La chiarezza e sinteticità degli atti di parte e dei provvedimenti del giudice nel processo civile

Redazione 03/07/19
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di Silvia Latino

Sommario

1. Introduzione: dalle cause della prolissità al fondamento del principio

2. L’assenza del principio nel codice di rito

3. L’elaborazione giurisprudenziale del principio di sinteticità e chiarezza

4. Sinteticità e chiarezza dei provvedimenti del giudice

5. Conclusioni

1. Introduzione: dalle cause della prolissità al fondamento del principio

Il tema della sinteticità e chiarezza degli atti di parte e del giudice ha assunto crescente importanza nell’ordinamento processuale italiano, tanto da divenire non solo oggetto dell’attenzione del legislatore, ma anche di numerose pronunce della giurisprudenza di legittimità, contributi della dottrina[1] e protocolli nati dalla prassi giudiziale.

L’obiettivo di fondo è rappresentato dalla condivisa esigenza di contrastare le tecniche redazionali improntate alla sovrabbondanza e scarsa chiarezza dell’atto processuale; tecniche favorite da diversi fattori ed in primis dall’introduzione dei software di videoscrittura. L’innovazione tecnologica ha radicalmente modificato l’approccio degli operatori e reso estremamente agevole la redazione degli atti (basti pensare allo strumento del copia e incolla[2]). L’eliminazione del formato bollo, sostituita dal pagamento del forfettario contributo unificato, ha spezzato – poi – il legame tra numero di pagine dell’atto e tassazione.

Non deve essere peraltro trascurato l’aspetto prettamente “culturale”. È, infatti, ancora diffusa la convinzione che le tecniche argomentative che mirano alla completezza, alla sovrabbondanza, alla onnicomprensività dei contenuti debbano essere preferite, in quanto maggiormente persuasive[3] .

In questo senso si consideri anche la tendenza legislativa a redigere norme che non possono definirsi l’emblema della sinteticità, e tantomeno della chiarezza[4]; tendenza che inevitabilmente contribuisce, di riflesso, alla redazione di atti e provvedimenti oscuri, data la difficoltà di ricostruzione sistematica della fattispecie in un panorama normativo complesso e disorganico.

A voler osservare il problema dal punto di vista dell’evoluzione processuale, appare evidente che l’approdo ad un sistema caratterizzato dalla prevalenza della scrittura sull’oralità, con tendenziale abbandono delle caratteristiche della concentrazione e dell’immediatezza, ha acuito le criticità appena indicate, incidendo, soprattutto, sulla scarsa sinteticità a livello “macroscopico”: alla successione degli atti nel corso dello svolgimento processuale corrisponde un accumulo nel fascicolo d’ufficio di materiale spesso inutile, perché ripetitivo, che costringe giudice e controparte ad un dispendio di energie eccessivo rispetto a quello che, opportunamente, andrebbe dedicato al caso concreto.

Dal breve excursus circa le cause connesse alla scarsa sintesi degli atti di parte, si coglie la portata di un fenomeno su larga scala, i cui effetti non possono che ricadere sull’economia processuale. Il binomio prolissità-lungaggine processuale, d’altronde, non sembra venir meno neppure focalizzando l’attenzione sui provvedimenti del giudice. La piena realizzazione del dovere di motivazione, sancito dall’art. 111 comma sesto della Costituzione, dipende inevitabilmente dalle caratteristiche dello stile redazionale. L’abuso di obiterdicta rende indefinito il perimetro della decisione, aumentando esponenzialmente il rischio di incorrere nei vizi di ultrapetizione e contraddittoria motivazione. La “sentenza-trattato” rappresenta, in primo luogo, un diniego di giustizia, e quindi – in quanto terreno fertile per l’impugnazione – un elemento di proliferazione dei gradi di giudizio e consequenziale allungamento delle tempistiche processuali.

In qualsiasi contesto in cui la scrittura abbia un ruolo preponderante, gli esiti pregiudizievoli di uno stile lontano dalla sobrietà sono individuabili in termini di inefficienza; quello di sinteticità e chiarezza è, dunque, un principio che risponde in primo luogo alla logica di buon senso, stando alla quale lo scrivere chiaro e conciso contribuisce ad un risparmio di tempo e risorse.

Da dove nasce quindi, l’esigenza di rinvenire un fondamento costituzionale ad un principio i cui benefici sono ravvisabili ictu oculi?

Innanzitutto, dalla considerazione che mirare all’essenzialità di forma comporta un sacrificio in termini di contenuto: la sintesi è perseguibile soltanto attraverso un’opportuna selezione dello scritto, volta ad eliminare le parti superflue e ridondanti del testo. Necessariamente tale attività, in una dialettica delicata come quella processuale, porta con sé il rischio di sacrificare garanzie fondamentali. Il confine tra il superfluo e l’essenziale deve essere tracciato senza dimenticare il dovere deontologico dell’avvocato di garantire una difesa efficace al proprio cliente, e tenendo altresì presente il dovere del giudice di garantire la corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. In ogni caso, quindi, la selezione non deve perdere di vista l’esigenza di funzionalità dell’atto, tanto di parte quanto del giudice, allo scopo per il quale è redatto. Il principio di sinteticità e chiarezza sottende, pertanto, un bilanciamento tra le due componenti: la sintesi non deve andare a discapito della comprensibilità e persuasività dell’atto, posto che un atto eccessivamente scarno rischierà di essere carente a livello argomentativo, e quindi, per nulla chiaro.

Il principio di sinteticità e chiarezza auspica uno sforzo redazionale che muova dalla pianificazione e ordine delle argomentazioni e dei concetti, al fine di ottenere percepibilità piena della domanda e del decisum giudiziale; in altri termini, la piena comprensibilità dell’oggetto del processo, che si realizza a partire dalla chiara formulazione della domanda, è strumentale alla qualità della risposta fornita dalla giustizia. Di rilievo, quindi, è l’aspetto non solo quantitativo, ma anche qualitativo della produzione scritta nel processo.

Muovendo dalla considerazione che atti processuali chiari e sintetici possano contribuire a ridurre i tempi processuali, il fondamento costituzionale del principio è stato individuato, in primis, nella ragionevole durata del giusto processo (art. 111 Cost.)[5].

Si può quindi affermare che la ragionevole durata sta al giusto processo, come la ragionevole lunghezza sta al giusto atto, rispondendo il principio all’esigenza di erigere il giusto processo a partire dal giusto atto.[6]

In tal senso, è lo stesso principio Chiovendiano di economia dei giudizi[7] ad aver trovato sede nella Costituzione[8]: è di ragionevole durata quel processo che impiega lo spazio e le risorse necessarie e sufficienti alla soluzione della specifica controversia. Pertanto, prescindere dalla complessità della concreta controversia induce a sovrapporre il concetto di ragionevole durata a quello di celerità e, parallelamente, prescindere dalla complessità del thema decidendum, conduce inevitabilmente all’appiattimento del concetto di sinteticità su quello di brevità dello scritto. Tanto il principio di sinteticità degli atti, quanto la ragionevole durata, sono clausole generali indissolubilmente legate, quindi, al principio di proporzionalità[9]: solo attraverso la lente della proporzione possono trovare una definizione che ne preservi la flessibilità ed eviti l’approdo a formule vuote – o peggio – formule suscettibili di essere riempite con un dato quantitativo rigido e aprioristicamente predeterminato[10].

In un’ottica di ricerca di efficienza nel sistema giudiziario, il principio può senz’altro rappresentare una chiave di semplificazione delle controversie; divenire cioè il canale per un auspicabile incremento della qualità redazionale, la quale, più che all’abbattimento del contenzioso arretrato, potrebbe essere funzionale – in una prospettiva di cambiamento culturale nel lungo termine – al contenzioso futuro. Detto percorso, tuttavia, non potrà intraprendersi, se non considerando che il principio rappresenta tanto uno strumento di efficienza, quanto una potenziale minaccia per la tutela del diritto di difesa[11]; diritto che, in quanto inviolabile, non può mai cedere il passo ad esigenze di durata[12] – per quanto ragionevole e non breve – del processo.

D’altra parte, invero, è l’assenza stessa di economia dei giudizi a comprimere, fino a svuotare di contenuto, la tutela di cui all’art. 24 della Costituzione[13].

