risulta paradigmatico della moderna  concezione del ruolo di genitore, non più titolare di un potere assoluto nei confronti del minore, bensì del connubio di diritti e di doveri spettanti ad esso, entrambi miranti alla realizzazione degli interessi personali dei figli e la cui violazione può comportare la limitazione della responsabilità genitoriale.

Occorre evidenziare che con l’articolo 330 c.c.,  il legislatore, disciplina la decadenza dalla responsabilità genitoriale, in presenza di due condotte realizzate dal genitore, entrambe sfociate nella produzione di un grave pregiudizio ai danni del figlio: la violazione / la non-curanza di doveri inerenti al suo ruolo di genitore o l’abuso dei rispettivi poteri. Sul punto, si rappresenta che, nonostante il riferimento alla “gravità” del pregiudizio nei confronti del figlio, sia volto a selezionare, ai fini della pronuncia della decadenza, le sole condotte che abbiano cagionato un nocumento rilevante e non esiguo o tollerabile, la prassi giurisprudenziale ha, tuttavia, visto estendere il concetto di “pregiudizio” al punto da concepirlo non  più come, esclusivamente “attuale”, e quindi come già verificato nella sua interezza, bensì anche “potenziale”ovvero  fondato su condotte tali da porre il minore in un serio rischio di pregiudizio psicofisico, sulla base di un accertamento in concreto da parte del giudice. Nella stessa direzione,  si è evidenziato, che il pericolo di un danno al minore sussista a prescindere dal fatto che il genitore abbia agito con la coscienza di ledere gli interessi personali della prole.

Occorre evidenziare, inoltre, che tali provvedimenti sono stati, tradizionalmente, adottati in presenza di una casistica di pregiudizi ai danni del minore, riconducibili ad una condotta pregiudizievole posta in essere da uno o da entrambi i genitori, sotto forma, sia  di condotte attive, concretizzatesi in aggressioni fisiche o psicologiche, che di  omissioni sistematiche, gravi e dannose nei confronti del minore. Nel primo caso, si fa riferimento a condotte aggressive a carattere maltrattante, realizzate attraverso  continue violenze fisiche o  ingiurie umilianti e lesive della dignità personale,  non solo direttamente ai danni del minore, bensì, anche,  nei confronti dell’altro coniuge in presenza di un figlio minorenne , il quale, essendo costretto ad assistere a tali violenze,sarà considerato quale “vittima riflessa” di tali condotte pregiudizievoli,essendone inciso il suo regolare sviluppo del patrimonio morale e psicologico.

Viceversa, come chiarito dalla recente giurisprudenza[3] in ambito penale, anche le condotte omissive, là dove caratterizzate dai connotati della continuità, della gravità e dell’incidenza pregiudizievole nei confronti dell’integrità psico-fisica del minore, sono idonee a configurare il reato di maltrattamenti, così  da consentire, anche in sede civilistica, in presenza di tali requisiti, di poter adottare provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale. Si pensi al mancato soddisfacimento dei bisogni essenziali del minore dovuti alla mancata nutrizione o alla mancata cura e tutela della salute di quest’ultimo, o alla inadeguata  vigilanza del minore che sia procurato una lesione grave che si poteva evitare adottando le dovute cautele ( graduate in base all’età del minore).

Dall’analisi dell’articolo 330 c.c. Emerge pertanto la volontà del legislatore di circoscrivere le condotte pregiudizievoli idonee  a fondare un procedimento limitativo della responsabilità genitoriale, in presenza di sole due categorie di macro-ipotesi, descritte, tuttavia,  in modo generico, tramite il ricorso a clausole aperte tali da generare un’ampia casistica.

Diversamente, qualora la condotta del genitore,pur essendo  pregiudizievole, non risulti dotata di quella gravità richiesta dall’articolo 330 c.c. , il Pm minorile, potrà chiedere la sospensione, ex art 333 c.c,dell’esercizio della  responsabilità genitoriale ed, eventualmente, l’allontanamento dalla residenza familiare, da parte  del minore. L’allontanamento di quest’ultimo, può sfociare, altresì,  nel collocamento presso un parente a lui prossimo o, qualora vi siano dei rischi di perpetuazione del pregiudizio nei confronti del minore, direttamente presso una struttura comunitaria. Occorre evidenziare, inoltre, che nella prassi si tenda a prediligere una certa  gradualità nella scelta del provvedimento de potestate, disponendosi non direttamente la decadenza, bensì la sospensione della responsabilità genitoriale  a pena di decadenza nel caso di violazione  delle prescrizioni imposte all’interno del medesimo dispositivo della ordinanza, ad esempio,  in materia di regolamentazione di incontri col minore o di imposizione di percorsi di potenziamento delle capacità genitoriali. Inoltre, la previsione  della revocabilità in ogni momento di tali provvedimenti, palesa la finalità di tutela del minore piuttosto che quella sanzionatoria a carico del  genitore, il quale laddove riesca a dimostrare, in seguito, di aver adempiuto alle prescrizioni disposte dal giudice acquisendo quelle capacità genitoriali precedentemente disconosciute e che, inoltre,   siano cessate le circostanze che avevano provocato il pregiudizio ai danni del minore, potrà chiedere la revoca sia della sospensione e della decadenza,  trattandosi di provvedimenti adottati, rebus sic stantibus, per evitare la reiterazione, per l’avvenire, di ulteriori comportamenti  dannosi da parte del genitore o la ulteriore perpetuazione degli  effetti pregiudizievoli di precedenti inadempimenti genitoriali. Si tratta, pertanto, di provvedimenti non riconducibili né ad una funzione punitiva, né puramente preventiva, in quanto richiedono, pur sempre ,che si sia verificato un pregiudizio, seppur potenziale, alla sana crescita psico-fisica del minore.

