La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, c. 4, c.p.

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Corte costituzionale, 25 febbraio 2021 (ud. 25 febbraio 2021, dep. 31 marzo 2021), n. 55 (Presidente Coraggio, Relatore Amoroso)

Il fatto

Il giudice rimettente era chiamato a giudicare con rito abbreviato due persone imputate del reato di cui agli artt. 110, 116 e 628, secondo comma, cod. pen, perché, in concorso tra loro e, comunque, previo concerto, sottraevano dagli scaffali di un supermercato alcuni generi alimentari; in particolare dall’imputazione risultava che una volta giunti alle casse, per assicurarsi il possesso di tali cose e procurarsi l’impunità, uno degli imputati usava violenza contro la direttrice del negozio intervenuta a bloccarla all’uscita, spintonandola violentemente e strattonandola per un braccio, fuggendo all’esterno dell’ esercizio commerciale, seguita dall’altro imputato fermo restando che i due imputati venivano, poi, bloccati dal personale della Polizia di Stato che li trovava in possesso della merce appena sottratta ed intenti a consumarla.

Ad uno di questi, inoltre, gli era stata contestata la recidiva reiterata, specifica infraquinquennale e dopo l’esecuzione della pena e, a tal riguardo, il giudice a quo aveva tenuto conto dei numerosi precedenti risultanti dai certificati penali dell’interessato.

Ciò posto, per entrambi gli imputati, secondo il giudicante, la responsabilità penale risultava accertata e, ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. pen., anche uno di costoro era responsabile della rapina impropria, avendo programmato il solo furto, non essendovi elementi per ritenere che avesse invece previsto e accettato il rischio di realizzazione del più grave reato di rapina, anche solo in termini di dolo eventuale posto che era prevedibile che il furto potesse degenerare in una rapina e ciò anche alla luce dell’orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui «sussiste il necessario rapporto di causa ad effetto tra il reato di furto inizialmente programmato e quello di rapina impropria, commesso successivamente, poiché è del tutto prevedibile che un compartecipe possa trascendere ad atti di violenza o minaccia nei confronti della parte lesa o di terzi, per assicurarsi il profitto del furto, o comunque guadagnare l’impunità» (tra le tante, venivano richiamate le sentenze della Corte di cassazione, sezione seconda penale: sentenze 3-29 ottobre 2018, n. 49443; 6-27 ottobre 2016, n. 45446 e 18 giugno-26 luglio 2013, n. 32644).

In favore di uno tra questi accusati, ad ogni modo, sarebbero state riconoscibili anche plurime circostanze attenuanti.

In primo luogo, quell’attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. e, poi, quella di cui all’art. 62, numero 4), cod. pen., per il valore modesto dei beni sottratti, e per la minima entità dell’offesa recata all’integrità fisica della vittima.

Inoltre, sarebbero stato concedibili anche le circostanze attenuanti generiche di cui all’art. 62-bis cod. pen. in ragione dell’entità della violenza, della natura dei beni oggetto della condotta delittuosa e delle condizioni economiche degli imputati.

 

Le questioni prospettate nell’ordinanza di rimessione

 

In relazione a questo giudizio, il Tribunale ordinario di Firenze sollevava, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen., nonché, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale della medesima disposizione, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza di più circostanze attenuanti sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

In particolare, in punto di rilevanza, il rimettente osservava come nella fattispecie al suo esame ricorresse la recidiva reiterata (peraltro specifica, infraquinquennale e dopo l’esecuzione della pena), la quale non solo era stata correttamente contestata, ma doveva altresì applicarsi in concreto.

In considerazione del carattere recente dei precedenti giudiziari, dell’omogeneità tra gli stessi e il reato ora in esame, del tipo di devianza di cui gli stessi erano espressione, dell’insufficienza in chiave dissuasiva delle condanne e delle pene già eseguite, il rimettente affermava che la ricaduta nel reato fosse effettivo sintomo di una maggiore pericolosità e colpevolezza dell’imputato.

