La Consulta interviene in materia di concessione del termine a difesa

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     Indice

  1. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione
  2. La soluzione adottata dalla Consulta
  3. Conclusioni

1. La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

Il Tribunale ordinario di Firenze, prima sezione penale, in composizione monocratica, sollevava questioni di legittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, del codice di procedura penale «nella parte in cui prevedono il diritto ad un termine a difesa soltanto a seguito dell’apertura del dibattimento, invece di prevedere la possibilità di accedere ai riti alternativi anche all’esito del termine a difesa eventualmente richiesto», in riferimento agli artt. 3, 24 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.

In particolare, secondo l’ordinanza di rimessione, le disposizioni censurate sarebbero costituzionalmente illegittime, per contrasto con i riferiti parametri, nella parte in cui prevedrebbero che, nel giudizio direttissimo, il termine a difesa venga concesso all’imputato solo a seguito dell’apertura del dibattimento, con la conseguente preclusione per la richiesta di riti alternativi nella prima udienza successiva al suddetto termine.

Ciò posto, in punto di rilevanza, l’ordinanza di rimessione riteneva che tali disposizioni potrebbero essere «in astratto» interpretate in modo conforme ai principi costituzionali in materia di diritto di difesa, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 254 del 1993 in relazione al rito allora vigente di fronte al pretore, nella sostanza coincidente con quello oggi disciplinato per i procedimenti dinnanzi al tribunale in composizione monocratica atteso che, secondo la pronuncia richiamata, la richiesta di un termine a difesa, comportando «la sospensione del dibattimento – non ancora aperto – fino all’udienza immediatamente successiva alla scadenza del termine», non impedirebbe al giudicabile «di formulare la richiesta di applicazione della pena, potendo questa essere avanzata, anche nell’ipotesi in questione […] fino al normale termine previsto dall’art. 446 cod. proc. pen., e cioè fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento».

Tuttavia, tale orientamento, ad avviso del rimettente, è stato fatto proprio solo da un numero limitato di pronunce della Corte di cassazione (sono richiamate le sentenze della sezione sesta penale del 23 ottobre 2008, n. 42696, e del 19 gennaio 2010, n. 13118), la quale, nell’«orientamento prevalente e infine consolidatosi», ha invece interpretato le disposizioni oggetto di esame nel senso che l’avvenuta concessione del termine a difesa, presupponendo che abbia già avuto luogo l’apertura del dibattimento, preclude la possibilità di richiedere il giudizio abbreviato o l’applicazione della pena su richiesta (sono richiamate, tra le altre, le sentenze della sezione prima penale del 5 maggio 2008, n. 17796, della sezione quinta penale del 18 febbraio 2010, n. 12778, della sezione prima penale del 5 giugno 2018, n. 25153, della sezione quinta penale del 27 dicembre 2019, n. 52042).

A fronte, pertanto, di una giurisprudenza di legittimità asseritamente assurta al rango di diritto vivente e orientata in tal senso, il rimettente riteneva di dover fare applicazione delle disposizioni censurate e, per l’effetto, rigettare la richiesta di applicazione della pena ex art. 444 cod. proc. pen., in quanto tardiva, e procedere con il dibattimento, «risultando questo implicitamente già aperto a seguito della concessione del termine a difesa», ma non considerava tali, reputandole per l’appunto non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen..

Precisato ciò, per il Tribunale fiorentino, il mancato riconoscimento all’imputato della possibilità di formulare richiesta di accesso a un rito alternativo dopo che questi abbia ottenuto il termine a difesa lederebbe, innanzi tutto, l’art. 24 Cost. visto che il fatto che l’accesso ai riti alternativi comporti «modalità più limitate di esercizio del diritto di difesa» non escluderebbe la necessità che l’imputato sia messo in condizione di ponderare adeguatamente le conseguenze di una simile strategia processuale dal momento che siffatta esigenza sarebbe frustrata ove l’imputato venisse posto di fronte all’«alternativa secca» tra i due strumenti e, pertanto, gli si imponesse – tanto più in esito al giudizio di convalida dell’arresto – di formulare tale richiesta «seduta stante» e non, invece, allo spirare del termine a difesa eventualmente richiesto, «la cui funzione deve poter essere anche quella di valutare in un periodo di tempo adeguato l’opzione per i riti alternativi».

Le disposizioni censurate, sempre ad avviso del giudice rimettente, si porrebbero altresì in contrasto anche con l’art. 3 Cost., a causa della irragionevole disparità di trattamento che ne deriverebbe, per l’imputato condotto in udienza per rispondere del reato con rito direttissimo, rispetto a chi sia giudicato sulla base di altro rito dato che in tali evenienze – come, ad esempio, nel rito ordinario a seguito della richiesta di rinvio a giudizio, nella citazione diretta a giudizio, nel giudizio immediato e nel procedimento per decreto – all’imputato viene sempre riconosciuto un termine più o meno lungo per la preparazione della difesa e, quindi, anche per «valutare l’eventuale scelta di procedere con un rito alternativo», fermo restando che non sarebbe di ostacolo alla speditezza che contrassegna il giudizio direttissimo l’assegnazione di un termine per preparare la difesa in vista dell’eventuale richiesta di accesso ai riti speciali, poiché, in ogni caso, si tratterebbe di un termine di pochi giorni.

