La corretta applicazione dell’art. 2 c.p., ovvero individuazione della norma più favorevole in punto di pena (Cass. n. 600 del 17 aprile 2008)

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Importante sentenza interpretativa della Suprema Corte in relazione al principio dello ius superveniens.
Sul tema della corretta applicazione dell’art. 2 del codice penale che disciplina la successione di leggi nel tempo e, in pari tempo, fornisce i criteri ermeneutici per individuare, in presenza di più disposizioni di diritto sostanziale, che vengano ad alternarsi nel corso dello svolgimento del processo, quella più favorevole all’imputato, la Corte di Cassazione è stata – negli ultimi mesi – chiamata a pronunziarsi in plurime occasioni.
Per vero, i casi sottoposti all’attenzione del giudice di legittimità e da esso trattati non hanno affatto presentato il carattere della omogeneità.
Essi, cioè si sono riferiti a ipotesi di reato del tipo più vario possibile, attesa la florida e recente produzione legiferativa ad esempio sia in materia di diritto penale fallimentare, che di diritto della circolazione stradale.
La peculiarità che, quindi, rende la presente decisione particolarmente importante e, dunque, meritevole di esame, seppure sintetico, consiste nella circostanza che la Corte, all’uopo sollecitata dalla difesa dell’imputato con motivi aggiuntivi al ricorso principale, si sofferma sul tema in questione, pur in presenza di una pena finale, irrogata dal giudice di merito, la quale non risulta affatto ancorata ai minimi edittali previsti in relazione all’art. 73 dpr 309/90.
Nella fattispecie, infatti, il ricorrente era stato condannato in sede di appello alla pena di anni 8 di reclusione, oltre alla multa, sanzione finale cui si perveniva, (in parziale riforma della pronunzia di primo grado che aveva fissato la pena in anni 10 di reclusione) muovendo da una base di anni 12 di reclusione, dalla quale veniva detratta la misura di 1/3, quale corrispettivo premiale concernente la scelta di definire il processo tramite il rito abbreviato adottato innanzi al GUP.
Per meglio comprendere la portata della decisione, si deve, infatti, sottolineare come taluni approdi giurisprudenzali (di legittimità) abbiano sostenuto il principio che non può ravvisarsi difetto di motivazione, laddove la sentenza, pur non indicando in maniera diffusa, sufficiente o specifica le ragioni che il giudice ha ritenuto sottendenti alla scelta riguardante la inflizione di una pena determinata, determini, però, questa in un termini quantistico, il quale appaia, ictu oculi, del tutto svincolato dai minimi edittali.
Tale orientamento sancvisce, quindi, che in una simile occasione, dunque, la opzione sanzionatoria (che trova concreta attuazione nel quantum di pena inflitto) troverebbe già in re ipsa, cioè nel profilo aritmetico così indicato, la sua sufficiente motivazione.
Si è temuto, quindi, che questo tipo di ragionamento potesse produrre un effetto estensivo, nel senso di porsi come improprio ed invalicabile baluardo logico-giuridico al necessario procedimento di rivalutazione della congruità complessiva della pena e dell’iter ideativo-argomentativo che sottende alla decisione del giudice.
Sarebbe, infatti, stata sufficiente, sul piano strettamente ermeneutico, da parte della Corte un’adesione del tutto neutra, oppure supinamente conforme al principio secondo il quale la circostanza che la pronunzia del giudice, che avesse quantificato la pena base (e comunque anche la pena finale) in termini di evidente svincolo rispetto ai minimi predeterminati per legge, non poteva subire influssi di alcun genere in presenza di una rideterminazione legislativa dell’archetipo della pena minima, per vanificare l’operatività del mutamento normativo sopravvenuto per effetto della L. 49 del 21 febbraio 2006.
E’ indubbio, però, che il fulcro della questione riposi nella riaffermazione della sovranità del giudice di merito, nella fattispecie, altra sezione della Corte di Appello di Milano, con la conferma dell’attribuzione del potere di riconsiderare a priori la pena.
Si tratta, dunque, di un’opera di nuova valutazione che si deve, quindi, calare nel contesto di quell’ampio binario (o come si suole ora dire con un termine assai in voga “range”) che delimita quantitativamente la pena di cui all’art. 73 co. ed 1 bis dpr 3009/90, partendo da un minimo e pervenendo ad un massimo edittale e che – come detto – ha subito una patente modifica .