Si addiviene, pertanto, all’individuazione di due disposizioni costituzionali a fondamento del principio: tanto la ragionevole durata, quanto il diritto inviolabile di difesa. Tuttavia, detti principii, seppur in astratto convergenti verso il medesimo obiettivo del giusto processo, tendono in concreto a divergere pericolosamente: irrigidire gli atti in parametri quantitativi, al fine di accelerare le tempistiche, comporta una compressione delle garanzie difensive, allontanando dal giusto processo; invero tollerare gli eccessi difensivi e gli intenti dilatori che si nascondono dietro gli “atti-fiume”, finisce ugualmente per minare il diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale, frustrato in tal caso dalle lungaggini processuali. Il pericolo, insito nella prevalenza di una componente del principio sull’altra, è il rovesciamento le garanzie nel loro contrario, da presidi di giustizia, e qui potremmo dire di giusto processo, a cause d’ingiustizia, e di ingiusto processo.

Occorre, dunque, che il legislatore dia attuazione ai criteri di sinteticità e chiarezza consapevole del ruolo di ago del bilanciamento costituzionale che riveste il principio: esso può assurgere a strumento tanto di garanzia della durata ragionevole, quanto di effettiva tutela dell’individuo nel processo, purché sia orientato alla realizzazione di un pieno e leale contraddittorio tra le parti, e non invece, a mere esigenze di rapidità. Quando la sintesi dei contenuti è ricercata ad ogni costo, perdendo di vista la proporzione con la complessità della materia trattata, questa diviene strumentale al formalismo, piuttosto che alla forma.

Piena realizzazione del dettato costituzionale, o sacrificio dei diritti per ragioni di economia processuale sono, alla luce di questo principio, due possibili facce di una stessa medaglia.

Non resta che procedere ad osservare quali scelte, ad oggi, ne hanno guidato la concreta attuazione nel processo civile.

[1] Sul punto, FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, p. 853 ss.; STORTO, Il principio di sinteticità degli atti processuali, in Il giusto proc. civ., p. 1191 ss.; COMMANDATORE, Sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, in Giur. it., 2015, p. 853 ss.; INGEGNATTI, Dovere di sinteticità e linea di confine tra atto prolisso ed atto esaustivo, in Giur. it., 2014, p. 2278 ss.; CAPPONI, Sulla «ragionevole brevità» degli atti processuali civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2014, p.1075 ss.; PANZAROLA, Sulla sinteticità nella redazione degli atti processuali civili: un invito opportuno, non un principio generale del processo civile, in CONTE, DI MARZIO (a cura di), La sintesi negli atti giuridici, Milano, 2018, p. 121-153; PANZAROLA, Sul (presupposto) principio di sinteticità nella redazione degli atti processuali civili., in Il giusto proc. civ., 2018, p. 69 ss.; TENAGLIA , Sinteticità degli atti processuali nel processo tributario, in Corr. trib., 2017, fasc. 41, p. 3231 ss.; SCARSELLI, Sulla sinteticità degli atti nel processo civile , in Foro it., 2017, p. 323 ss.; DE SANTIS , La redazione degli atti difensivi ai tempi del processo civile telematico: sinteticità e chiarezza , in Il giusto proc. civ., 2017, p. 749 ss.; BIAVATI, Il linguaggio degli atti giudiziari, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, p. 467 ss.

[2] Nelle sentenze della Cassazione sul principio, è la Corte stessa a parlare di “copia-incolla”: tra le altre, Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2018, n. 31013.

[3] Sul punto, FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, cit., spec. p. 859.

[4] V. AINIS, La legge oscura. Come e perché non funziona, Roma, 2002; V. Corte Cost., sent. n. 364 del 1988, in www.giurcost.org, in cui al punto 27 della motivazione la Corte, individua nell’assoluta oscurità del testo normativo l’esimente al principio “ignorantia legis nonexcusat”.

[5] Tra gli altri, in questo senso COMMANDATORE, Sinteticità e chiarezza degli atti processuali nel giusto processo, cit.; STORTO, Il principio di sinteticità degli atti processuali, cit.

[6] V. STORTO, op. cit., spec . p. 1196.

[7] «Il principio di economia dei giudizi, che non è se non l’applicazione del principio del minimo mezzo alla attività giurisdizionale, e non nel singolo processo soltanto, ma anche riguardo a più processi nel rapporto tra loro», così CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1933, p. 87.

[8] E prima ancora, a partire dal 1955, esso faceva ingresso nel nostro ordinamento ad opera dell’art. 6 della CEDU, stando al quale ogni persona ha diritto a veder esaminata la causa in cui è parte entro un termine ragionevole; sul tema CHIAVARIO, Art.6. Diritto ad un equo processo, in BARTOLE, CONFORTI, RAIMONDI (a cura di), Commentario alla Convenzione Europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Padova, 2001, p. 206 ss.

[9] Sulla rilevanza nell’ordinamento giuridico italiano del principio di proporzionalità, di matrice europea, fondamentale il contributo di COGNETTI, Il principio di proporzionalità: profili di teoria generale e di analisi sistematica, Torino, 2011.

[10] Ad una predeterminazione del limite quantitativo degli atti, in termini di numero di caratteri concessi, si è giunti nel processo amministrativo (seppur con la previsione di meccanismi volti a garantire di una certa flessibilità, in rapporto alla complessità della causa). L’operatività del principio di sinteticità e chiarezza nell’ordinamento processuale amministrativo ha subìto un’evoluzione differente, e più rapida, rispetto a quella ancora in corso nel processo civile: basti ricordare, dal punto di vista sanzionatorio, l’immediato riflesso in tema di spese in caso di violazione, introdotto all’art. 26 c.p.a.; mentre da un punto di vista quantitativo, l’iniziale limitazione alla lunghezza degli atti adottata dall’art. 120 c.p.a. in materia di appalti pubblici. Gli ultimi interventi in materia hanno introdotto un’estensione generale del limite dimensionale per gli atti, oggi sancito dal Decreto del Presidente del Consiglio di Stato (del 22 dicembre 2016, modificato – poi – nell’ottobre 2017). Il legislatore ha inoltre corredato i limiti quantitativi di una sanzione processuale in caso di superamento, individuata dal quinto comma dell’art. 13 ter, disp. att. c.p.a.: «Il giudice è tenuto a esaminare tutte le questioni trattate nelle pagine rientranti nei suddetti limiti. L’omesso esame delle questioni contenute nelle pagine successive al limite massimo non è motivo di impugnazione». Non pochi i dubbi di costituzionalità che trapelano dalla disposizione, la quale sembra scardinare il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di fatto autorizzando (attraverso l’incensurabilità) l’omessa pronuncia sul petitum incluso nelle pagine del ricorso eccedenti il limite.
Sul principio di sinteticità e chiarezza nel processo amministrativo, SANDULLI, M. A., Il codice del processo amministrativo nel secondo correttivo: quali novità?, in www.federalismi.it, 2012; FERRARI, Sinteticità degli atti nel giudizio amministrativo, in Libro dell’anno del Diritto 2013, disponibile in www.Treccani.it; FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, in Riv. dir. proc., 2013, p. 853 ss.; VOLPE C., Dovere di motivazione della sentenza e sinteticità degli atti delle parti processuali, in www.giustizia-amministrativa.it; GIUSTI, Il Codice del processo amministrativo dopo il secondo correttivo, in www.federalismi.it, 2013; PIETROSANTI, Sulla violazione dei principi di chiarezza e sinteticità previsti dall’art. 3 comma 2 c.p.a., in Foro amm. Tar., 2013, p. 3626 ss.; GIUSTI, Principio di sinteticità e abuso del processo amministrativo, in Giur. it., 2014, p. 149 ss.; INGEGNATTI, Dovere di sinteticità e linea di confine tra atto prolisso ed atto esaustivo, in Giur. it., 2014, p. 2278 ss.; VOLPE C., Processo amministrativo: sintesi, ottemperanza e opposizione di terzo: tre temicaldi per i contratti pubblici, in www.giustizia-amministrativa.it; VOLPE F., Sui limiti all’estensione degli atti di difesa nel processo amministrativo (p>, in www.LexItalia.it; NUNZIATA , La sinteticità degli atti processuali di parte nel processo amministrativo: fra valore retorico e regola processuale, in Dir. proc. amm., 2015, p. 1327 ss.; SANINO, La sinteticità degli atti nel processo amministrativo: è davvero una novità ?, in Foro it., 2015, p. 379 ss. ; LIPARI, La sinteticità degli atti difensivi, in Libro dell’anno del Diritto 2016, disponibile in www.Treccani.it; DE NICTOLIS, Le sentenze del giudice amministrativo in forma semplificata. Tra mito e realtà, in CONTE, DI MARZIO (a cura di), La sintesi negli atti giuridici, Milano, 2018, p. 155-181; BARBIERI, I principi di sinteticità, di chiarezza e di specificità dei motivi di ricorso nel processo amministrativo,in Riv. dir. proc., 2018, p. 769 ss.; BARBIERI, L’abuso del copia ed incolla nel ricorso giurisdizionale amministrativo, in Riv. dir. proc., 2016, p. 1570 ss.