3.1 Ed il procedimento

Per  entrambi i provvedimenti, il procedimento seguito è quello descritto dall’articolo 336 c.c. Che contempla, tra i vari  soggetti legittimati ad attivarlo, anche il pubblico ministero, il quale, sulla base di una attenta attività istruttoria, formulerà un’apposita richiesta al tribunale che, assunte le dovute  informazioni e sentiti il pubblico ministero, i genitori, i servizi sociali competenti ed il minore stesso, provvederà, in camera di consiglio. Tuttavia, qualora la condotta pregiudizievole posta in essere dal genitore, presenti le caratteristiche di gravità e di urgenza tali da far emergere un pregiudizio imminente e serio ai danni del minore, la Procura minorile potrà formulare un ricorso ex articolo 330 comma 3  c.c. Con cui chiedere un  provvedimento cautelare al Tribunale per i minorenni, inaudita altera parte,a seguito del quale il minore potrebbe essere anche allontanato dal nucleo familiare nell’attesa che il giudice, una volta integrato il contraddittorio in una successiva udienza,  emani il provvedimento definitivo,  seppur revocabile, sulla base di una piena ed approfondita istruttoria che coinvolga anche i genitori.

4.Il nuovo filone giurisprudenziale dei provvedimenti de potestate in contesti di mafia: premessa

Una volta descritto il quadro tradizionale rappresentato dagli articoli 330 e 333 c.c., così come storicamente utilizzato dalla giustizia minorile nella prassi giudiziaria, si può, ora,  passare ad analizzare l’interpretazione evolutiva inaugurata dalla giustizia minorile reggina, fondata, come anticipato,  sulla applicazione di tali rimedi civilistici a tutela dei figli di mafia.

Tali provvedimenti, infatti, per quanto abbiano suscitato un certo clamore e delle perplessità circa il rischio di intromissione statale all’interno dei contesti familiari, tradizionalmente considerati avulsi da qualsiasi forma di interferenza esterna, devono essere compresi anche  alla luce di reports statistici[4] che indicano come il 40% dei minori imputati per reati di mafia appartenga a nuclei familiari già coinvolti in azioni giudiziarie connesse al 416 bis, in virtù del rischio frequente, da parte di questi minori, di replicare i codici di comportamento e relativi disvalori di provenienza familiare. I provvedimenti adottati dalla giustizia minorile a tutela dei figli di mafia partono dal presupposto che il genitore che aderisce ai valori della criminalità, rischi di educare, in concreto,  il minore alla trasgressione delle regole del vivere civile,così da procurargli un grave pregiudizio, in violazione del suo dovere genitoriale.

4.1Presupposti e valutazione del giudice

L’applicazione in tali casi degli articoli 300 e 333 c.c.,  non appare una forzatura, nella misura in cui, l’utilizzo di clausole generali ( violazione di doveri e abuso di poteri) ivi contenute da parte del legislatore, consente di assorbire le ipotesi più disparate, purché accomunate, dalla sussistenza, nell’ambito del rapporto familiare, di una correlazione tra la condotta genitoriale ed il pregiudizio ai danni del minore. L’organo giudicante, infatti, dovrà effettuare una valutazione in concreto che miri ad accertare non tanto il disvalore, in quanto tale, della  condotta del genitore, quanto se siffatta condotta cagioni o possa cagionare un nocumento all’evoluzione psicofisica del figlio. La valutazione compiuta dal giudice dovrà essere approfondita, ma altresì globale, dovendo, questi, focalizzarsi non solo sullo stretto rapporto genitori-figli, quanto anche sul contesto ambientale in cui il nucleo familiare risulta inserito. Dovrà quindi verificare se simile contesto appaia assolutamente pregiudizievole nei confronti della personalità ancora non strutturata del minore che potrebbe essere compromessa dalla costante esposizione ad un sistema valoriale antisociale come quello mafioso, dovendo, altresì,  effettuare, specie in quelle situazioni in cui non vi siano palesi  evidenze di una sofferenza psicofisica o della devianza minorile, un vero e proprio giudizio prognostico.