Ciò argomentato, il giudice a quo osservava ancora come l’applicazione della recidiva non sia incompatibile con l’istituto del concorso anomalo in quanto – richiamando la sentenza della Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 13 maggio-11giugno 2015, n. 24710 – affermava che il citato minor coefficiente psicologico (prevedibilità dello sviluppo più grave poi concretizzatosi) si innesta necessariamente su una componente dolosa qual è la rappresentazione e volizione del reato meno grave sicché, con riguardo a tale componente, è dunque possibile la valutazione di maggior pericolosità e colpevolezza richiesta ai fini dell’applicazione della recidiva.

Con riferimento alle altre circostanze attenuanti, il giudice a quo affermava tra l’altro che esse, per la loro pregnanza, avrebbero meritato di essere ritenute prevalenti rispetto alla citata recidiva qualificata e di essere applicate nella loro estensione massima o quasi massima.

In tal senso, significativa sarebbe stata, ad avviso del giudice a quo, anche la richiesta del pubblico ministero, in sede di formulazione delle conclusioni, di applicazione delle attenuanti in misura prevalente sulla citata recidiva deducendosi però al contempo che, tuttavia, il divieto posto dall’art. 69, quarto comma, cod. pen. ostava ad un tale giudizio di prevalenza.

Precisato ciò, in punto di non manifesta infondatezza, il rimettente osservava come il precetto normativo in esame fosse di dubbia legittimità costituzionale e, dopo aver ricordato che la Consulta aveva già affrontato in plurime occasioni e sotto differenti profili la norma censurata, si affermava che nella fattispecie il citato divieto trasmodasse in una manifesta irragionevolezza, sia riguardo alla circostanza attenuante di cui all’art. 116 cod. pen., sia in relazione alla sussistenza di una pluralità di circostanze attenuanti.

Sotto il primo profilo, il rimettente affermava infatti che la circostanza prevista dall’art. 116, secondo comma, cod. pen., anche se ad effetto comune, sia meritevole di una considerazione peculiare «in quanto necessaria ad assicurare la “tenuta costituzionale” dell’istituto del concorso anomalo».

In particolare, il rimettente, dopo aver ricordato che la Corte costituzionale, nella sentenza n. 42 del 1965, aveva auspicato un intervento del legislatore che ponesse fine a dubbi e discrasie suscitati dalla disposizione dell’art. 116 cod. pen., riteneva che in tale quadro la circostanza attenuante in esame «appare essenziale per assicurare la legittimità costituzionale ex art. 3 Cost. dell’istituto del concorso anomalo, consentendo che situazioni profondamente diverse (da un lato un vero e proprio dolo, dall’altro il dolo di un fatto diverso, potenzialmente del tutto diverso, accompagnato dalla prevedibilità del fatto più grave del correo) siano sanzionate in modo almeno un minimo differente».

Il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. sulla recidiva reiterata, fissato dall’art. 69, quarto comma, cod. pen., ad avviso del ricorrente, avrebbe a sua volta vanificato tale distinzione imponendo l’applicazione al concorrente anomalo del trattamento sanzionatorio previsto per il reato più grave da lui non voluto.

Sempre secondo il giudice a quo, sarebbe poi risultato violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto il trattamento sanzionatorio che, per effetto del divieto di prevalenza, troverebbe applicazione sarebbe eccessivo e ingiusto violando il canone della proporzionalità rispetto al fatto di reato posto in essere, globalmente considerato, ivi compreso l’atteggiamento psicologico dell’imputato e, in quanto sproporzionata, la pena non potrebbe essere quindi percepita dal condannato come giusta ed esplicare quindi la propria funzione rieducativa.

Chiarito ciò, veniva poi affrontato il secondo profilo di illegittimità della norma.

Il rimettente, in particolare, affermava che intendeva concedere all’imputato più circostanze attenuanti, tutte ad effetto comune, applicabili nella loro portata massima o quasi con la conseguenza che, tralasciando per semplicità la pena pecuniaria, sarebbe stata a suo avviso congrua, ai sensi dell’art. 133 cod. pen., una pena detentiva di anni uno e mesi sei di reclusione fatta salva la riduzione per il rito mentre, per effetto della recidiva reiterata e del divieto di prevalenza delle attenuanti, la pena detentiva da irrogare è, invece, quella di anni cinque di reclusione.