[11] Rischio ben messo in luce da PANZAROLA, il quale afferma l’inesistenza nel processo civile un principio generale che imponga sinteticità nella redazione degli atti di parte. V. PANZAROLA, Sulla sinteticità nella redazione degli atti processuali civili, cit., p. 121 ss.; sulla enfatizzazione del principio, assolutizzato quale principio generale dell’ordinamento, interessanti le considerazioni di TARUFFO, p>, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2017, p. 453 ss.

[12] La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sottolineato che, per quanto sia di grande importanza l’obiettivo di economia e di accelerazione della procedura, tuttavia esso non può giustificare il misconoscimento di un principio a sua volta fondamentale, quale il diritto a una procedura in contraddittorio, e ciò in quanto l’art. 6 CEDU mira innanzitutto a preservare gli interessi delle parti, oltre a quello collettivo di una buona amministrazione della giustizia (V. Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sentenza 18 febbraio 1997, Nideröst – Huber c. Svizzera).

[13] Lungi dall’introduzione dell’art. 111 in Costituzione, la Corte Costituzionale sottolineò la rilevanza del principio per cui la durata del processo non deve andare in danno alla parte che ha ragione, evidenziando la portata meramente nominalistica che assumerebbe l’art. 24 Cost., laddove si prescindesse dal tempo necessario per attuare la tutela. Sul punto, v. Corte Cost., sent. 28 Giugno 1985, n. 190, in Foro.it, 1985, p. 1881; Corte Cost., 17 Marzo 1998, n. 62, in Foro it., 1998, p. 969.

2. L’assenza del principio nel codice di rito

A differenza del codice del processo amministrativo[14] e di quello di giustizia contabile[15], il codice di procedura civile non contiene alcun riferimento espresso al principio di sinteticità e chiarezza. Partendo dall’inerzia del legislatore, appare utile procedere all’analisi di quella che è stata un’introduzione di fatto, realizzatasi attraverso il contributo degli operatori processuali nella prassi, nonché per mezzo dell’elaborazione giurisprudenziale del principio da parte della Suprema Corte.

Non sono mancati tentativi del legislatore – ad oggi privi di esito – di introdurre il principio in maniera espressa nel codice di rito.

Il primo progetto fu quello della Commissione Vaccarella, Commissione Ministeriale costituita, con D.M. 28 giugno – 4 luglio 2013, per la riforma del processo civile.

Le proposte di modifica alle disposizioni del libro I del codice, in particolare, miravano ad introdurre una versione rinnovata dell’art. 121, con l’obiettivo di «favorire un costume [degli operatori] attento non solo alla sobrietà dei rispettivi atti, ma anche alla collaborazione nella individuazione delle questioni meritevoli di trattazione scritta».[16]

Due nuovi commi dell’articolo citato, pur mantenendo il principio di libertà delle forme, avrebbero inserito nella norma il canone della sintesi (ma non anche quello della chiarezza), e ciò tanto per gli atti di parte, quanto per i provvedimenti giudiziari.

Di particolare rilievo in termini di effettività del principio, inoltre, l’intervento proposto sull’art. 115 c.p.c. La Commissione Vaccarella aspirava a risolvere l’annosa questione della decadenza dall’onere di contestazione, individuando, quale termine ultimo, la prima difesa successiva all’allegazione della controparte. Poiché l’art. 115 c.p.c. impone una presa di posizione specifica sui fatti allegati exadverso, le parti tendono a ribadire più volte le contestazioni già esposte, nel timore che il giudice possa porre a fondamento della decisione un fatto, la cui contestazione si è perduta nei meandri del voluminoso fascicolo d’ufficio. La nuova formulazione avrebbe dunque consentito, in una prospettiva sistematica, di individuare con chiarezza il “luogo” della contestazione, frenando in tal modo l’impulso alla ripetitività.

Con il D.M. del 9 febbraio 2016, venne istituito, presso il Ministero della Giustizia, un gruppo di lavoro per lo studio del principio di sinteticità e chiarezza nel giudizio di legittimità[17]; successivamente integrato da nuovi esperti[18], soprattutto linguisti, il team estese gli studi agli atti dei giudizi di merito, in particolare focalizzando l’attenzione sulle impugnazioni. I risultati dei lavori furono sintetizzati in due relazioni, la prima[19] del dicembre 2016, e la seconda[20], del febbraio 2018 (quest’ultima incentrata, in particolare, sul primo grado di giudizio).

Posto che nel varare il D.D.L. collegato alla legge di stabilità del 2014[21] vennero alla luce proposte di riforma – poi del tutto disattese – che nulla avevano a che vedere con quelle formulate dalla Commissione Vaccarella (tra le altre, l’introduzione della motivazione dei provvedimenti a richiesta e dietro pagamento del contributo unificato). Non si nutrono grandi aspettative in merito al recepimento dei risultati della Commissione Mura da parte del legislatore, anche considerando che la prima relazione, risalente al 2016, contiene una apposita sezione dedicata all’introduzione del principio nel codice, a cui non è stato dato, tuttavia, alcun seguito.

Per concludere il quadro circa il panorama normativo, ad oggi l’unico riferimento alla sintesi è contenuto nella normativa speciale in tema di processo civile telematico: il D.L. 83/2015, convertito nella L. 132/2015, ha introdotto l’art. 16 bis, co. 9 octies nel D.L.179/2012, per cui «gli atti di parte e i provvedimenti del giudice depositati con modalità telematiche sono redatti in maniera sintetica». Tuttavia, la norma è rimasta sostanzialmente disapplicata, per lo meno nella parte in cui si rivolge agli atti di parte[22], e ciò per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, la disposizione è incompleta: priva di ogni riferimento alla chiarezza dell’atto, essa impone al giudice un’opera interpretativa di integrazione del dato testuale, e ciò è ancor più evidente laddove si consideri l’assenza di alcuna sanzione connessa alla violazione della norma. In secondo luogo, stante l’assenza del processo telematico nel giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, l’articolo 16 bis, co. 9 octies – limitato agli atti depositati telematicamente – non ha trovato spazio nelle pronunce di legittimità relative al principio, lasciando ai giudici del merito l’opera interpretativa cui si è accennato in precedenza.

Con la finalità di sopperire alla lacuna legislativa, parte della dottrina[23] ha individuato nell’art. 39 c.p.a. un potenziale strumento di ingresso del principio di sinteticità e chiarezza in ambito processuale civile. Detta tesi muove dall’idea di una reciproca integrazione tra i codici, ritenendo che il rinvio esterno del c.p.a. alle disposizioni del c.p.c. – purché compatibili o espressione di principi generali – non debba essere inteso nel senso di attribuire carattere generale al codice di rito civile e carattere speciale a quello amministrativo.

Effettivamente, a dimostrare la sussistenza del requisito della compatibilità del principio con il sistema processuale civile, vengono in ausilio tutte quelle norme del codice che – seppur in maniera parziale e in larga parte limitandosi ai provvedimenti del giudice[24] – si riferiscono alla sommarietà, concisione e succintezza (artt. 132 e 134 c.p.c.; art. 118 disp. att. c.p.c.).

p>[25].

Si tratta di gruppi di studio istituiti di regola presso i tribunali, i quali, attraverso il coinvolgimento del Consiglio dell’Ordine (e talvolta anche di docenti universitari[26]), hanno consentito l’instaurazione di un dialogo tra l’avvocatura e la magistratura, finalizzato ad individuare regole “virtuose” per la redazione degli atti. Tale attività è infine sfociata nella redazione di protocolli[27] e nell’elaborazione di modelli di atti e provvedimenti.