In buona sostanza, il Collegio di legittimità, dunque, afferma la necessità che il giudice debba potere avvalersi, in toto, della nuova piattaforma sanzionatoria, così come rideterminata dalla novella normativa, onde potere considerare meglio quelle modifiche che, intervenute, riverberano effetti in relazione ai rapporti di proporzionalità fra reato e pena, attesa la indubbia rilevanza che viene a rivestire la riduzione del minimo edittale di pena riguardante l’art. 73 dpr 309/90 – passato da 8 a 6 anni di reclusione – .
Correlativamente, appare importante, però, la cautela che ispira la decisione del Collegio, soprattutto nella parte in cui la Corte chiarisce di non potere fornire un principio dei diritto da cui il giudizio di rinvio debba muovere in maniera vincolata.
E’ quella, indicata nella fattispecie, una palese deroga al fatto che la Corte fornisca una direttiva obbligatoria cui il giudice di rinvio debba inderogabilmente uniformarsi.
In questo caso, infatti, la prescrizione del giudice di legittimità avrebbe potuto avere riguardo alla quantificazione di pena in termini inferiori rispetto a quella indicata nella sentenza cassata.
La Corte esclude un simile precetto, non proponibile neppure in via astratta o teorica, per una ragione del tutto evidente, in relazione al caso specifico, ovvero la salvaguardia della discrezionalità del giudice del giudizio di rinvio.
Viene escluso, dunque, nel caso di specie, ogni sorta di automatismo, in base al quale l’abbattimento del limite minimo edittale, legislativamente sancito, consequenziale all’approvazione di una norma più favorevole (al regime vigente) sopravvenuta, comporti necessariamente, in sede procedimentale, la riduzione della pena inflitta, qualora la stessa appaia – in relazione al suo quantum – patentemente disancorata da tale minimo e cioè, quindi, laddove l’entità della stessa risulti manifestazione ed espressione di un palese giudizio di apprezzabile gravità del fatto-reato.
Rimini, lì 18 Maggio 2008                                                           
*******************
 
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Udienza pubblica
Dott. ******************** – Presidente – del 02/04/2008
Dott. LANZA Luigi – Consigliere – SENTENZA
Dott. ***************** – Consigliere – N. 600
Dott. CONTI ******** – Consigliere – REGISTRO GENERALE
Dott. ROTUNDO Vincenzo – Consigliere – N. 20209/2006
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
XXX, n. a *XXX*;
avverso la sentenza in data 12 gennaio 2006 della Corte di appello di
Milano;
Visti gli atti, la sentenza denunziata e il ricorso;
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott.
**************;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore
Generale **********************, che ha concluso per il rigetto del
ricorso;
Udito per il ricorrente l’avv. *****************, cha ha concluso per
l’accoglimento del ricorso.
FATTO
Con sentenza in data 14 marzo 2 005, il Giudice delle indagini
preliminari del Tribunale di Milano, all’esito di giudizio
abbreviato, riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alla
contestata aggravante, e applicata la diminuente del rito, condannava
XXX @XXX alla pena di anni dieci di reclusione ed Euro 36.000 di
multa in quanto responsabile del reato di cui all’art. 110 c.p.,
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 80, comma 2, per avere, in
concorso con XXX, detenuto a fini di spaccio 73 involucri di
eroina, per un complessivo peso netto di kg. 35, occultati
all’interno di un doppio fondo ricavato in un’autovettura Passat con
targa macedone, le cui chiavi erano detenute dal XXX (in *Milano,
il 29 ottobre 2004*).
A seguito di impugnazione dell’imputato, la Corte di appello di
Milano, con la sentenza in epigrafe, in parziale riforma della
sentenza di primo grado, riduceva la pena ad anni otto ed Euro 32.000
di multa.
Rilevava, tra l’altro, la Corte di appello che la responsabilita’
penale dell’imputato era dimostrata dal servizio di osservazione
effettuato davanti all’albergo "*********" di via *Vitruvio in
Milano* da militari della Guardia di Finanza, che aveva permesso di
accertare l’incontro tra il XXX e un soggetto poi identificato in
XXX, e il successivo reperimento in via *del Turchino* di
un’autovettura recante un doppio-fondo contenente il quantitativo di
stupefacente di cui alla imputazione. Nel corso del contatto tra i
due, il XXX veniva udito dire al XXX "*my car is here*" e
consegnargli un biglietto, che, all’esito della perquisizione
personale si riscontrava recare il nome di un esercizio commerciale
sito in via del *Turchino 10*.