Come già chiarito, non si tratta di una valutazione astratta ed automatica che parte dall’appartenenza dei genitori in organizzazioni mafiose per pervenire in modo consequenziale all’allontanamento dei rispettivi figli, bensì di un giudizio concreto, approfondito, e fondato su diversi elementi da cui si possa ravvisare un pregiudizio quanto meno potenziale alla crescita regolare del minore, desumibile anche dallo stile di vita irregolare del minore, dall’assenza di un serio progetto lavorativo  e di vita, dall’inidoneità della famiglia a contrastare i comportamenti trasgressivi del minore, dal coinvolgimento di altri fratelli del minore in processi per reati di mafia. Per quanto sia piuttosto recente il nuovo filone giurisprudenziale seguito dai giudici minorili, è già possibile individuare un primo elenco esemplificativo di casi e presupposti che hanno portato e possono condurre all’adozione dei provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale: l’appartenenza dei genitori ad organizzazioni mafiose, specie se articolate in contesti familiari; l’abbandono del minore dovuto alla latitanza o al durevole stato detentivo del genitore che si concretizzi in un’ assenza educativa pregiudizievole della personalità del minore; l’ abbandono scolastico del minore, uno  stile di vita trasgressivo delle regole sociali e  frequentazioni di soggetti pregiudicati per reati di mafia; lo sfruttamento diretto dei minori in attività illecite di tipo familiare, attraverso l’utilizzo del minore in  qualità di “vedetta”o  di intermediario con gli acquirenti di sostanze stupefacenti il cui commercio risulti gestito dai genitori, o perfino di partecipe a reati omicidiari di stampo mafioso; l’ indottrinamento alla cultura mafiosa realizzato attraverso l’esposizione, e non già la partecipazione diretta, del minore alle attività criminose familiari dovuta alla presenza abituale di sostanze stupefacenti, di cui i minori stessi, spesso, appaiono consapevoli pienamente, come risulta dalle recenti inchieste che hanno coinvolto uno storico clan egemone nel centro di Napoli.

 4.2 Le prime critiche

Occorre registrare che siffatto uso dinamico dei provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale a tutela dei figli di mafia, ha suscitato non poche perplessità da parte di autorevoli interpreti che hanno avuto modo di  evidenziare una serie  di rischi connessi a tale ermeneutica: ovvero che, dietro tali provvedimenti, si celi una finalità  sanzionatoria che colpisca, indiscriminatamente, tutti i genitori, membri di gruppi criminali, senza considerare, invece,  che non tutti i relativi figli,  vengano poi coinvolti nell’attività criminosa di famiglia, ma, anzi, che spesso quest’ultimi vengano  fatti crescere in contesti socioculturali distanti  dalle regole  mafiose; inoltre, si è evidenziato   che non necessariamente il collocamento di questi ragazzi, ex artt. 330-333 c.c., presso le strutture comunitarie sia capace di rappresentare una controspinta efficace  alla pedagogia mafiosa fino ad allora divulgata. Tali rischi, tuttavia, appaiono superabili se si considera che la valutazione in concreto che il giudice minorile sarà tenuto ad effettuare per verificare la sussistenza di un reale pregiudizio,  sarà sufficiente ad impedire meccanismi presuntivi ed automatici certamente censurabili; inoltre, non appare condivisibile l’assunto che evidenzia il  rischio della incapacità del provvedimento civilistico ad assurgere alla  funzione di rieducazione del minore, in quanto l’obiettivo di tali provvedimenti è quello di attribuire al minore una libertà di scelta di cui prima erano privi: l’alternativa tra il proseguire o l’intraprendere un percorso di vita improntato sul rispetto del prossimo e delle regole del vivere civile e quella di intraprendere o proseguire la propria carriera criminale. Il rischio che tale ultima evenienza accada, non può, tuttavia, giustificare la rinuncia, a fortiori,  da parte dello Stato,  a tentare di offrire un’opportunità a tali ragazzi, attraverso l’allontanamento dai contesti familiari di provenienza. Tale obiettivo viene, di fatto,  perseguito dalle comunità familiari  a cui minori vengono affidati, mediante l’ attivazione di percorsi di responsabilizzazione e di sostegno dello sviluppo della personalità dei minori, consentendo, così, a costoro, di costruire dei sani progetti di vita futura e di dotarsi di quegli strumenti culturali volti a renderli autonomi dall’interferenza dei familiari, anche attraverso la promozione di valori antagonisti rispetto a quelli propri della cultura mafiosa.