I protocolli hanno il pregio di riassumere indicazioni circa le tecniche formali di redazione[28], così rappresentando un ausilio per il professionista all’organizzazione dello scritto.

I modelli, invece, rappresentano delle vere e proprie esemplificazioni strutturate di atti, a cui far riferimento per esercitare un’azione a struttura ricorrente o standardizzata. Lo schema si presenta come un modulo in cui inserire i dati del caso concreto, in modo da non tralasciare elementi, né ripetere più volte i medesimi contenuti.

La natura tendenzialmente ripetitiva del contenzioso, tipica di alcune materie, consente senz’altro di coglierne i tratti salienti ed elaborare formati standardizzati; invero, detta attività di elaborazione di atti preimpostati sta prendendo campo anche per quanto riguarda il contenzioso a struttura non ricorrente.

Infatti, sulla scia dei moduli elaborati dai Protocolli dei Tribunali, il recente Protocollo d’Intesa tra CSM e CNF[29], in maniera alquanto innovativa, propone format per la stesura dei provvedimenti. Per la prima volta forniti quale ausilio al lavoro dei magistrati, detti moduli sono allegati informatici al Protocollo, e ciò ne consente l’agevolata introduzione da parte dei giudici all’interno del programma “Consolle”, attualmente in uso nel processo civile telematico.

Particolarmente utile per comprendere le prassi che gli operatori auspicano si diffondano nella redazione degli atti, è uno tra i primi protocolli emanati in Italia: il Protocollo per la redazione degli atti processuali civili, elaborato dall’Osservatorio di Torino.

Il protocollo distingue i diversi momenti dell’attività difensiva, tanto all’interno del singolo atto[30], quanto nella sequela procedimentale: la narrazione organica del fatto, all’interno dell’atto introduttivo, è scissa nettamente dall’attività di contestazione, per la quale si suggerisce maggiore analiticità (scansione per articoli separati e distinti), individuandone la collocazione nel primo atto difensivo di risposta.

«Se la parte ritiene di non poter seguire la scansione della materia del contendere impressa da controparte (per illogicità, contraddittorietà o diversa impostazione giuridica della controversia) ne esplicita le ragioni.La scansione della materia con cui le parti hanno trattato la controversia è, di regola, il telaio della futura sentenza[31]

Oltre alla reciproca influenza tra gli atti difensivi delle parti (soprattutto alla luce del principio di contestazione, cui il Protocollo torinese dedica particolare attenzione), si evidenzia quanto – a distanza di anni – verrà ribadito nel Protocollo d’Intesa tra CSM e CNF: la reciproca influenza tra atti di parte e provvedimenti del giudice.

Anche l’Osservatorio di Roma è particolarmente attento al tema della sinteticità e chiarezza degli atti, lo studio in materia è sfociato nell’adozione del Protocollo sulla sinteticità e chiarezza degliatti processuali di parte e dei provvedimenti del giudice nel giudizio di primo grado[32], datato 12 dicembre 2017.

Alla ricerca di “good practices” a livello locale, ha contribuito fortemente l’incapacità legislativa di operare in materia processuale. Il legislatore interviene, se non con norme scadenti, comunque tralasciando gli aspetti strutturali, e concentrandosi su quella che è stata definita la “riforma perenne” alle norme del codice di procedura civile[33].

L’impegno degli operatori per far fronte alle carenze del sistema sta incrementando nel corso del tempo.

Data la consapevolezza che le forme di autoregolamentazione sono disorganiche, poiché nate in contesti locali, sono stati emanati protocolli dalla portata nazionale: primo tra tutti, il Protocollo d’Intesa del dicembre 2015, che vede il CNF e la Corte di Cassazione impegnati alla ricerca di regole condivise in ordine alla stesura dei ricorsi di ultima istanza[34]. Da ultimo, il già citato Protocollo CNF-CSM, del 2018, primo protocollo nazionale contenente indicazioni anche in merito alla stesura di provvedimenti.

Nella stessa prospettiva evoluzionistica, si osservi l’intento degli Osservatori di creare luoghi di dialogo: l’Assemblea Nazionale degli Osservatori sulla Giustizia civile tenutasi a Roma, il 21 maggio 2017, ha introdotto le Linee guida del 2017 per la redazione di atti eprovvedimenti in maniera chiara e sintetica, alle quali è fortemente ispirato il protocollo di Roma summenzionato. Le Linee Guida vengono proposte quale strumento, rivolto agli organi istituzionali, per dare attuazione al principio di sinteticità e chiarezza.

Nelle p>

L’invito all’inserimento dei collegamenti ipertestuali sembra orientato a sfruttare la dinamicità dell’atto telematico rispetto al cartaceo; inoltre, nell’ottica di garantire una consultazione agevolata, devono essere intesi i suggerimenti di redigere un sommario iniziale (abstract), nonché un elenco numerato dei documenti allegati. Per l’individuazione del limite di pagine degli atti, così come per quanto attiene ai caratteri grafici, al corpo e allo stile, le Linee Guida aderiscono alle indicazioni fornite nel Protocollo d’Intesa CNF – Cassazione; sul punto, le p>[35]

Ulteriore esempio di dialogo sono le riunioni del Coordinamento Nazionale degli Osservatori: in quella tenutasi il 24 novembre 2017 a Bologna, si è rilevato che la questione della chiarezza e sinteticità degli atti si articola diversamente tra gradi di merito e legittimità, e pertanto, preso atto dell’introduzione del principio nel processo civile telematico, l’obiettivo è l’effettività fin dai primi gradi di giudizio, a prescindere dalla scelta tra il metodo premiale o sanzionatorio, sancita dai vari protocolli.

Il dato più allarmante che emerge da un’attenta analisi dei protocolli è che gli stessi stiano divenendo veicolo di interpretazione della normativa[36]: gli Osservatori stanno progressivamente esorbitando dall’attività di individuare buone prassi, poiché, anche alla luce della lacunosità summenzionata, necessitano di colmare i vuoti presenti nel quadro normativo, oltrepassando, così, il limite di quella che sarebbe la loro attività ordinaria.

Essenzialmente, nell’ordinamento processuale, la definizione ed evoluzione del principio sta procedendo attraverso due percorsi, distinti e paralleli. Da un lato, l’esperienza del processo amministrativo è sfociata dei Decreti delegati al Presidente del Consiglio di Stato, per cui la disciplina in ambito di sinteticità e chiarezza è stata definita attraverso il combinato intervento, tanto del legislatore, quanto dell’organo di vertice della giustizia amministrativa. Dall’altro, invece, nel processo civile, il percorso ha seguito le logiche dei protocolli e della definizione del principio da parte della giurisprudenza, come stiamo per vedere.

[14] All’art. 3, comma secondo, c.p.a. «il giudice e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica, secondo quanto disposto dalle norme di attuazione».

[15] Il codice di giustizia contabile, adottato ai sensi dell’art. 20 della L. 124/2015 ed entrato in vigore il 7 ottobre 2016, prevede all’art. 5, co. 2, che «il giudice, il pubblico ministero e le parti redigono gli atti in maniera chiara e sintetica».

[16] Così la Relazione della Commissione, del 3 dicembre 2013, disponibile in www.judicium.it

[17] Gruppo di lavoro coordinato da Antonio Mura, Capo del Dipartimento per gli affari di giustizia.

[18] Con due Decreti Ministeriali, il primo del 28 luglio 2016 e il secondo, del 19 ottobre 2016.

[19] Relazione consultabile in www.tribunale.roma.it.

[20] Relazione consultabile in www.federnotizie.it. Per quanto riguarda il fondamento costituzionale, nella relazione si sottolinea, a pag. 3, come il principio di sinteticità non postuli un ridimensionamento del dovere di motivazione del giudice, evidenziando la necessità che la ragionevole durata processuale sia sempre coniugata alla tutela di cui all’art. 24 e 111, co 2, della Costituzione.
Per quanto attiene le riforme al codice di procedura civile, si propone la modifica degli artt. 121, 125, 132, 134 c.p.c. e dell’art.118 disp. att, c.p.c., al fine di inserire espressamente il principio nel codice. Per gli atti complessi o lunghi (previa riformulazione dell’art. 46 disp. att. c.p.c.) si individua la suddivisione in paragrafi numerati, preceduti da un indice, nonché la possibilità di deposito di copie cartacee di cortesia, e ciò nel tentativo di scoraggiare il deposito di atti voluminosi (questa la proposta di modifica dell’art. 16-bis, comma 9, del D.L. n. 179 del 2012). Tentativo, quest’ultimo, a nostro parere vano, dal momento che non saranno le spese legate alle copie di cortesia – prassi peraltro già in vigore – a scoraggiare la redazione prolissa. Infine, si introduce il termine decadenziale per la contestazione (da individuarsi nell’ultimo atto utile alle parti per fornire la prova dei fatti che si contestano), e si correda l’art. 115 c.p.c. dell’espressa notazione che la contestazione esposta non debba essere ripetuta nel prosieguo del processo.