Sempre ad avviso del giudice di merito, la rilevata disparità di trattamento, inoltre, emergerebbe anche con riguardo all’imputato che si sia visto modificare l’imputazione o contestare nuovi reati e nuove circostanze da parte del pubblico ministero nel corso dell’istruttoria dibattimentale, tenuto conto altresì del fatto che, ove l’imputato sia assente, la contestazione deve essere inserita nel verbale di dibattimento, che deve essere notificato per estratto all’imputato, «con il rispetto di un termine almeno pari a quello previsto dall’art. 429 c.p.p.» e ciò anche in ragione del fatto che, in casi del genere, proprio la giurisprudenza costituzionale avrebbe dichiarato costituzionalmente illegittime le preclusioni poste alla facoltà di accedere ai riti speciali (è richiamata la sentenza n. 82 del 2019).

Orbene, a fronte di ciò, per il giudice rimettente sarebbe quindi irragionevole la disciplina approntata, per il rito direttissimo, dalle disposizioni oggetto di scrutinio, nella misura in cui non consentono che il termine a difesa richiesto e ottenuto dall’imputato all’esito della convalida «sia funzionale anche all’eventuale scelta dei riti alternativi».

Per di più, si riteneva oltre tutto violato l’art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU e 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

Nel dettaglio, il rimettente ricordava a tal proposito come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia, in più occasioni, affermato che l’equità del processo non dipende solamente dalla tempestiva informazione dell’imputato circa le contestazioni mosse a suo carico, ma anche dalla garanzia di tempo e mezzi necessari per preparare adeguatamente le sue difese (sono richiamate le sentenze 21 dicembre 2006, Borisova contro Bulgaria e 12 febbraio 2019, Muchnik e Mordovin contro Russia) fermo restando che, da un lato, in tale giurisprudenza, il tempo e i mezzi in questione andrebbero commisurati ad aspetti quali, tra gli altri, la gravità e la complessità delle accuse e la condizione di detenzione o, al contrario, di libertà dell’accusato, trattandosi di elementi, questi ultimi, che, ad avviso del rimettente, assumerebbero un particolare rilievo nel rito direttissimo, nel quale le accuse sono sempre di gravità tale da giustificare l’arresto dell’accusato e la richiesta, da parte del pubblico ministero, di una misura cautelare coercitiva, dall’altro, nella medesima direzione deporrebbe, da ultimo, il richiamo all’art. 14, comma 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.


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2. La soluzione adottata dalla Consulta

La Corte costituzionale – dopo avere ripercorso le censure prospettate dal Tribunale di Firenze, ritenuto l’eccezione sollevata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri attraverso tramite l’Avvocatura generale dello Stato (avente ad oggetto il difetto di rilevanza delle questioni) non accoglibile (ritenendosi le questioni proposte inammissibili) e compiuta una ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale nella quale si collocano le disposizioni censurate – stimava la questione sollevata in riferimento all’art. 24 Cost. fondata.

Nel dettaglio, il Giudice delle leggi evidenziava prima di tutto che, secondo giurisprudenza costituzionale costante, la possibilità di accedere a uno dei riti alternativi previsti dal legislatore costituisce «una modalità, tra le più qualificanti, di esercizio del diritto di difesa» dell’imputato (sentenze n. 174 del 2022, n. 192 del 2020, nonché sentenze n. 19 e n. 14 del 2020, n. 131 del 2019, n. 141 del 2018) e muovendo dai medesimi presupposti, quest’organo giudicante metteva in risalto la consistenza delle prerogative difensive, con riferimento alla scelta di valersi del giudizio abbreviato – ma con considerazioni in questo caso estensibili anche all’applicazione della pena su richiesta ex art. 444 cod. proc. pen. –, affermando che «“condizione primaria per l’esercizio del diritto di difesa è che l’imputato abbia ben chiari i termini dell’accusa mossa nei suoi confronti”: e ciò particolarmente in rapporto alla “scelta di valersi del giudizio abbreviato”, la quale “è certamente una delle più delicate, fra quelle tramite le quali si esplicano le facoltà defensionali”» (sentenza n. 273 del 2014, con riferimento alla sentenza n. 237 del 2012), rilevandosi al contempo che, più di recente, e in termini ancora più ampi, è stato ulteriormente evidenziato che «[l]a scelta del rito deve, in effetti, poter essere effettuata dall’imputato – assistito dal proprio difensore – con piena consapevolezza delle possibili conseguenze sul piano sanzionatorio connesse all’uno o all’altro rito, in relazione ai reati contestati dal pubblico ministero» (sentenza n. 146 del 2022).