4.3 Fondamento costituzionale della nuova ermeneutica

Un’ulteriore criticità si verificherebbe qualora il provvedimento de potestate, intervenisse a tutela di minori non ancora discernenti, a causa del  rischio di lesione di principi costituzionali, non potendosi negare il diritto ad avere figli, neppure ai mafiosi. Tuttavia, la funzione dei genitori, con i rispettivi doveri costituzionalmente previsti nei confronti dei figli, non può essere sganciata dai valori sociali propri della collettività in cui la famiglia stessa appare collocata. Se infatti, da una parte, la Carta Costituzionale, impedisce qualsivoglia pedagogia autoritaria volta ad uniformare l’ educazione culturale dei minori da parte dei genitori  a regole e valori imposti per legge, dall’altra parte, impone dei limiti estrinseci alla libertà genitoriale, rappresentati dai principi fondamentali e dai valori costituzionali, a cui l’educazione inculcata dai genitori, deve essere, comunque,  conforme, onde evitare di sfociare in un abuso dei poteri stessi previsti dall’articolo 30 della Costituzione, la cui nozione di abuso,  viene altresì a configurare il presupposto per l’adozione del provvedimento di decadenza, ai sensi dell’articolo 330 c.c.. Si desume che l’articolo 30 della Costituzione tutela la posizione del minore attraverso lo strumento della famiglia, ritenuta la  sede più adeguata per lo sviluppo del minore, senza tuttavia escludere degli interventi sussidiari o correttivi da parte dello Stato, qualora la famiglia e quindi, i genitori, in concreto, si dimostrino incapaci di assolvere alle prerogative assegnate dalla Costituzione  a tutela del minore. Pertanto, in presenza di una condotta pregiudizievole realizzata dai genitori, alla luce del superiore interesse del minore emergente dai principi costituzionali ed internazionali, lo Stato, non solo può, ma deve intervenire a proteggere il minore, in modo incisivo. Ne deriva che il genitore è “anche” titolare di obblighi: prendersi cura del figlio in base alle loro inclinazioni ed alle loro aspirazioni e di  educarli, seppur, nell’ambito di un’ampia discrezionalità sui modelli pedagogici cui ispirare la funzione genitoriale, entro i limiti  rappresentati dalla vasta gamma di principi e valori comuni della convivenza civile, sanciti in ambito costituzionale ed internazionale, superati i quali, l’esercizio del dovere sfocia in un abuso tale da giustificare una limitazione della responsabilità genitoriale, a fronte del necessario bilanciamento tra il diritto del minore ad essere cresciuto nel rispetto dei valori costituzionali del vivere civile ed il diritto alla conservazione dei rapporti familiari. Tale conclusione appare altresì avallata da numerose norme internazionali concernenti la tutela del minore tra cui la Convenzione di New York sui diritti del fanciullo ratificata dall’italia, con la  legge 176 del 1991, che dopo aver annunciato nel preambolo, che “i genitori sono tenuti ad educare il fanciullo a diventare membro utile della società” ha inoltre specificato che “ la separazione del minore dai suoi genitori è ammissibile qualora i genitori maltrattino-trascurino il fanciullo… dovendo l’educazione di quest’ultimo essere conforme al rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sia consacrate nella carta delle Nazioni Unite che dai singoli sistemi valoriali nazionali”.

La mancanza dell’assoluta libertà del genitore nell’educare il proprio figlio viene, altresì, confermata dall’articolo 8 della CEDU che nega una generale ingerenza degli apparati pubblici sull’esercizio del diritto all’educazione dei figli da parte dei genitori,  salvo, però, che siffatta “ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, risulti necessaria alla sicurezza nazionale, alla difesa dell’ordine, alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui”.

4.4 Riflessioni

Ciò consente di poter pervenire alla conclusione della costituzionalità dell’utilizzo di tali provvedimenti di limitazione della responsabilità genitoriale a tutela dei figli di mafia e ciò in virtù di numerose garanzie: la previsione di  un apposito iter procedimentale, ex art 336 c.c.,  fondato, salvi i casi di urgenza,  sul contraddittorio tra le parti, e quindi sulla audizione degli stessi genitori coinvolti che, potranno, quindi,  far valere le proprie  ragioni, dimostrando di non aver attentato al sereno sviluppo psicofisico del minore; il necessario accertamento in concreto svolto dal giudice,per evitare rischi di meccanismi presuntivi o automatismi pericolosi, che va, inoltre, contestualizzato, dovendosi distinguere tra i contesti familiari delle ‘ndrine calabresi, in cui il vincolo familiare risulta più palese e quindi più agevolmente dimostrabile, da quelli connessi alla realtà napoletana, in cui, l’assenza di forti  vincoli tradizionali  familiari, come quelli delle ‘ndrine calabresi, e di strutture articolate unitarie, richiedono un onere probatorio più approfondito e correlato al contesto familiare sotteso al singolo clan, non potendosi ammettere alcuna  generalizzazione; la revocabilità, in ogni momento, dei provvedimenti limitativi della responsabilità genitoriale; la  prassi giudiziaria che predilige un uso graduale dei rimedi de potestate,optando per una preliminare sospensione della responsabilità genitoriale,che, in taluni casi, può anche prevedere l’autorizzazione a mantenere dei rapporti con la famiglia, seppur con le dovute cautele e protezioni, nell’ottica di bilanciamento tra  l’esigenza di conservare il legame familiare con i propri genitori e, dall’altra parte, di salvaguardare l’efficacia del percorso di educazione già intrapreso dal minore, a seguito dell’allontanamento dall’habitat familiare.