[21] Disegno di legge C. 2092, presentato il 12 febbraio 2014; sul quale, CAPPONI, A prima lettura sulla delega legislativa al governo «per l’efficienza della giustizia civile» (collegato alla legge di stabilità 2014), in Riv. trim. dir. proc. civ., I, 2014.

[22] Numerose, infatti, nella giurisprudenza di merito, le pronunce che richiamano la disposizione per giustificare la scelta di adottare una motivazione semplificata e sintetica, ex multis Trib. Milano, 19 febbraio 2019, n.1567; Trib. Milano, 14 marzo 2019, n. 2490.

[23] Così FINOCCHIARO, Il principio di sinteticità nel processo civile, cit., spec. p. 863.

[24] Per gli atti di parte, il codice, sicuramente orientato al principio di libertà delle forme di cui all’art. 121 c.p.c., sembra contenere meno prescrizioni: l’art. 46 disp. att. c.p.c. appare rivolto a garantire la comprensibilità dello scritto, più in termini di formato, che di forma, prescrivendo di utilizzare un carattere chiaro e facilmente leggibile, e la continuazione del testo. La disposizione statuisce inoltre che le eventuali correzioni devono essere effettuate in calce, senza eliminazione di alcuna parte soppressa o modificata. Un riferimento alla chiarezza può essere rintracciato nell’art. 164 c.p.c., nella parte in cui prevede la nullità dell’atto in caso di “assoluta incertezza” di alcuni degli elementi che lo compongono, soprattutto considerando che l comprensibilità dell ‘edictio actionis è essenziale all’individuazione dell’oggetto della domanda.

[25] Per approfondimenti, in particolare sul progetto Torinese, v. CICCARELLI, Collaborazione ed efficienza nel processo civile, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2012, p. 692 ss.

[26] Tra gli altri, sicuramente gli Osservatori di Torino, Verona e Roma.

[27] Protocolli Milanesi disponibili in www.milanosservatorio.it, quelli di Verona in www.valoreprassi.it .; quelli di Roma in www.ordineavvocatiroma.it .

[28] Alcune tra le “buone prassi” più ricorrenti, contenute nei protocolli sono la separazione tra “parte in fatto” e “parte in diritto”, nonché la divisione dell’elaborato in paragrafi. Gli stessi forniscono spesso istruzioni pratiche circa le modalità di contestazione dei fatti, di produzione dei documenti e di citazione della giurisprudenza e della dottrina.

[29] Protocollo del 19 luglio 2018, disponibile in www.consiglionazionaleforense.it

[30] Il protocollo prevede, ad esempio, che la formulazione della parte in fatto (avalutativa), debba contenere le deduzioni formulate per articoli separati e distinti, progressivamente numerati, in maniera tale da renderle idoneo supporto per la costituire le future capitolazioni istruttorie; per la parte in diritto, argomentativa e valutativa, si prevede la scansione in appositi paragrafi e sotto-paragrafi separati e titolati, con l’apposizione di un indice-sommario in caso di particolare complessità della controversia.

[31] Così, il Protocollo per la redazione degli atti processuali civili, 2010, in www.tribunale.torino.giustizia.it . L’Osservatorio ha successivamente emanato il “Protocollo del processo civile telematico dinanzi al tribunale ordinario di Torino”, che riguarda non soltanto la redazione degli atti a mezzo informatico, ma anche approfondimenti circa le prassi nel processo telematico.

[32] Il progetto ha coinvolto il Tribunale di Roma, l’Osservatorio sulla giustizia civile di Roma, e il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma, con l’obiettivo del «conseguimento di un’agevole comprensione del testo, raggiungibile offrendo soprattutto un lineare ed esauriente ordine argomentativo; evitando ripetizioni, espressioni gergali e forme verbali passive; curando la punteggiatura e la precisione lessicale; preferendo frasi brevi e una sintassi semplice e agile a frasi lunghe, con incisi e divagazioni, e alla sintassi complessa, con molte subordinate». La sinteticità viene definita come «concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra la complessità delle questioni da esaminare e l’estensione espositiva degli atti».

[33] In questo senso, CAPPONI, Salviamo la giustizia civile, Milano, 2015, p. 123.

[34] Sul protocollo d’Intesa Cassazione-CNF, del 17 dicembre 2015, v. DONZELLI, Il protocollo d’intesa sulle regole redazionali degli atti del giudizio di cassazione in materia civile e tributaria, in www.eclegal.it ; CONSOLO , Il Protocollo redazionale CNF [Consiglio Nazionale Forense]-Cassazione: glosse a un caso di scuola di “soft law” (… a rischio di essere riponderato quale “hard black letter rule”), in Giur. it., 2016, p. 2775 ss.; FRASCA, Intorno al Protocollo fra Corte di cassazione e C.N.F. sui ricorsi civili, in Giur. it., 2016, p. 2768 ss.; PAGNI, Chiarezza e sinteticità negli atti giudiziali: il protocollo d’intesa tra Cassazione e CNF, in Giur. it., 2016, p. 2782; CERRI, La scrittura degli atti processuali ed il Protocollo d’intesa C.N.F. / Cassazione sulla redazione dei ricorsi, in www.judicium.it ; PANZAROLA, La cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016, n. 197 e i c.d. protocolli, in Nuove leg. civ. comm., 2017, p. 269 ss.

[35] Il Consiglio di Stato, con la pronuncia 12 giugno 2017, n. 2852, in materia di appalti, sanziona per temerarietà della lite la parte, per aver redatto un ricorso in violazione dei limiti previsti dal Decreto Presidenziale, e ciò nonostante il rifiuto del giudice di esaminare le pagine eccedenti i limiti, a norma dell’art. 13 ter, disp att. c.p.a. Fermo restando che la sanzione per temerarietà della lite prescinde dalla prova del danno, in questo caso si dubita che il danno alla amministrazione della giustizia si sia realizzato, e che la violazione del giusto processo si sia attuata, dal momento che il sistema non ha investito risorse per la decisione sulla parte di atto sovrabbondante.

[36] Tra gli altri, il Protocollo di Verona inerente all’art. 96 c.p.c. ne è esempio; in tema di sinteticità e chiarezza, sicuramente il Protocollo di Torino sulle modalità di contestazione, prevedendo il termine per contestare, non specificatamente individuato dalla norma, si pone nella stessa direzione.

3. L’elaborazione giurisprudenziale del principio di sinteticità e chiarezza

Preminente è il ruolo di elaborazione giurisprudenziale svolto dalla Corte di Cassazione in materia.

Già dal 2012[37] le Sezioni Unite sottolineano che il ruolo della Corte non è quello di selezionare, all’interno del coacervo di materiale introdotto dalla parte, quanto effettivamente necessario ai fini della decisione. Nella pronuncia in questione, si rinviene il primo riferimento della Cassazione al principio di sinteticità e chiarezza del codice del processo amministrativo, richiamato per sottolineare come la rilevanza della sintesi nell’intero ordinamento processuale.

A partire dalla sentenza, n. 11199/2012, la Suprema Corte concentra l’attenzione sul numero di pagine di cui si compone il ricorso, laddove detto numero sia sproporzionato rispetto alle questioni affrontate[38].