Da documenti trovati in possesso del XXX si ricavava inoltre che il
medesimo aveva traghettato l’autovettura da *Igoumenitsa ad Ancona* e
da qui l’aveva condotta a Milano percorrendo l’autostrada.
inoltre, nei giorni precedenti tale incontro, erano state
intercettate numerose telefonate intercorse tra il XXX e altri
soggetti, con le quali si esprimeva la necessita’ che egli si recasse
a Milano per prendere contatti con il XXX.
Il complesso di tali elementi induceva nella Corte di appello il
convincimento che non potesse darsi credito al racconto del XXX,
secondo cui egli, su invito di un conoscente, tale XXX , si era
recato da *Trieste* a *Milano* per incontrarsi con il XXX solo per
consegnargli Euro 200,00 e per aiutarlo a rintracciare
un’autovettura, essendo all’oscuro della presenza in essa della
droga.
Ricorre per Cassazione l’imputato, a mezzo del difensore, avv.
*****************, che deduce:
1. Inosservanza della L. n. 203 del 1991, art. 13, e dell’art. 191
c.p.p., commi 1 e 2, e relativo vizio di motivazione, in relazione al
fatto che, nell’ambito della speciale procedura di cui alla citata L.
n. 203 del 1991, art. 13, le intercettazioni sono state disposte
autonomamente d’urgenza dal pubblico ministero, facolta’ non prevista
da detta norma, che riserva il potere di autorizzare le
intercettazioni solo al giudice, conferendolo al Pubblico Ministero
solo con riferimento alle eventuali proroghe.
2. Inosservanza dell’art. 268 c.p.p., comma 1, art. 270 c.p.p., comma
2 e art. 191 c.p.p., commi 1 e 2 e relativo vizio di motivazione, in
relazione alle eccezioni concernenti la mancanza delle registrazioni
delle intercettazione effettuate in altro procedimento, la mancata
acquisizione dei relativi verbali e delle trascrizioni e la
inutilizzabilita’ a fini probatori dei c.d. brogliacci di ascolto.
E’ stato affermato dalle Sezioni unite che il mancato deposito dei
verbali e delle trascrizioni nel diverso procedimento determina la
inutilizzabilita’ dei risultati di esse (sent. 17 novembre 2004,
********).
Nel caso in esame non solo tale deposito non e’ stato effettuato ma
manca alcuna indicazione della stessa loro esistenza nel procedimento
ad quem, e a tale mancanza non potevano sopperire i c.d. brogliacci
di ascolto, che intanto potevano essere utilizzati come prova in
quanto i relativi verbali fossero comunque stati acquisiti.
in ogni caso i c.d. "brogliacci" erano parziali, essendo stati
acquisiti solo quelli alle telefonate "ritenute utili"; e inoltre
mancavano del tutto le relative trascrizioni.
3. Inosservanza del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, art. 56
c.p., art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 522 c.p.p., comma 1 e relativo
vizio di motivazione.
L’imputazione a carico del XXX concerneva l’illecita detenzione, in
concorso con il XXX, di 72 involucri pari a circa 3 5 kg. di
eroina, occultati in un’autovettura; mentre egli e’ stato condannato
per la ritenuta esistenza di un accordo tra i due e altri soggetti
non identificati volto alla ricezione dal XXX di 38 kg. lordi di
eroina, fatto dunque del tutto diverso da quello contestato
relativamente al quale l’imputato non ha avuto possibilita’ di
difendersi.
Inoltre, tale supposto accordo sarebbe stato concluso in un momento
in cui sia la droga sia il XXX si trovavano materialmente in
Italia; sicche’, non avendo l’imputato preso parte alla condotta di
importazione, la sua attivita’ non ha superato la soglia del
tentativo in quanto egli non ha potuto aiutare il destinatario della
droga a recuperare materialmente la sostanza a causa dell’intervento
delle forze di polizia; ne’ il XXX aveva una qualche disponibilita’
della sostanza stupefacente, essendo questa nascosta in
un’autovettura parcheggiata in diversa zona della citta’ al medesimo
sconosciuta.
4. Vizio della motivazione in punto di affermazione della
responsabilita’ penale.