5. Pene accessorie: in generale

Una volta descritto  il quadro generale dei provvedimenti civilistici de potestate, è possibile passare in rassegna il diverso mondo delle pene accessorie ed, in seguito, della specifica pena della perdita della responsabilità genitoriale ex artt. 32-34 c.p. .

 Le pene accessorie, invero,  rappresentano delle sanzioni penali di tipo interdittivo che determinano la perdita o la limitazione di un potere, dell’attività, della capacità giuridica del soggetto destinatario. Esse sono complementari ed accessorie rispetto alla pena principale, la cui irrogazione, rappresenta, pertanto,un presupposto necessario per l’applicazione di questo tipo di pene. Dal punto di vista del rispettivo regime giuridico, si evidenzia il carattere tassativo dell’elenco delle stesse pene accessorie contenuto nell’articolo 19 c.p. In virtù del principio di riserva di legge operante anche per tali pene. Un’ autorevole dottrina[5] ha sottolineato come, attualmente, l’unica caratteristica comune alle ipotesi tipiche di pena accessoria, sia rappresentata dalla loro complementarietà astratta, ovvero, dalla loro accessorietà rispetto alle altre sanzioni, nella fase della loro comminazione, e non anche l’automaticità di applicazione delle medesime, in quanto vi sono numerosi casi in cui l’applicazione di tali pene, è, invece, rimessa alla discrezionalità del giudice della cognizione. Ne consegue la possibilità di distinguere, in via teorica, tra pene accessorie automatiche / obbligatorie e pene accessorie discrezionali/ facoltative. Occorre registrare che anche la caratteristica originaria della indefettibilità di tali pene è venuta meno a seguito dell’intervento del legislatore con l’articolo 4 della legge 19 del 1990 con il quale è stato introdotto l’opposto principio di sospendibilità delle stesse pene accessorie. Tale intervento, se da una parte, ha reso più omogenea la disciplina di tali pene rispetto a quella delle pene principali, ha, tuttavia, al contempo, spostato l’accento, originariamente  sanzionatorio ed affettivo  di tali pene, verso l’opposto trend di tipo clemenziale. Del resto, a mutare sembra essere la stessa funzione propria di tali pene: non più conseguire un obiettivo di prevenzione generale, originariamente ottenuto mediante i requisiti di  automaticità assoluta e della non sospendibilità, bensì l’attuale funzione speciale preventiva tesa ad evitare che il soggetto ricada nel delitto.

Un’ ulteriore dicotomia è ravvisabile tra le pene accessorie perpetue e quelle temporanee. Quest’ultime, a loro volta, si distinguono tra quelle obbligatorie, la cui durata è  stabilita dalla legge o, in mancanza, è uguale a quella della pena principale infitta, o che dovrebbe scontrarsi, e quelle facoltative, la cui durata, invece, è fissata discrezionalmente dal giudice entro gli  insuperabili limiti edittali.

5.1 Pena accessoria della decadenza sospensione dalla responsabilità genitoriale

Tra le ipotesi tipiche di pena accessorie previste dal codice penale, compare la pena della decadenza o della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale, così come risulta dal combinato disposto dell’articoli 32 comma 2 e 3 c.p.e dell’articolo 34 c.p. In cui si distinguono due macro ipotesi: la decadenza e la sospensione. La prima, consegue automaticamente alla sentenza di condanna all’ergastolo o per uno dei reati previsti esplicitamente dalla legge, tra cui risultano l’alterazione di stato, l’incesto, la soppressione di stato, nonché, in base all’articolo 609 nonies  quando la qualità di genitore rappresenta un elemento costitutivo o la circostanza aggravante dei relativi delitti, la violenza sessuale, la corruzione di minorenne, atti sessuali con minorenne. L’effetto della decadenza è quello di privare il genitore della capacità di esercitare i diritti di carattere personale sul minore nonché sui beni di quest’ultimo. Essa è, inoltre, perpetua a differenza della sospensione la quale, invece, priva solo temporaneamente della capacità di esercitare i suddetti diritti. L’assoluta automaticità della decadenza, a fronte della sentenza di condanna per uno dei reati espressamente previsti dalla legge, è stata scalfita da due diversi interventi della Corte Costituzionale. Con la prima pronuncia ( sent.23 febbraio 2012, n.21), è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’articolo 569 c.p. Nella parte in cui stabilisce, in caso di condanna pronunciata nei confronti del genitore per il delitto di alterazione di stato previsto dall’articolo 567 comma 2 c.p. Che  consegue di diritto la decadenza, così, precludendo al giudice, ogni possibilità di valutazione dell’interesse del minore nel caso concreto. La Consulta ebbe modo di chiarire che, nelle fattispecie in questione, non rileva il solo interesse dello Stato all’esercizio del potere punitivo, bensì anche, l’interesse del minore a vivere e crescere nell’ambito della propria famiglia, mantenendo un rapporto equilibrato e  continuativo con ciascuno dei genitori da cui ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione. Trattasi di diritti, che sarebbero incisi negativamente da un effetto automatico della decadenza, così da violare il principio di ragionevolezza e quindi l’articolo 3 della Costituzione. Successivamente, la stessa Corte Costituzionale, con sentenza n.7 del 23 gennaio 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dello stesso articolo 569  c.p. Per contrasto con gli articoli 13 e 117 della Costituzione in relazione al meccanismo di decadenza automatica collegata ad una condanna per il delitto di soppressione di stato prevista dall’articolo 566 comma 2 c.p.. Anche da tale pronuncia emerge come l’automatismo rischi di compromettere gli interessi del minore alla prosecuzione del rapporto con i propri genitori senza che al giudice sia data la possibilità di effettuare un bilanciamento in concreto tra interessi contrapposti. Le sentenze citate, nonostante  riguardino dei singoli reati per i  quali era prevista l’automatica decadenza dalla responsabilità genitoriale in caso di condanna, palesano delle motivazioni d’ispirazione generale, suscettibili di essere applicate negli analoghi casi tassativamente previsti per i quali vige tutt’ora il  corrispondente meccanismo automatico della decadenza.