Operandosi in tal guisa, però, ad avviso del giudice rimettente, si delineerebbe una irragionevole divaricazione tra la pena irrogabile in assenza del divieto di prevalenza e la pena che invece è applicabile in presenza dello stesso, il tutto in contrasto con l’art. 3 Cost.

Inoltre, la disposizione censurata, sempre secondo questo giudice, si sarebbe posta in contrasto anche con l’art. 25, secondo comma, Cost. in quanto, per effetto del divieto di prevalenza, l’incidenza della recidiva finirebbe per attribuire un peso eccessivo al passato giudiziale della persona rispetto alla gravità del fatto di reato commesso globalmente considerato anche nei suoi aspetti circostanziali.

Richiamando la sentenza n. 105 del 2014, il rimettente affermava, poi, che la norma censurata avrebbe violato anche l’art. 27, terzo comma, Cost. in quanto realizza una «deroga rispetto a un principio generale che governa la complessa attività commisurativa della pena da parte del giudice, saldando i criteri di determinazione della pena base con quelli mediante i quali essa, secondo un processo finalisticamente indirizzato dall’art. 27, terzo comma, Cost., diviene adeguata al caso di specie anche per mezzo dell’applicazione delle circostanze».

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Le argomentazioni sostenute dalle parti

Interveniva in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare le questioni non fondate.

In particolare, dopo aver passato in rassegna numerose decisioni della Corte costituzionale, la difesa dello Stato evidenziava come l’illegittimità costituzionale sia stata pronunciata soltanto rispetto ad attenuanti ad effetto speciale, con funzioni precise ed essenziali, quali contenere gli scarti edittali e mitigare i livelli di pena, per fattispecie di grande ampiezza, oppure per incentivare comportamenti virtuosi dopo il reato.

La deroga alla ordinaria disciplina del bilanciamento, riferendosi ad una circostanza attenuante comune implicante una diminuzione della pena fino ad un terzo, dal canto suo, non comporta ricadute sul trattamento sanzionatorio palesemente irragionevoli o sproporzionate.

L’Avvocatura generale quindi – richiamando anche la sentenza della Corte di cassazione (Cass., n. 24710 del 2015) che aveva rigettato un’identica eccezione di illegittimità costituzionale – concludeva per la non fondatezza della questione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Consulta

In via preliminare, veniva rilevato come il rimettente avesse plausibilmente motivato in ordine alle ragioni che rendevano rilevanti le questioni di legittimità costituzionale sottoposte all’esame del Giudice delle leggi.

In primo luogo, si notava come il rimettente avesse mostrato di far proprio il consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale e di legittimità secondo cui l’applicazione della recidiva, pur non obbligatoria, si giustifica in quanto il nuovo delitto, commesso da chi sia già stato condannato per precedenti delitti non colposi, sia espressivo in concreto del maggior grado di colpevolezza e pericolosità nonché di rimproverabilità della condotta tenuta nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle precedenti condanne (sentenze n. 73 del 2020 e n. 192 del 2007; più di recente, ex plurimis, sentenza n. 185 del 2015; Corte di cassazione, Sezioni Unite penali, sentenza 27 maggio-5 ottobre 2010, n. 35738).

Nella fattispecie, si faceva presente come il giudice a quo avesse dato puntuale conto delle numerose condanne pronunciate nei confronti dell’imputato alla luce delle quali reputava come la condotta contestatagli – concorso nel reato di furto degenerato in rapina impropria – mostrasse una maggiore pericolosità e colpevolezza dell’imputato, insensibile a tali precedenti condanne e, quindi, da un lato maggiormente rimproverabile e dall’altro più incline a commettere nuovi reati.

Inoltre il giudice rimettente – nella ricostruzione della responsabilità dell’imputato, quale concorrente cosiddetto anomalo ai sensi dell’art. 116, primo comma, cod. pen., per il reato «diverso da quello voluto» – teneva conto della giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in ordine a tale norma.