Nel 2014 – poi – è la sezione lavoro a prospettare, per la prima volta, la possibilità che sia comminata l’inammissibilità per violazione del principio di sinteticità e chiarezza, individuato quale vero e proprio dovere processuale delle parti e definito uno dei «pilastri su cui si basa il giusto processo».[39] L’inosservanza del principio frustra l’obiettivo del processo di tendere a una decisione di merito, e pertanto collide con gli artt. 24 e 111, co. 2, Cost., nonché con l’art. 6 della CEDU.[40]

Con la sentenza n. 21297, del 10 ottobre 2016, scatta per la prima volta la sanzione prospettata: la Cassazione censura un ricorso di ben duecentocinquanta pagine, dichiarandolo inammissibile tanto per violazione dell’art. 366, n. 3, c.p.c., quanto del principio di sinteticità e chiarezza. L’incomprensibilità dei motivi del ricorso – anch’essi redatti, come lo svolgimento del processo, attraverso la tecnica dell’assemblaggio di atti del giudizio di merito – è stata censurata in quanto fattore impediente il contraddittorio processuale. Nella motivazione della pronuncia, si è preso atto dell’assenza di una normativa processuale civile, in materia, corrispondente a quella introdotta nel processo amministrativo; a tal proposito, invero, la Corte ha individuato nell’art. 3, co. 2 del c.p.a. un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, perché funzionale al perseguimento della ragionevole durata. La Corte, muovendo dal rilievo dell’insussistenza di un potere, in capo al giudice, di determinare limiti dimensionali per gli atti[41] né, tantomeno, sanzioni per il superamento[42], ha statuito che sussiste il rischio di incorrere nell’inammissibilità del ricorso svrabbondante. E ciò, dal momento che, tanto l’oscura esposizione dei fatti di causa, quanto delle censure alla sentenza impugnata, è violazione riconducibile all’art. 366, co.1, n. 3, e n. 4 c.p.c., assistita espressamente dalla sanzione dell’inammissibilità.[43]

Senza dubbio, la prospettata “esposizione al rischio d’inammissibilità”[44] è divenuta concreta, dal momento che la Suprema Corte non appare porre limiti alla chiusura in rito, a fronte di ricorsi in violazione del principio di sinteticità e chiarezza.

Con la recente sentenza n. 9570, del 13 aprile 2017, ribadita la portata di principio generale del diritto processuale, la Cassazione ha evidenziato la necessità di assicurare, attraverso il binomio sinteticità e chiarezza, l’effettiva tutela del diritto di difesa, sancito dall’art. 24 della Costituzione. Il rifiuto del materiale sovrabbondante ed inutile risponde, inoltre, alla sentita esigenza di salvaguardia delle risorse: chi esercita il diritto di impugnare, incorre nel correlato dovere di non gravare il sistema giustizia di oneri superflui.

Alla ribadita vigenza del principio nel processo civile, la Corte sembra dare seguito attraverso l’ausilio dell’art. 366, n. 3 c.p.c.[45], sottolineando la mancata derivazione dell’inammissibilità dalla violazione di un parametro dimensionale prestabilito; si è dunque sopperito alle carenze legislative attraverso la sommaria esposizione del fatto, riempiendo, così, di contenuto la clausola elastica rappresentata dal principio.

Nell’ultimo biennio, sono state numerose le eccezioni di inammissibilità per violazione della sinteticità e chiarezza sollevate dal resistente innanzi alla Corte.

L’orientamento giurisprudenziale[46], in fase di consolidamento, mira ad evidenziare come l’imponente coacervo di documenti riprodotti nel ricorso non implichi l’automatica inammissibilità, non comminata laddove sia agevolmente individuabile e isolabile il contenuto dell’atto. Sussistono, pertanto, fattispecie in cui la Suprema Corte è onerata dal ricorrente a selezionare quanto rileva ai fini della decisione, con conseguente inammissibilità per violazione dell’art. 366 c.p.c., distinte dalle fattispecie in cui il ricorso, pur se prolisso perché redatto attraverso la tecnica dell’assemblaggio, consente la disamina dei motivi in maniera agevole.

In questo modo, sostanzialmente, la Corte esclude che l’inammissibilità consegua al mero “copia – incolla”, discostandosi dall’automatismo della chiusura in rito, a fronte della scarsa sintesi.

Per quanto banale possa sembrare, è, di fatto, il criterio della chiarezza a venire in soccorso per distinguere i casi di ammissibilità del ricorso sovrabbondante. La chiarezza dell’atto, e segnatamente la sua comprensibilità, emerge, innanzitutto, dalla scindibilità “ictu oculi” del materiale rilevante da quello irrilevante.

Nel panorama attuale non si ravvisano pronunce della Corte di legittimità che facciano leva sulle spese per reprimere il difetto di sinteticità e chiarezza; anche nelle recenti pronunce d’inammissibilità, manca il riferimento alla riduzione del compenso dell’avvocato fino ad un massimo del cinquanta per cento (possibilità, quest’ultima, prevista dal co. 9, art. 4, del D.M. 155/2014). Va tuttavia sottolineato che all’inammissibilità segue, automaticamente, il doppio pagamento del contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, co. 1 quater.[47]

Una considerazione appare doverosa, in merito al suesposto orientamento di legittimità: si è affermata la sussistenza di un principio generale processuale, che la stessa Corte afferma essere funzionale alla realizzazione dello scopo del processo – cioè quello di addivenire ad una corretta pronuncia di merito. Individuare nell’inammissibilità la sanzione in caso di violazione, comporta la preclusione di ogni valutazione circa la legittimità della pronuncia impugnata, stante il principio di consumazione del ricorso, sancito dall’art. 387 c.p.c.

Pertanto, appare opportuno che il vaglio sulla redazione chiara e sintetica non sia limitato a quello effettuato dal giudice di ultima istanza sul ricorso, tenuto conto che nessun rimedio potrà essere esperito avverso la scarsa sintesi e chiarezza dell’intera sequela di atti che hanno composto il giudizio nelle fasi antecedenti. In altri termini, laddove il principio sia violato anche di fronte al giudice di ultima istanza, la pronuncia di merito, emessa all’esito di un percorso avvenuto in violazione del principio, potrà al più consolidarsi passando in giudicato.

[37] Cass., Sez. Un., sent., 4 aprile 2012, n. 5698.

[38] «111 pagine è la lunghezza del ricorso principale, il controricorso e ricorso incidentale raggiungono le 64 cartelle, e la memoria illustrativa, meramente iterativa del ricorso principale, è di 36 pagine,[…] detta ampiezza – che certamente, pur non ponendo un problema di formale violazione delle prescrizioni formali dettate dall’art. 366 cod. proc. civ. , non giova alla chiarezza di tali atti e concorre ad allontanare l’obiettivo di un processo celere, che esige da parte di tutti atti sintetici, redatti con stile asciutto e sobrio – non è affatto direttamente proporzionale alla complessità giuridica o all’importanza economica delle questioni veicolate, e si risolve soltanto in una inutile e disfunzionale sovrabbondanza, infarcita di continui e ripetuti assemblaggi e trascrizioni degli atti defensionali, delle sentenze dei gradi di merito, delle prove testimoniali, della consulenza tecnica e dei suoi allegati planimetrici». (Cass. civ., sez. II, 4 luglio 2012, n. 11199).

[39] Cass. civ., sez. lav., 5 gennaio 2016, n. 34.

[40] In questo senso, Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698; nonché Cass. civ., sez. lav., 30 settembre 2014, n. 20589.

[41] Potere, invece, previsto a livello sovranazionale, all’art. 58 del Regolamento di Procedura della Corte di Giustizia dell’Unione Europea.

[42] A differenza di quanto previsto nella Rule 33 of the Supreme Court of the United States (che indica un limite, tanto per il numero di parole che di pagine, di ogni atto depositabile), nonché del codice di procedura civile Svizzero, il quale prevede una rigida disciplina in tema di formalità dell’atto di parte: in particolare, si considera non presentato l’atto i cui vizi non siano sanati entro il termine fissato dal giudice, medesima sanzione per gli atti illeggibili, prolissi, sconvenienti e incomprensibili; peraltro, nell’ordinamento processuale svizzero, gli atti dovuti ad una condotta processuale abusiva o querulomane sono rinviati al mittente senza formalità.

[43] Per il medesimo orientamento, v. Cass. civ., sez. III, 31 ottobre 2017, n. 25818; Cass. civ., sez. II, 16 novembre 2017, n. 27247; Cass. civ., sez. II, 12 dicembre 2017, n. 29708.

[44] Già prospettato in Cass. civ., sez. lav., 6 agosto 2014, n. 17698.