La sospensione, invece, deriva da due diversi ipotesi:

1) consegue, in primis, automaticamente, alla condanna per un delitto commesso un abuso dei poteri-doveri che per legge spettano ai genitori nei confronti del figlio e la cui durata della sanzione accessoria risulterà doppia rispetto alla pena inflitta in via principale. Per abuso della responsabilità genitoriale, deve intendersi un uso abnorme delle prerogative riconosciute, incompatibili con le finalità per le quali sono state concesse. Occorre evidenziare, sul punto,  una disarmonica convivenza con l’articolo 330 del codice civile che fa rientrare, invece, “l’abuso dei poteri genitoriali” tra i presupposti del provvedimento di decadenza, e non di sospensione della responsabilità genitoriale, come invece riportato in sede penale, dall’articolo 34 comma 2c.p. .

2)Viceversa, essa può essere discrezionalmente inflitta dal giudice in caso di condanna alla reclusione non inferiore a cinque anni e la cui durata della sanzione accessoria sarà   equipollente a quella della pena principale.

5.2 Pena accessoria della decadenza sospensione dalla responsabilità genitoriale in presenza di reati di mafia

Una volta effettuata simile premessa, è possibile dedursi, da un raffronto con le ipotesi appena descritte, che le ipotesi che più frequentemente rientrano nei reati di mafia tali da comportare la perdita della responsabilità genitoriale, coincidono con la seconda categoria di ipotesi della sospensione  (2) ovvero ai  casi di condanna alla reclusione di durata non inferiore a cinque anni, atteso che la pena edittale minima prevista per il reato di cui all’art. 416 bis è di 10 anni almeno. Tale riconduzione a tale  (2) seconda generica sotto-ipotesi di sospensione risulta necessaria in assenza di una disposizione ad hoc, a differenza di quanto recentemente introdotto dal legislatore in materia di delitti di terrorismo, in cui si prevede espressamente che in caso di coinvolgimento del minore in tali delitti, segue la perdita della responsabilità genitoriale.

6.  Rapporti tra provvedimenti civilistici de potestate e pena accessoria de qua

Una volta chiarito quale potrebbe essere l’ambito di applicazione della pena accessoria della perdita della responsabilità di genitoriale in presenza di reati di mafia,appare opportuno analizzare il rapporto che sussiste attualmente con i rispettivi provvedimenti de potestate assunti in sede civilistica a tutela degli stessi figli di mafia, così da comprenderne le eventuali differenze. In via teorica, la prima distinzione  che potrebbe riscontrarsi, consiste nella diversa funzione svolta da i due  provvedimenti: se infatti, quelli costituenti la pena accessoria della perdita della responsabilità genitoriale, rappresentano uno strumento afflittivo teso a sanzionare il genitore-autore del singolo reato, viceversa, i provvedimenti civilistici,più che sanzionare il genitore inadempiente, sono tesi piuttosto, a prevenire o reprimere le conseguenze pregiudizievoli nei confronti dei minori sottoposti alla responsabilità genitoriale.

Del resto, la pena accessoria, diventando esecutiva solo in seguito alla sentenza di condanna passata in giudicato, rappresenta, in termini di effettività della tutela, uno strumento poco incisivo a differenza della immediata e tempestiva disponibilità dei provvedimenti civilistici i quali, senza dover attendere necessariamente le lungaggini proprie del processo penale, potranno attivarsi in presenza di riscontri preliminari effettuati all’interno di un’istruttoria caratterizzata da una maggiore ampiezza delle fonti istruttorie ed, al contempo, da una maggiore rapidità degli esiti. In tal senso, assumono rilevanza fondamentale le diverse informazioni che giungono alla Procura minorile, idonee a rappresentare anche solo delle condotte sintomatiche di un forte grave disagio del minore. Si pensi alle segnalazioni di evasione scolastica, ai certificati penali dei membri del nucleo familiare, alle relazioni dei servizi sociali concernenti la sussistenza in concreto di elementi indicatori di condotte pregiudizievoli, di qualsiasi tipo,che  possono arrecare danni al minore. Occorre, altresì, evidenziare che lo strumento di provvedimenti civilistici risulta ancor più utile in caso di proscioglimenti in sede penale  per motivi attinenti all’ assenza dell’elemento soggettivo, la cui  mancata sussistenza, invece, in sede civilistica, appare irrilevante come ha specificato la dottrina più recente, nel sottolineare come ciò che conta, risulta essere, semplicemente, la sussistenza di un pericolo di un danno al minore.