In primo luogo, incongruamente la Corte di appello osserva che i
rilievi circa la mancata completa trascrizione delle intercettazioni
avrebbero potuto essere superati da una richiesta difensiva volta a
un accertamento peritale o dalla produzione di una consulenza di
parte, dal momento che la stessa Corte afferma che non e’ possibile
subordinare la richiesta di giudizio abbreviato all’esecuzione della
trascrizione.
Inoltre, la sentenza impugnata si contraddice anche nel punto in cui,
a proposito del XXX, rileva poco probabile che un corriere rimanga
senza provvista di denaro e debba ricorrere all’aiuto di una persona
estranea al gruppo che ha organizzato il trasporto dello
stupefacente, e nello stesso tempo riconosce che il XXX era rimasto
in possesso di soli Euro 80,00.
Ancora, l’osservazione per cui era incredibile che l’imputato fosse
stato contattato da un terzo estraneo all’affare concernente la droga
al fine di portare al XXX del denaro si scontra con il fatto che la
persona che aveva contattato il XXX era tale XXX, un vicino di
casa del XXX.
Non era poi affatto assurdo che il XXX, al fine di reperire la sua
autovettura, si fosse rivolto al XXX, dato che quest’ultimo era
stato gia’ due volte in Italia e aveva imparato l’italiano.
5. inosservanza dell’art. 62 bis c.p., art. 69 c.p. e D.P.R. n. 309
del 1990, art. 80, comma 2, e relativo vizio di motivazione.
Dato che il criterio della gravita’ del fatto era stato utilizzato
per stabilire la pena-base e la sussistenza della ingente quantita’
di sostanza stupefacente, ad esso non poteva essere fatto riferimento
anche al fine di stabilire una mera equivalenza tra l’aggravante e le
attenuanti generiche.
Inoltre, proprio la riconosciuta appartenenza del XXX a una
rispettabile famiglia albanese doveva condurre a un giudizio di
prevalenza delle attenuanti generiche rispetto all’aggravante.
Con motivi nuovi, il medesimo difensore, con riferimento alla
determinazione della pena, fa riferimento alla L. 21 febbraio 2006,
n. 49, che ha ridotto il minimo edittale da otto anni a sei anni di
reclusione, che impone una riduzione della pena, fissata dalla Corte
di appello partendo dalla pena-base di anni dodici.
DIRITTO
Osserva la Corte che tutti i motivi, ad eccezione di quello ex novo
dedotto con riferimento alla incidenza dello jus superveniens recato
dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49 in sede di conversione del D.L. 30
dicembre 2005, n. 272, appaiono infondati.
In primo luogo, non vi e’ alcun plausibile dato ermeneutico dal quale
trarre la invero paradossale conclusione prospettata dal ricorrente
per cui proprio in tema di indagini per reati di criminalita’
organizzata, e cioe’ per i piu’ inquietanti fenomeni criminosi, il
legislatore abbia posto un ostacolo al generale potere del pubblico
ministero di attivare le operazioni di intercettazione qualora
ricorrano casi di urgenza, previsione che risponde del resto a
esigenze pratiche facilmente comprensibili.
Non puo’ dunque che confermarsi l’esattezza della sentenza della Sez.
1, 12 novembre 1997, *****, a torto criticata nel ricorso, con
argomenti fondati su dati letterali privi di consistenza logica.
In secondo luogo, il ricorrente non si puo’ lamentare della mancata
allegazione agli atti del procedimento a suo carico dei verbali e
delle trascrizioni relative alla intercettazioni.
Egli ha optato per il giudizio abbreviato, e quindi ha accettato
(anche) come fonti di prova i c.d. "brogliacci" di ascolto, ritenendo
di non instare per una richiesta di giudizio abbreviato condizionata
all’acquisizione dei relativi verbali e delle trascrizioni.
Ergo, non deducendo in ricorso alcun motivo di sospetto sulla
corrispondenza al vero dei "brogliacci", egli ne sopporta le
conseguenze in termini di utilizzabilita’ probatoria.
E’ il caso di precisare che la regola per cui in un "altro
procedimento" debbano essere fatti confluire i verbali e le
trascrizioni delle intercettazioni (Sez. un., 17 novembre 2004,
********), ex art. 270 c.p.p., non si puo’ applicare nel giudizio
abbreviato. I "brogliacci" di ascolto sono documenti legittimamente
acquisiti nell’attivita’ investigativa, al pari di ogni altro atto di
indagine, e l’opzione per il rito abbreviato vale proprio a conferire
valore di prova (autorizzandolo a livello costituzionale l’art. 111
Cost., comma 5) ad atti che, in uno scenario dibattimentale, non
potrebbero come tali essere valutati (v., tra le altre, Cass., sez.