Ciò posto, si evidenziava a tal proposito come la Corte costituzionale (sentenza n. 42 del 1965) avesse chiarito che la responsabilità ai sensi dell’art. 116 cod. pen. richiede la sussistenza non soltanto del rapporto di causalità materiale ma anche di un «coefficiente di colpevolezza», poi ribadito dalla giurisprudenza di legittimità; occorre quindi un nesso psicologico che a sua volta postula che il reato diverso o più grave commesso da altro concorrente possa rappresentarsi alla psiche del concorrente anomalo come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello concordato (ex multis, Corte di Cassazione, sezione quinta penale, sentenza 2 ottobre-7 novembre 2019, n. 45356; sezione quarta penale, sentenza 18 ottobre-2 novembre 2018, n. 49897; sezione seconda penale, sentenza 11 luglio-29 ottobre 2018, n. 49433; sezione prima penale, sentenza 11 settembre-5 ottobre 2018, n. 44579) o come possibile epilogo rispetto al fatto programmato (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 10 giugno 2016-6 aprile 2017, n. 17502).

Al riguardo si evidenziava come il rimettente avesse puntualmente precisato che, nel caso di specie, sussistevano, sia il necessario rapporto di causa ad effetto tra il reato di furto inizialmente programmato e quello di rapina impropria commesso successivamente in ragione dell’azione violenta posta in essere dall’altro correo, sia l’elemento soggettivo della colpa, poiché era prevedibile che il compartecipe potesse trascendere ad atti di violenza o minaccia nei confronti della parte lesa o di terzi per assicurarsi il profitto del furto, o comunque guadagnare l’impunità (ex plurimis, Corte di Cassazione, seconda sezione penale, sentenze: 3-29 ottobre 2018, n. 49443; 6-27 ottobre 2016, n. 45446; 18 giugno-26 luglio 2013, n. 32644).

In particolare, il giudice rimettente, descrivendo in modo puntuale lo svolgersi della condotta criminosa, ad avviso dei giudici di legittimità costituzionale, dimostrava di volere aderire all’orientamento della giurisprudenza di legittimità che postula l’accertamento in concreto, alla luce di tutti gli elementi del caso, della prevedibilità del fatto diverso da parte di altro concorrente (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenze n. 17502 del 2017, già citata; 28 aprile-18 novembre 2016, n. 49165; 19 novembre 2013-28 febbraio 2014, n. 9770).

La motivazione del giudice a quo in punto di rilevanza era quindi per la Consulta senz’altro plausibile comportando ciò l’ammissibilità delle questioni prospettate in riferimento al divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art.116, secondo comma, cod. pen. (ex multis, sentenze n. 73 del 2020 e n. 250 del 2018).

Premesso ciò, venivano reputate fondate nel merito le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., sollevate in via principale, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sull’aggravante della recidiva reiterata (art. 99, quarto comma, cod. pen.).

Si evidenziava a tal riguardo prima di tutto che l’art. 116, primo comma, cod. pen. contempla l’ipotesi in cui il reato commesso sia diverso da quello voluto da taluno dei concorrenti prevedendo che quest’ultimo ne risponde se l’evento è conseguenza della sua azione od omissione fermo restando però che, ove il reato commesso risulti essere più grave di quello voluto, l’art. 116, secondo comma, cod. pen. stabilisce che la pena è diminuita trattandosi di una circostanza attenuante ad effetto comune che, ai sensi dell’art. 65 cod. pen., comporta la diminuzione della pena in misura non eccedente il terzo.

A fronte di ciò, si notava che, quando tale diminuente concorre con l’aggravante della recidiva reiterata prevista dall’art. 99, quarto comma, cod. pen., il giudizio di prevalenza e, quindi, la diminuzione della pena, è impedita dalla disposizione censurata rimanendo possibile, a favore dell’imputato, solo il giudizio di equivalenza atteso che la legge n. 251 del 2005 ha riformulato il quarto comma dell’art. 99 cod. pen. introducendo il divieto di prevalenza di qualsiasi circostanza attenuante, inclusa la diminuente del vizio parziale di mente, nell’ipotesi – tra l’altro – di recidiva reiterata, precludendo così in modo assoluto al giudice di applicare, in tal caso, la relativa diminuzione di pena.