Inoltre, i provvedimenti de potestate, conservano una propria utilitas ancor più in presenza di fatti che, non essendo penalmente rilevanti, sono tuttavia accompagnati da condotte irregolari e trasgressive sintomatiche di un deficit educativo spesso causa di situazioni di connivenza rispetto all’attività criminosa mafiosa posta in essere dai genitori, in ambito familiare. Emblematico, è il caso dei provvedimenti emessi dal Tribunale per i minorenni di Napoli nel 2017, a tutela di numerosi minori inseriti all’interno di contesti familiari con forte connotazione camorristica. In quel caso, i giudici emanarono non solo  provvedimenti a tutela dei minori direttamente coinvolti nell’attività di produzione,  di preparazione e  di vendita della sostanza stupefacente, bensì, anche di altri minorenni, i quali, pur non partecipando all’attività criminosa, erano costretti ad assistervi continuamente, in quanto tali attività venivano  svolte all’interno delle abitazioni in cui tali minori dimoravano. In tali casi, infatti, pur non essendovi un coinvolgimento del minore all’interno dell’attività criminosa, vi era il  concreto e  serio rischio di pregiudizio sia fisico che morale nei confronti del minore. Quest’ultimo, infatti, non solo avrebbe potuto subire delle gravissime conseguenze fisiche dall’ingerenza involontaria di sostanze stupefacenti prodotte e possedute in casa dai genitori, ma anche,un  nocumento al proprio patrimonio morale atteso che la giovanissima età di minori e l’ abitualità dell’attività criminosa posta in essere in ambito familiare, portavano questi bambini a concepire come assolutamente “normali”gli illeciti familiari. In altri casi, addirittura, la giovanissima età dei minori non ha impedito a quest’ultimi di essere consapevoli dell’aspetto criminoso delle attività poste in essere dai genitori, al punto da chiedere ed implorare quest’ultimi di abbandonare quel tipo di attività.

6.1 Attuale e permanente utilità dei  provvedimenti civilistici de potestate

L’utilità dei provvedimenti civilistici  in tali casi, è stata recentemente evidenziata, altresì, da una delibera del CSM  del 31 ottobre del 2017, con la quale si è riconosciuto come “la famiglia mafiosa, agendo in spregio ai propri doveri di educazione e salvaguardia del minore, finisce per essere una famiglia “maltrattante”, spesso costringendo i propri figli ad un’adolescenza negata a causa dell’inserimento di quest’ultimi, sin dalla tenera età, nelle dinamiche criminose dell’associazione mafiosa”.

Un’ulteriore distinzione  attiene alla durata dei diversi provvedimenti: la pena accessoria della sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale astrattamente applicabile in materia di reati di mafia, sulla base del rinvio alla clausola generale (2) alle sentenze di “condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni” ex art. 32 c.p., ha infatti una durata pari a quella della pena principale; diversamente, i provvedimenti civilistici, sono entrambi assunti rebus sic stantibus,pertanto, sempre revocabili e la cui rispettiva durata, non è correlata ad un preciso dato temporale, bensì, alla cessazione, in concreto, del pregiudizio nei confronti del minore. Ne deriva che i provvedimenti civilistici, intervengono caso per caso, in presenza di un pregiudizio attuale o potenziale al sereno sviluppo psicofisico del minore derivante dal comportamento del genitore. Come dichiarato dalla CSM, in tali casi sarà, il giudice minorile a valutare attentamente il caso concreto, esaminando, altresì, il contesto territoriale, sociale e  quindi ambientale in cui la famiglia del minore risulta inserita.

La pena accessoria, diversamente, si fonda su automatismi legislativi in base ai quali la previsione di una condanna penale per determinati reati nei confronti del genitore, comporta l’adozione di provvedimenti a tutela del minore, partendo dalla presunzione  in base alla quale la posizione del genitore sia perniciosa per una sana crescita psicofisica del minore. Tuttavia, se tale riflessione vale genericamente per il rapporto tra provvedimenti civilistici de potestate e le pene accessorie della perdita della responsabilità genitoriale in  termini generici, tale confine appare, invece,  sbiadire e rendersi più labile nel caso di condanne specifiche in tema di reati di mafia per le quali, così come si desume dal codice penale, l’applicazione della limitazione della responsabilità genitoriale da parte del giudice non sarà automatica, bensì discrezionale, rientrando nella (2) seconda sotto-ipotesi prima menzionata ex art 32 c.p.. Emerge, pertanto, che,  in tale ambito, risulta esservi una parziale analogia tra il tipo di valutazione posta in essere dal giudice penale e quella del giudice civile, essendo entrambi chiamati ad effettuare una valutazione in concreto sulla base di un bilanciamento tra diversi , fermo restando, tuttavia  le differenze sul piano temporale, di funzione e di efficacia, già trattate  precedentemente.