Premesso ciò, si osservava che, nel caso del giudizio direttissimo, la scelta dell’imputato di accedere a uno dei riti speciali previsti dalle richiamate disposizioni del codice di rito deve raccordarsi con la disciplina particolarmente serrata dei tempi di instaurazione del giudizio, senza che ciò possa comportare il sacrificio delle essenziali esigenze difensive dell’imputato sull’altare della speditezza dei tempi processuali.

Tal che se ne faceva conseguire come non possa dunque ritenersi che la scelta del rito debba necessariamente avvenire seduta stante e incognita causa, senza cioè un’adeguata ponderazione delle implicazioni che derivano da tale strategia processuale.

Pertanto, proprio al fine della salvaguardia di un imprescindibile spatium deliberandi, il giudice, ove l’imputato ne faccia richiesta, è tenuto a concedere il termine non solo in vista dell’approntamento della migliore difesa nella prosecuzione della fase dibattimentale, ma anche in funzione dell’esercizio consapevole della scelta sull’accesso al giudizio abbreviato e all’applicazione della pena a norma dell’art. 444 cod. proc. pen..

Oltre a ciò, era per di più fatto presente che la necessità di una piena garanzia del diritto di difesa, che si traduce, per la Corte di legittimità, nel carattere effettivo della scelta sui riti alternativi per come assicurato dal riconoscimento di condizioni, materiali e temporali, che consentano all’imputato un’adeguata ponderazione della propria strategia processuale, vale a maggior ragione in un rito, quello direttissimo, segnato, come detto, da un rapido avvicendamento delle fasi processuali, evidenziandosi a tal proposito che, nella sentenza n. 113 del 2020, la stessa Consulta, sia pur con riferimento a una disciplina diversa da quella oggi in esame, perché riguardante l’art. 30-ter, comma 7, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), censurato nella parte in cui prevedeva che il termine per proporre reclamo avverso il provvedimento del magistrato di sorveglianza in tema di permesso premio fosse pari a 24 ore, ha rilevato il carattere «[i]ngiustificatamente pregiudizievole rispetto all’effettività del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. [di] un termine così breve» affinché l’interessato potesse articolare le proprie difese. E ciò, ha aggiunto la Corte, «anche in relazione alla oggettiva difficoltà, per il detenuto, di ottenere in un così breve lasso di tempo l’assistenza tecnica di un difensore, che pure è – in via generale – parte integrante del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento».

Orbene, rilevava la Corte costituzionale nella pronuncia qui in commento, come tale principio meritasse di essere richiamato, tenuto conto che la compressione del diritto di difesa dell’imputato nel giudizio direttissimo è, secondo l’interpretazione delle disposizioni censurate offerta dalla giurisprudenza prevalente, anche maggiore rispetto al caso deciso dalla sentenza n. 113 del 2020, essendo sufficiente considerare, al riguardo, come il rapido susseguirsi delle fasi processuali del giudizio di convalida dell’arresto e dell’instaurazione del giudizio direttissimo, seppure consente di «pervenire con immediatezza all’accertamento di responsabilità penale dell’imputato» (sentenza n. 41 del 2022), possa risolversi, talvolta, anche in uno spazio di poche ore, il che rende non infrequente, per il Giudice delle leggi, che l’imputato non sia assistito dal difensore di fiducia, e che si trovi, inoltre, a dover compiere la scelta sul rito senza disporre di alcun apprezzabile lasso di tempo, quando non in modo addirittura istantaneo.

Di conseguenza, alla luce di tali ragioni, la Corte costituzionale riteneva necessario riaffermare quanto contenuto nell’ordinanza n. 254 del 1993 e, preso atto dell’incompatibilità con l’art. 24 Cost. dell’interpretazione delle disposizioni censurate fatta propria dalla «consolidata giurisprudenza di legittimità» (sentenza n. 68 del 2021), veniva dichiarata l’illegittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, cod. proc. pen. in quanto interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., mentre restavano assorbite le questioni sollevate dall’ordinanza di rimessione in riferimento agli artt. 3 e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 3, lettera b), CEDU e all’art. 14, paragrafo 3, lettera b), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici.

3. Conclusioni

Con la decisione qui in esame, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 451, commi 5 e 6, e 558, commi 7 e 8, del codice di procedura penale, in quanto interpretati nel senso che la concessione del termine a difesa nel giudizio direttissimo preclude all’imputato di formulare, nella prima udienza successiva allo spirare del suddetto termine, la richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen..

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, è adesso previsto che, nel giudizio direttissimo, ove l’imputato chieda un termine a difesa, ciò non vuol dire che costui non possa chiedere, nell’udienza successiva a quella in cui è stato chiesto siffatto termine, di accedere al rito abbreviato o di potere chiedere di “patteggiare”.

Chiarito ciò, il giudizio in ordine a quanto statuito in codesta sentenza, proprio perché si pone nell’ottica di un evidente rafforzamento delle garanzie difensive a favore dell’imputato in tale specifico caso, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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