A sua volta tale norma, nel testo risultante dalla legge n. 251 del 2005, è stata oggetto di numerose dichiarazioni di illegittimità costituzionale che hanno restituito al giudice la possibilità di ritenere, nell’ambito dell’obbligatorio giudizio di bilanciamento delle circostanze eterogenee, la prevalenza, rispetto alla circostanza aggravante della recidiva reiterata, di singole circostanze attenuanti, che sono state distintamente, di volta in volta, oggetto di verifica di costituzionalità osservandosi al contempo come, in generale, la Consulta abbia affermato che deroghe al regime ordinario del bilanciamento tra circostanze, come disciplinato dall’art. 69 cod. pen., sono sì costituzionalmente ammissibili e rientrano nell’ambito delle scelte discrezionali del legislatore, ma sempre che non «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio» (sentenze n. 205 del 2017 e n. 68 del 2012; in senso conforme, sentenza n. 88 del 2019) non potendo in alcun caso giungere «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale» (sentenze n. 73 del 2020 e n. 251 del 2012) fermo restando che, nella maggior parte dei casi, le dichiarazioni di illegittimità costituzionale hanno riguardato «circostanze espressive di un minor disvalore del fatto dal punto di vista della sua dimensione offensiva» (sentenza n. 73 del 2020) in quanto riferite ad attenuanti a effetto speciale tali essendo quelle che importano una diminuzione della pena superiore ad un terzo (art. 63, terzo comma, cod. pen.): così la «lieve entità» nel delitto di produzione e traffico illecito di stupefacenti (sentenza n. 251 del 2012); la «particolare tenuità» nel delitto di ricettazione (sentenza n. 105 del 2014); la «minore gravità» nel delitto di violenza sessuale (sentenza n. 106 del 2014); il «danno patrimoniale di speciale tenuità» nei delitti di bancarotta e ricorso abusivo al credito (sentenza n. 205 del 2017) mentre, in un caso, la dichiarazione di illegittimità ha avuto ad oggetto il divieto di prevalenza di una circostanza – l’essersi il reo adoperato per evitare che il delitto di produzione e traffico di stupefacenti sia portato a conseguenze ulteriori – diretta a premiare l’imputato per la propria condotta post delictum (sentenza n. 74 del 2016).

Oltre a ciò, veniva altresì osservato come più recentemente l’esito di incostituzionalità abbia riguardato la circostanza attenuante del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen., espressiva non già di una minore offensività del fatto, quanto piuttosto della ridotta rimproverabilità dell’autore derivante dal minor grado di discernimento e, in relazione a tale fattispecie, la Corte costituzionale aveva affermato che il «disvalore soggettivo dipende in maniera determinante non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile» (sentenza n. 73 del 2020).

Orbene, nella fattispecie in esame, per la Corte, il divieto di prevalenza dell’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 116 cod. pen. si rivela in contrasto con i parametri evocati dal giudice rimettente per una ragione ancora più stringente di quelle che hanno portato alle precedenti, sopra richiamate, dichiarazioni di illegittimità costituzionale.

Si notava a tal riguardo innanzitutto che la struttura della fattispecie prevista dall’art. 116 cod. pen. – norma introdotta dal codice penale del 1930 e ispirata a un rigore marcatamente accentuato nella repressione dei reati commessi con concorso di persone – è tutt’affatto particolare se confrontata con il principio generale della personalità della responsabilità penale posto dall’art. 27, primo comma, Cost. e dalla conseguente preclusione di ogni forma di responsabilità oggettiva penale (ex plurimis, sentenza n. 364 del 1988) atteso che, qualora due o più persone si accordino allo scopo di commettere un reato, rispondono tutte di quest’ultimo (art. 110 cod. pen.) perché da ciascuno “voluto” e quindi investito da dolo, pur con possibile diverso grado di intensità e di partecipazione causale sì da potersi distinguere tra chi ha promosso od organizzato la cooperazione nel reato, ovvero diretto l’attività delle persone che sono concorse nel reato medesimo (nel qual caso la pena è aumentata: art. 112, primo comma, numero 2, cod. pen.) e chi invece abbia avuto minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato (ciò che comporta che la pena è diminuita: art. 114, primo comma, cod. pen.) mentre, invece, l’art. 116, primo comma, cod. pen. prevede l’ipotesi in cui un concorrente risponde del reato «diverso da quello voluto» e quindi, in realtà “non voluto”, non di meno ne risponde perché ha voluto il reato oggetto dell’accordo e il reato diverso da quello voluto è conseguenza della sua azione od omissione.