7. Proposte e riflessioni conclusive

Sulla base di tale riflessione, appare, pertanto non risolutiva l’introduzione, studiata da taluni, di una espressa pena accessoria della decadenza della responsabilità genitoriale con riferimento ai reati previsti dal 416 bis c.p. E  dall’articolo 74 d.p.r. 300 del 1990 in analogia a quanto già espressamente e recentemente[6] previsto nelle ipotesi di condanna per i reati di terrorismo( 270 bis ss.), in  caso di coinvolgimento del minore. Invero, anche qualora si procedesse all’introduzione di una simile disposizione, si dovrebbe ritenere necessaria, pur sempre, una valutazione in concreto da parte del giudice sulla base delle argomentazioni enunciate dalla Corte Costituzionale per reati dotati di analoghi  automatismi. L’effetto di simile introduzione sarebbe, pertanto, poco innovativo dal punto di vista sostanziale, in quanto si dovrebbe, pur sempre, continuare a richiedere in capo al  giudice una valutazione discrezionale sganciata da qualsivoglia automatismo anche  indirettamente incostituzionale.

Piuttosto, andrebbe valorizzato e rafforzato il meccanismo comunicativo e circolatorio  predisposto tramite il Protocollo d’intesa siglato nel 2013 tra tutti gli uffici giudiziari del distretto della Corte d’Appello di Reggio Calabria che si caratterizza per un approccio innovativo e sistematico: un virtuoso circuito informativo tra la Procura ordinaria e quella minorile volto a notiziare quest’ultima di eventuali situazioni pregiudizievoli nei confronti di minori, emerse nel corso di indagini penali attivate dalla prima.

Nella stessa direzione, si inquadra la delibera del CSM del 31 ottobre del 2017 con cui si suggerisce il  coordinamento tra diversi uffici giudiziari, prevedendo la trasmissione degli atti dal giudice penale a quello minorile in caso di condanna per reati di mafia . Simili protocolli sono stati recentemente adottati anche nell’ambito dei diversi uffici giudiziari del distretto della Corte d’Appello di Napoli[7], finalizzati ad attuare percorsi di tutela dei minori, vittime di reati, salvaguardando, altresì,l’ efficacia delle indagini in corso, e dall’altra parte tesi  a valorizzare elementi spesso indicatori della devianza minorile criminale quali l’evasione scolastica, attraverso un’apposita intesa con l’Ufficio scolastico regionale. Ciò, al fine di sollecitare l’invio di segnalazioni di inadempimenti scolastici da parte dei singoli istituti, atteso che, da tali segnalazioni, possono derivare maggiori approfondimenti conoscitivi del nucleo familiare del minore, per il tramite dei servizi sociali, tali da consentire alla Procura minorile di intervenire  tempestivamente, anche in contesti familiari eventualmente contigui ad ambienti camorristici.

Lo Stato, pertanto, per sconfiggere le “mafie” dovrebbe porsi l’obiettivo di contrastare e prevenire, ancor prima,  la mentalità e cultura mafiosa, la cui “professione”, pur non essendo penalmente sanzionabile in base dei principi fondamentali costituzionali tra cui il principio di materialità ex art. 25 Cost,, andrebbe anticipata,  attraverso una ottimizzazione  delle strutture pubbliche, sociali e  scolastiche atteso che, il ricorso ai rimedi civilistici de potestate , seppur costituzionalmente ammissibile e realmente prezioso nell’ottica della tutela del minore, rappresenta, pur sempre, il fallimento, da una parte  della “famiglia”, incapace di educare e di formare in termini socialmente apprezzabili i propri figli, e , dall’altra parte, dello  Stato, incapace di orientare positivamente i “giovani” consociati e di “prevenire” nella realtà sociale, oltre che nel “diritto”.

 Note

[1] In Minori e giustizia. Giovani in contesti criminali misure e pratiche di prevenzione, n.3, 2016, p. 19

[2] Introdotto con dlgs 28 dicembre 2013 n 154

[3]Sentenza 28 febbraio 2013, n. 9724

[4] Rapporto Mafia Minors, 2004, che indica i dati del progetto finanziato dal programma Agis 2004 della Commissione europea –Direzione Affari interni, pp. 26, 36-37.

[5] G.Fiandaca, Diritto penale. Parte generale, cit., 774 .Torino, 2014

[6] Introdotto con l’art.1 comma 3 bis, D.L. 18 febbraio 2015, n. 7, convertito, con modificazioni, dalla L.17 aprile 2015, n.43.

[7] Protocollo d’Intesa stipulato tra la Procura per i minorenni di Napoli, Prefettura, Comune di Napoli, Ufficio scolastico regionale ed Asl1.

Francesco Vacca

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