[45] Tra le tante, Cass. civ, sez. VI, 28 agosto 2018, n. 21231; Cass. civ., sez. III, 30 novembre 2018, n.31013; sul tema, COMOGLIO L.P., Esposizione “assemblata” dei fatti ed inammissibilità del ricorso in cassazione (Nota a ord. Cass. sez. VI-3 10 ottobre 2017, n. 23731; ord. Cass. sez. VI-3 12 settembre 2017, n. 21136), in Nuova giur. civ. comm., 2018, p. 199 ss.; DAMIANI, Brevi osservazioni su sinteticità e autosufficienza del ricorso per cassazione (Nota a ord. Cass. sez. II civ. 9 novembre 2017, n. 26561; ord. Cass. sez. lav. 2 ottobre 2017, n. 22991; Cass. sez. III civ. 31 luglio 2017, n. 18962), in Foro it., 2018, p. 576 ss.

[46] Ex multis, Cass. civ., sez. trib., 21 febbraio 2018, n. 4164; Cass. civ., sez. trib., 31 gennaio 2018 n. 2393; Cass. civ., sez. trib. 17 gennaio 2018 n. 960; Cass. civ., sez. trib., 15 Settembre 2017, n. 21418.

[47] Comma inserito dall’art. 1, co.17, della L. 228/ 2012.

4. Sinteticità e chiarezza dei provvedimenti del giudice

L’indagine circa l’evoluzione del principio non può limitarsi ai soli atti di parte, posto che, come evidenziato in precedenza, vi è una stretta correlazione tra questi e i provvedimenti del giudice. Si pensi, ad esempio, alle difficoltà riscontrabili nell’impugnare una sentenza prolissa per mezzo di un atto sintetico.

Emerge chiaramente dal codice di procedura civile, che il legislatore si sia concentrato a richiamare la succintezza e la concisione nelle norme che riguardano i provvedimenti[48], piuttosto che gli atti di parte. In particolare, l’art. 132, co. 2, n. 4 c.p.c., e l’art. 118 delle disposizioni attuative, entrambi modificati dalla l. 69/2009, si occupano delle modalità redazionali delle sentenze.

Prima della modifica del 2009, era previsto che la sentenza dovesse contenere «la concisa esposizione dello svolgimento del processo e dei motivi in fatto e in diritto della decisione», a seguito della riforma, l’art.132 si riduce alla «concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione».

Abolito lo svolgimento del processo e trasformati i “motivi” nelle “ragioni”, la prassi di distinguere nettamente in sentenza lo svolgimento del processo dalla parte motiva è venuta meno[49].

In parallelo, è stato modificato l’art. 118 disp. att. c.p.c., che si riferisce, oggi, alla «succinta esposizione delle ragioni di fatto e di diritto», prevedendo altresì la possibilità per il giudice di motivare con riferimento a precedenti conformi. Dalla relazione al disegno di legge da cui è scaturita la legge 18 giugno 2009 n. 69, si evince l’intento del legislatore di ridurre il contenuto espositivo e motivazionale della sentenza, ritenuta – così – più conforme all’art. 111, co. 6, Cost.

Il monito alla brevità riferito ai provvedimenti del giudice è palese, e supportato anche da alcune disposizioni originarie del codice del 1940: resta invariato, infatti, il secondo comma dell’art. 118, disp. att., c.p.c., che prevede di esporre concisamente e in ordine le questioni affrontate dal collegio, corredandole dall’indicazione delle norme e dei principi di diritto applicati, fermo restando il divieto di citazioni dottrinarie in sentenza. Anche l’ordinanza, ai sensi dell’art. 134 c.p.c., deve essere succintamente motivata.

Ad una tendenziale impostazione del codice che lasciava libertà di forma per agli atti di parte (art. 121 c.p.c.), prevedendo, invece, per il giudice richiami alla concisione, si è aggiunta nel tempo la convinzione che il “collo di bottiglia”[50] (ossia la causa dei ritardi nel processo) fosse individuabile nella fase decisoria.

Si è dato così avvio ad un’opera di destrutturazione della motivazione della sentenza, in ottica acceleratoria.

Nel 2006 è stato modificato l’art. 363 c.p.c., introducendo la sinteticità anche per l’istanza finalizzata all’enunciazione del principio di diritto nell’interesse della legge, formulata dal procuratore generale presso la Corte di Cassazione.

Ai sensi dell’art. 131 c.p.c., il dissenso di un componente del collegio deve essere «succintamente motivato».

Il processo in atto è ravvisabile anche nella scelta legislativa di sostituire, in diverse ipotesi, all’emanazione della sentenza quella di un’ordinanza: si pensi al filtro in appello, al provvedimento di incompetenza del giudice ex artt. 42 e 43 c.p.c. (anch’esso frutto dalla l. 69/2009), nonché al provvedimento di chiusura del processo sommario di cognizione.

Si giunge nel 2014, con il D.D.L. 2092, art. 2, co. 1, lett. b), n. 1, alla proposta, già accennata in precedenza, di introdurre la motivazione “a richiesta”: sostanzialmente, essa consiste nell’emanazione del dispositivo non corredato di motivazione, con la previsione che la parte – di regola il soccombente che abbia interesse ad impugnare – possa ottenere le ragioni della decisione presentando apposita istanza (con pagamento anticipato del contributo unificato dovuto per l’appello). Il fine è quello di ridurre le tempistiche del processo tagliando i tempi che i giudici impiegano a redigere la motivazione. Questo progetto di riforma non ha avuto seguito, ma dobbiamo ritenere che, anche qualora l’avesse avuto, la disposizione sarebbe stata incostituzionale per violazione dell’art. 111, co. 6, Cost.

Non può trascurarsi, tuttavia, il fatto che tentare di risolvere l’eccessiva durata dei processi intervenendo sul momento decisorio è illogico, ancor prima che utopico. Individuare, come sinora si è fatto, il “collo di bottiglia” nel provvedimento che chiude il processo, significa procedere a riforme a costo zero, che incidono sugli effetti del problema, scambiandoli per le cause[51].

Appare irrazionale il tentativo di semplificare l’ultima fase di un iter, senza valutare che si sta procedendo nella direzione opposta per tutte le fasi precedenti. In un processo particolarmente infarcito di preclusioni, decadenze e cause di inammissibilità, le parti sono indotte ad inserire quanto più possibile negli atti, nel timore di giungere a preclusioni maturate senza aver espletato tutte le potenziali difese. Ciononostante, di fronte a fascicoli che sono “monumenti di archeologia”[52], si rincorre ancora il mito del provvedimento finale sintetico. Pensare la sentenza come avulsa dal processo è un errore di prospettiva, poiché, senza dubbio, essa non può che essere il riflesso di ciò che conclude.

Potremmo a questo punto chiederci, rovesciando completamente la visuale: se «la sentenza non arriva d’un tratto, è il processo che si trasforma a poco a poco in sentenza»,[53] può il provvedimento essere tanto legato a quanto accaduto in precedenza da diventare la mera riproduzione di un atto di parte? A questo interrogativo hanno dato risposta affermativa le Sezioni Unite, con la sentenza 16 gennaio 2015, n. 642.

Con la decisione in questione, la Cassazione afferma che non sussiste nullità, per violazione dell’art. 360, n. 4, c.p.c., della sentenza che in luogo della motivazione riproduca letteralmente un atto di parte, purché le ragioni alla base della decisione siano espresse in modo chiaro, univoco ed esaustivo. La paternità della sentenza, intesa come attribuzione dei contenuti al giudice, è ravvisabile anche nel caso in cui la sentenza sia redatta attraverso il copia-incolla di un atto di parte. Le Sezioni Unite hanno dunque avallato quello che sembrerebbe un ulteriore passo verso la destrutturazione della motivazione, celato sotto le spoglie di nuova tecnica redazionale.

La motivazione “collage”[54] si distingue nettamente dalla motivazione per relationem, con la quale il giudice motiva riferendosi, ad esempio, al precedente conforme, ma anche non rimandando ad un altro scritto endoprocessuale. I rischi della motivazione che ingloba l’atto di parte sono molteplici, in primo luogo è più probabile incorrere nella violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

È stato messo in luce da più parti, in dottrina,[55] che i vizi della sentenza sarebbero tuttavia indipendenti dalla tecnica di redazione usata. Ciò è certamente condivisibile, nel senso che può dirsi censurabile solo la sentenza che contenga un atto di parte inidoneo a giustificare la decisione. Meno condivisibile è ammettere che un atto di parte possa essere redatto al fine di motivare la decisione del giudice, e cioè accettare che la ratio decidendi possa trovarsi al di fuori della sentenza ed essere esternata da un soggetto diverso dal giudice. La riflessione che stimola la sentenza in questione è legata ai diversi ruoli degli operatori nel processo, ed alla differente finalità che la redazione ha per ciascun operatore processuale. Indurre le parti a redigere un progetto di sentenza contribuisce alla sovrabbondanza, a discapito della sintesi. Possiamo ritenere logico che, alla luce del carico di lavoro attuale dei giudici Italiani, questa pronuncia possa incoraggiare il fenomeno della motivazione “in potenziale appalto all’avvocato”[56].