Detto questo, veniva altresì osservato che, se si considera la formulazione testuale della norma, il principio della personalità della responsabilità penale appare essere in sofferenza quanto meno nella misura in cui tale disposizione richiede soltanto che l’evento del reato diverso sia conseguenza dell’azione od omissione del correo, ossia il solo nesso di causalità materiale, ma alla tenuta costituzionale della norma contribuiscono da una parte l’interpretazione adeguatrice, costituzionalmente orientata, accolta fin dalla citata sentenza n. 42 del 1965 e dalla sopra citata giurisprudenza di legittimità, e d’altra parte proprio l’attenuante prevista dal secondo comma dell’art. 116 cod. pen. che ha una funzione di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio dato che, pur mancando il dolo (anzi dovendo escludersi che esso ricorra anche nella forma del dolo eventuale), è però «necessaria, per questa particolare forma di responsabilità penale, la presenza anche di un elemento soggettivo», ossia «un coefficiente di partecipazione anche psichica»; in altri termini, occorre che «il reato diverso o più grave commesso dal concorrente debba potere rappresentarsi alla psiche dell’agente, nell’ordinario svolgersi e concatenarsi dei fatti umani, come uno sviluppo logicamente prevedibile di quello voluto, affermandosi in tal modo la necessaria presenza anche di un coefficiente di colpevolezza» (sentenza n. 42 del 1965).

Si evidenziava per di più come la giurisprudenza di legittimità, come sopra richiamata, abbia, poi, chiarito che si tratta di prevedibilità in concreto tenuto conto di tutte le peculiarità del caso di specie in quanto il correo è responsabile per il fatto-reato non voluto perché avrebbe dovuto prevedere che l’attuazione dell’accordo delittuoso sarebbe potuta sfociare in un reato diverso mentre – può aggiungersi – la previsione, da parte del correo, dell’evento diverso, con accettazione del rischio che si verifichi, ridonda in dolo eventuale e quindi in responsabilità piena, non diminuita dall’attenuante in esame (Corte di Cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 giugno-30 agosto 1995, n. 9273).

Pur tuttavia, ancorché il difetto di prevedibilità possa ascriversi a colpa, il trattamento sanzionatorio, però, è quello del reato doloso, tale essendo la prescrizione del primo comma dell’art. 116 cod. pen.; ossia lo stesso trattamento previsto per il correo che ha commesso – e voluto – il reato “diverso” e in ciò la norma esibisce tutto il suo rigore sanzionatorio se solo la si compara ad un’altra fattispecie generale e per certi versi simile, vale a dire quella dell’art. 83 cod. pen. trattandosi di una norma che, al di fuori dell’ipotesi del concorso, prevede che se l’«evento [è] diverso da quello voluto», l’agente è responsabile a titolo di colpa e quindi solo ove il fatto sia preveduto dalla legge come delitto colposo.