6, 13 febbraio 2008, *********).
Non si vede come possa predicarsi una immutazione del fatto ritenuto
in sentenza rispetto alla imputazione. Il XXX e’ stato tratto a
giudizio per rispondere, in concorso con altri, della detenzione
dell’ingente quantitativo di droga occultato nell’autovettura
reperita in *Milano*, via del *Turchino*. Ed e’ questo che e’ stato
per l’appunto accertato, dato che la sentenza ineccepibilmente
attribuisce all’imputato un ruolo di presa in consegna della eroina
importata in Italia dal XXX, sulla base di un accordo criminoso che
presupponeva appunto un concorso morale nello svolgimento di tutta
l’operazione. Ne deriva che il XXX, al pari del XXX e degli altri
complici, "deteneva" in senso penalistico la droga, dato che ne aveva
la disponibilita’, in accordo con i correi, rivestendo solo
materialmente un ruolo di ricettore della stessa.
Le critiche mosse alla valutazione delle prove a carico del XXX
appaiono introdurre una diversa interpretazione del significato e
della portata degli elementi probatori non esaminabile in sede di
legittimita’, a fronte di una motivazione diffusa, puntuale e
pienamente condivisibile sotto il profilo logico-giuridico offerta
dalla sentenza impugnata, nella quale si e’ posto in risalto che il
contatto in strada tra l’imputato e il XXX, l’indicazione da questo
datagli in un inglese facilmente comprensibile *my car is here*) e la
consegna di un biglietto in cui era scritto un indirizzo di via del
*Turchino* (luogo ove venne rinvenuta parcheggiata l’autovettura
portata in Italia dal XXX con il doppio fondo in cui era occultato
il rilevante quantitativo di eroina) altro non potevano implicare che
un coinvolgimento del XXX nella presa in consegna della droga;
circostanze, queste, che di per se’ escludevano la plausibilita’
della tesi difensiva secondo cui l’imputato, non si sa a quale titolo
e sulla base di quale interesse personale, si sarebbe limitato a
portare al XXX la somma di Euro 200,00, essendo questo rimasto
privo di soldi.
Manifestamente infondato appare poi il motivo sulla comparazione,
espressa in termini di equivalenza, tra le circostanze attenuanti
generiche e la contestata aggravante, atteso che la Corte di appello
legittimamente ha fatto riferimento al riguardo al notevole peso
dell’aggravante speciale della ingente quantita’ della sostanza
stupefacente; dato, questo, che rendeva irrilevante l’appartenenza
del XXX "a una rispettabile famiglia albanese", peraltro meramente
enunciata dalla difesa.
Va peraltro tenuto conto dello jus superveniens rappresentato dalla
L. 21 febbraio 2006, n. 49 in sede di conversione del D.L. 30
dicembre 2005, n. 272, che ha portato la pena detentiva relativa alla
fattispecie in esame a sei anni, in luogo degli otto anni
precedentemente previsti.
E’ vero che i giudici di merito non hanno applicato la pena della
reclusione nel minimo, ma nella dosimetria della pena il giudice ha
il compito di stabilire una sanzione che, pur ritenuta congrua, in
termini assoluti, al caso concreto, normalmente tiene conto,
nell’ambito dei limiti edittali, anche di quello minimo.
La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata su tale punto,
dovendo altra sezione della Corte di appello di Milano stabilire
quale sia la pena detentiva congrua nel caso di specie avuto riguardo
anche al parametro della pena minima fissato dalla nuova norma; fermo
restando che non puo’ essere fissato in via astratta alcun vincolo al
giudice del rinvio acche’, all’esito di tale nuova valutazione, la
pena debba essere effettivamente ridotta (v., in analogo senso,
Cass., sez. 4, 17 ottobre 2006, Durante).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della
pena detentiva e rinvia per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione
della Corte di appello di Milano.
Rigetta nel resto il ricorso.
Cosi’ deciso in Roma, il 2 aprile 2008.
Depositato in Cancelleria il 17 aprile 2008

Zaina Carlo Alberto

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