La confisca “diretta” e “per equivalente” nel diritto penale tributario

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Per confisca si intende ogni “atto di sottrazione coattiva di beni al titolare, con contestuale attribuzione definitiva degli stessi allo Stato, in conseguenza della commissione di un reato o comunque di un’attività illecita o pericolosa”[1]. Nel diritto penale tributario la confisca ha acquisito piena dimensione normativa attraverso la legge finanziaria del 2008 (art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244), la quale dispone che «anche ai condannati per reati tributari si applicano le disposizioni previste dal summenzionato art. 322-ter c.p.»: la confisca obbligatoria in caso di condanna per reati tributari è stata dunque introdotta dall’art. 1 comma 143 della legge n. 244/2007 tramite un semplice rinvio normativo all’art. 322-ter c.p.

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La disciplina dell’istituto è stata successivamente trasposta nel corpus del d.lgs. 74/2000 in occasione della “revisione” del sistema sanzionatorio penale tributario operata dal d.lgs. 158/2015. L’ art. 12-bis d.lgs. 74/2000 prevede quindi, per il caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 c.p.p. per un qualsiasi delitto tributario, la confisca obbligatoria dei beni che ne costituirono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato (c.d. confisca diretta). La stessa disposizione statuisce inoltre che, qualora la confisca diretta del prezzo o profitto del reato non risulti possibile, venga ordinata la confisca di beni di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo o profitto (c.d. confisca per equivalente o “di valore”). La portata innovativa della disciplina emerge nel secondo comma del predetto articolo, il quale stabilisce la “non operatività” della confisca a carico del contribuente qualora egli si “impegni” a versare all’erario quanto dovuto, precisando, altresì, che, in caso di mancato versamento, la confisca è sempre disposta. L’innegabile merito della vigente formulazione normativa è indubbiamente quello di avere reso la confisca del profitto conseguenza di uno qualsiasi dei reati di cui al d. lgs. 74/2000, oltre l’aver finalmente introdotto una norma ad hoc, rimediando così alla mancanza di chiarezza derivante dal ricorso alla tecnica del rinvio normativo.

La riforma in merito alla confisca

La riforma del 2015 ha però suscitato anche dubbi e incertezze applicative, alimentando vivaci e spesso controversi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali.

Passeremo rapidamente in rassegna le principali questioni giuridiche riguardanti l’istituto della “confisca” ed i relativi orientamenti giurisprudenziali.

Volgendo lo sguardo al periodo ante riforma, la giurisprudenza meno recente definiva “profitto” quel «vantaggio economico che costituisce un beneficio aggiunto di tipo patrimoniale e che abbia un rapporto di diretta derivazione causale con la commissione del reato»[2]. Per quel che concerne la confisca diretta di beni fungibili, in materia tributaria, l’orientamento di legittimità richiedeva tassativamente il predetto requisito della derivazione causale delle somme di denaro, il quale non poteva fondarsi su «dati meramente congetturali»[3]. Col passare del tempo nelle aule di giustizia è andata sempre più definendosi la nozione di profitto confiscabile. A distanza di anni dalle pronunce di cui sopra, la Cassazione, con la sentenza Adami, è nuovamente intervenuta sulla natura del profitto confiscabile, delimitandone i perimetri, e statuendo espressamente che, seguito dell’ art. 1, comma 143, l. 24 dicembre 2007, n. 244, il profitto confiscabile, anche per equivalente, è costituito da «qualsivoglia vantaggio patrimoniale direttamente conseguito dalla consumazione di un reato e anche consistente in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento del tributo, interessi, sanzioni, dovuti a seguito di accertamento del debito tributario»[4].

La giurisprudenza di legittimità

In ordine alla delicata questione del rapporto tra confisca ed enti collettivi, la Suprema Corte si è pronunciata con la storica sentenza Gubert, ritenendo possibile la confisca dei beni appartenenti all’ente collettivo per le violazioni tributarie commesse dal proprio legale rappresentante, amministratore, etc..; traendo le mosse dalla pacificamente accettata nozione di profitto, si chiarisce che «la confisca del profitto, quando si tratta di denaro o cose fungibili, non è confisca per equivalente, ma confisca diretta», dovendosi operare a prescindere dalla verifica della provenienza delittuosa di tali somme. In sostanza, secondo le Sezioni Unite, ogniqualvolta vi sia del denaro nella disponibilità dell’ente che abbia tratto profitto dal reato tributario commesso dal proprio organo, il giudice deve obbligatoriamente procedere alla confisca per un ammontare complessivo corrispondente al profitto, senza la necessità di provare la provenienza dal reato tributario di tali somme di denaro. Con riguardo invece al sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente nei confronti di una persona giuridica, questo non è consentito qualora non sia stato reperito il profitto di reato tributario compiuto dagli organi della persona giuridica stessa, salvo che la persona giuridica sia uno schermo fittizio. L’argomento fondamentale utilizzato dalla Corte è che la confisca per equivalente non può fondarsi sull’art. 322-ter c.p. (richiamato, prima della riforma 2015, dall’art. 1, comma 3, legge n. 244 del 2007), dal momento che la citata disposizione si applica all’autore del reato e la persona giuridica non può essere considerata tale. Per la sentenza Gubert dunque, mentre la confisca diretta ha una natura ripristinatoria (misura di sicurezza patrimoniale), quella per equivalente ha invece natura punitiva, con la conseguenza che la prima si può applicare anche all’ente, la seconda si può applicare soltanto al “reo” autore del reato.

Ad un anno di distanza la Cassazione chiamata a pronunciarsi, nel caso Lucci, sulla confisca in caso di prescrizione del reato originante il profitto o il prezzo illecito, si è ricollegata alla precedente Gubert, chiarendo che se la confisca è di tipo “diretto”, questa è legittima anche in caso di reato estinto per prescrizione, se tale declaratoria è stata preceduta da una pronuncia di merito sulla sussistenza della responsabilità penale dell’imputato i cui beni sono aggredibili. Tale conclusione si fonda sulla natura giuridica di misura di sicurezza della confisca “diretta”, diversamente da quella “per equivalente”, concepita pacificamente come pena.

Orbene, le sentenze Gubert e Lucci, da un lato hanno esteso i confini di applicabilità della confisca diretta, ammettendola anche nei confronti degli enti che abbiano profittato della commissione di uno dei reati di cui al d. lgs. 74/2000, dall’altro hanno mostrato un atteggiamento di maggiore “cautela” in ordine alla sussistenza delle condizioni che legittimerebbero il ricorso alla confisca per equivalente nei confronti degli enti, escludendolo espressamente.

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[1] NICOSIA E., Aspetti teorici e generali e aspetti applicativi della confisca, in CADOPPI A., CANESTRARI S., MANNA A., PAPA M., (a cura di) Trattato di diritto penale, Vol. III La punibilità e le conseguenze del reato, Torino, UTET, 2014, p. 405;

[2] Cass. pen., Sez. Un., 3 luglio 1996, n. 9149;

[3] Ex plurimis, Cass. pen., 1 febbraio 1995, n. 4289;

[4] Cass. pen., Sez. Un., 31 gennaio 2013, n. 18734;

Dott. Di Gregorio Giuseppe

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