Invece l’art. 116, primo comma, cod. pen. non opera questo décalage da reato doloso a reato colposo prevedendo al contrario la stessa responsabilità per il reato, diverso da quello voluto con l’accordo delittuoso, commesso da altro correo, parificando così a quest’ultimo la posizione del concorrente che non ha voluto il fatto-reato ed è qui che, per la Consulta, soccorre il secondo comma dell’art. 116 cod. pen. per operare la necessaria diversificazione quanto alla dosimetria della pena visto che il trattamento sanzionatorio non può essere pienamente parificato quando il reato commesso sia più grave di quello voluto dal momento che in tal caso la pena per il correo che risponde a titolo di colpa di un reato doloso più grave di quello voluto è necessariamente riequilibrata mediante l’operatività della diminuente prevista dalla norma e anch’essa, quindi, concorre a sorreggere la tenuta costituzionale di questa eccezionale fattispecie di responsabilità penale della quale peraltro già la sentenza n. 42 del 1965 auspicava una revisione e che è stata oggetto di varie iniziative di riforma (finora senza esito).

Questa finalità di necessario riequilibrio del trattamento sanzionatorio nella fattispecie del concorso anomalo di cui all’art. 116 cod. pen. mostra dunque, per il Giudice delle leggi, il carattere tutt’affatto particolare della diminuente in esame al di là dell’essere essa un’attenuante comune e non già ad effetto speciale fermo restando che la scelta del legislatore di sanzionare con la pena prevista per un delitto doloso il reo, al quale viene mosso un rimprovero di colpa, trova un bilanciamento proprio nella previsione di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. secondo cui la pena è diminuita mentre, invece, la norma censurata impedisce, in modo assoluto, al giudice di ritenere prevalente la diminuente in questione, in presenza della circostanza aggravante della recidiva reiterata, con ciò frustrando, sempre per la Corte di legittimità costituzionale, irragionevolmente, gli effetti che l’attenuante mira ad attuare e compromettendone la necessaria funzione di riequilibrio sanzionatorio.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo cui il divieto inderogabile di prevalenza dell’attenuante in esame non risulta compatibile con il principio costituzionale di determinazione di una pena proporzionata posto che il principio di proporzionalità della pena rispetto alla gravità del reato «esige in via generale che la pena sia adeguatamente calibrata non solo al concreto contenuto di offensività del fatto di reato per gli interessi protetti, ma anche al disvalore soggettivo espresso dal fatto medesimo (sentenza n. 222 del 2018) e il quantum di disvalore soggettivo dipende in maniera determinante, non solo dal contenuto della volontà criminosa (dolosa o colposa) e dal grado del dolo o della colpa, ma anche dalla eventuale presenza di fattori che hanno influito sul processo motivazionale dell’autore rendendolo più o meno rimproverabile (sentenza n. 73 del 2020).

In definitiva, per la Corte costituzionale, la sproporzione della pena rispetto alla rimproverabilità del fatto posto in essere, globalmente considerato, conseguente al divieto di prevalenza censurato, determina un trattamento sanzionatorio che impedisce alla pena di esplicare la propria funzione rieducativa con violazione dell’art. 27 Cost. mentre il contrasto dell’art. 69, quarto comma, cod. pen., con l’art. 3 Cost. viene in rilievo sotto il profilo della violazione del principio di uguaglianza in quanto il divieto censurato finisce per vanificare la funzione che la diminuente di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen. tende ad assicurare, ossia sanzionare in modo diverso situazioni profondamente distinte sul piano dell’elemento soggettivo (quello del correo che pone in essere l’evento diverso e più grave e quello di chi vuole il reato meno grave senza prevedere, colpevolmente, che questo possa degenerare nel fatto più grave).

La Consulta, di conseguenza, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, dichiarava l’illegittimità costituzionale dell’art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Conclusioni

La sentenza in esame è assai interessante in quanto con essa la Corte costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 69, c. 4, c.p. nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 116, secondo comma, cod. pen., sulla recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen..

Pertanto, per effetto di questa pronuncia, ben si potrà chiedere adesso il riconoscimento della prevalenza dell’attenuante di cui all’art. 116, c. 2, c.p. (“Se il reato commesso è più grave di quello voluto, la pena è diminuita riguardo a chi volle il reato meno grave”) rispetto alla recidiva di cui all’art. 99, c. 4, c.p. (“Se il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo comma, è di due terzi”).

Tale pronuncia, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione ove si debba procedere ad un giudizio di comparazione tra circostanze di questo tipo non ricorrendo più tale condizione ostativa.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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