Sorge così il secondo dubbio in merito a questa tecnica: se la sentenza possa ritenersi decisione imparziale. La Corte, al riguardo, specifica che l’imparzialità del giudice si risolve nell’assenza di «presupposti (soggettivi, oggettivi, psicologici) idonei acondizionare il contenuto della decisione». Ad essere allarmante, non tanto il fatto che il giudice possa aver fatto proprie le ragioni della parte, in quanto il maturarsi della decisione presuppone che egli aderisca (o reputi perlomeno più convincenti) le tesi di una delle parti, quanto il fatto che detta adesione dovrebbe, essa stessa, essere corredata di motivazione.

Venendo al riflesso patologico, riprodurre un atto in un provvedimento senza nulla aggiungere ad esso, espone al rischio di emanare sentenze che dell’atto assorbano i vizi: lungaggini, imprecisioni e ripetitività verrebbero trasfuse direttamente dall’atto alla sentenza. Le trascrizioni eliminano in ogni caso, che si parli di giudice o di parte, il filtro realizzato dal secondo autore; filtro che si concretizza quando, seppur riprendendo la sostanza di un precedente atto, lo si impiega in maniera critica, corredandolo di propri argomenti, per raggiungere uno scopo ulteriore ed autonomo rispetto a quello dell’atto originale.

Resta, inoltre, il dubbio che la sentenza “collage” possa essere comprensibile per i soggetti che non siano stati parte in causa. Questa sentenza, così come la proposta della motivazione a richiesta, sarebbero giustificabili solo ammettendo che la motivazione abbia una rilevanza meramente endoprocessuale[57] ed abbia perso la funzione di strumento per il controllo diffuso sulle decisioni.

Non si può che aderire alla considerazione, emersa in dottrina, di quanto sia più semplice eliminare i comportamenti vietati dalla legge, piuttosto che sindacare circa distorsioni e violazioni di meccanismi concessi.[58] Si può dubitare, infatti, che il tempo recuperato dalla magistratura omettendo di redigere motivazioni, nei casi di adesione toutcourt all’atto di parte, sia maggiore rispetto a quello che si impiegherà con l’incremento delle impugnazioni per l’uso distorto di tale tecnica di motivazionale.

Che la corte di Cassazione censuri il copia – incolla dei ricorsi, ma ammetta il collage nella sentenza, è forse il sintomo che al divario tra le modalità di redazione degli atti di parte e quelli del giudice non stia contribuendo solo il legislatore, ma anche la giurisprudenza.

Già prima della sentenza in questione il rito societario del 2003, poi abrogato, prevedeva la possibilità di motivare le sentenze in forma abbreviata, anche mediante il rinvio a elementi di fatto contenuti negli atti di parte. Inoltre, il D.L. 69/2013, sulla stessa scia, all’art. 79 proponeva la modifica dell’art. 118 disp. att. c.p.c., andando a corredare il riferimento ai precedenti conformi con il rinvio a contenuti specifici degli scritti difensivi (la legge di conversione cancellerà questa disposizione). Attualmente, l’art. 348 ter c.p.c. prevede che l’ordinanza di inammissibilità dell’appello, succintamente motivata, possa rinviare a elementi di fatto riportati negli atti di causa. Non possiamo non notare, tuttavia, che le normative suddette dispongono il possibile rinvio, e non invece la trascrizione puntuale di un atto di parte nel provvedimento.

Il percorso di semplificazione della motivazione non ha risparmiato, peraltro, i provvedimenti della corte di legittimità[59]. Appare utile analizzare, attraverso gli atti di indirizzo dell’organo di vertice della Corte, come si sia passati da un’ottica di mera semplificazione, all’affermazione del principio di sinteticità e chiarezza – inteso in termini di proporzione – anche per i provvedimenti.

Il Provvedimento sulla motivazione semplificata del Primo Presidente Lupo, del 22 Marzo 2011[60], distingue le sentenze in due modelli decisori, differenziati in base alla forma della motivazione[61]. Per le sentenze di legittimità prive di funzione nomofilattica, in quanto non innovative degli orientamenti già consolidati della Corte, si prevede l’adozione di un modello semplificato di motivazione. La stessa, caratterizzata da estrema sinteticità, deve in ogni caso manifestare in modo chiaro la ratio decidendi ed essere specificatamente riferita alla fattispecie, non potendosi ammettere mere formule di stile adattabili a qualsiasi caso concreto

Laddove, invece, la sentenza abbia funzione nomofilattica e sia, quindi, destinata ad un pubblico più ampio delle sole parti, la motivazione semplificata non può trovar luogo. La novità di questa impostazione risiede nel fatto che, anticipando la ratio legislativa che condurrà qualche anno più tardi alla distinzione tra sentenze e ordinanze di legittimità, si ridefinisce la forma della motivazione sulla base del contenuto del provvedimento e dei suoi destinatari.

Antecedente alla riforma del giudizio di cassazione, anche il decreto n. 136, emanato il 14 Settembre 2016, dal Presidente della Corte di Cassazione Giuseppe Canzio. Il documento, specificatamente riferito alla sinteticità e chiarezza delle motivazioni dei provvedimenti civili,[62] è finalizzato ad adottare modalità redazionali strumentali alla riduzione dei tempi di definizione delle controversie.

Le premesse da cui muove il decreto, riguardano la consapevolezza della differente qualità del contenzioso pendente: molti dei procedimenti non richiedono l’intervento nomofilattico della Corte. Pertanto, pur giungendo ad individuare prassi più snelle per le controversie in cui la corte non sia chiamata a svolgere la funzione nomofilattica, si sottolinea la necessità che tutti i provvedimenti rispettino i canoni di chiarezza e sinteticità. Quattro i punti essenziali attraverso i quali viene descritta la sentenza “modello”: (a) chiarezza ed essenzialità, (b) stretta funzionalità dell’iter argomentativo alla decisione, (c) assenza di motivazioni subordinate, obiterdicta e di ogni enunciazione che vada oltre ciò che è indispensabile per la decisione, (d) puntualità dei richiami ai precedenti di legittimità. Il Presidente anticipa la futura elaborazione e adozione di moduli, con l’ausilio del CED[63], per la decisione di questioni su cui la Corte presenta un orientamento giurisprudenziale consolidato, da adottare ogni qualvolta ritenga di non discostarsene. Si invitano i Presidenti di sezione a curare la predisposizione e diffusione di “provvedimenti – tipo”, nonché gli organi competenti a dare avvio alla fase sperimentale dell’uso dei moduli informatici. Infine, il riferimento alla valutazione professionale del magistrato, da parametrare anche alla tecnica redazionale delle motivazioni, sembra procedere in direzione di premiare la sobrietà.

Pur proponendo tecniche motivazionali calibrate allo scopo della sentenza, come previsto dal Provvedimento del 2011, il decreto del 2016 presenta un p>in ogni caso sintetiche e chiare e, segnatamente, differenziate a seconda del grado di complessità delle questioni trattate.

[48] Sulla funzione e sinteticità della motivazione, v. CIRILLO, Dovere di motivazione e sinteticità degli atti, in Giurisd. amm., 2012, p. 7 ss.; BERTILLO, Sulla motivazione riproduttiva degli atti di parte, in Riv. dir. proc., 2015, p. 1292 ss.; CAPPONI, La motivazione laica, funzionalista, «disincantata» (nota a Cass., S.U., 16 gennaio 2015, n. 642), in Il giusto proc. civ., 2015, p. 121 ss.; GRASSO, La mera riproduzione di un atto di parte nella sentenza civile: diritto senza letteratura?, in Foro it., 2015, p. 1624 ss., RASIA, Dalla motivazione per relationem alla motivazione c.d. collage, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2016, p. 205 ss.; i saggi raccolti, sul Linguaggio della giurisprudenza, in Foro it., 2016, V, 357-377 : GRASSO , Le parole dei giudici: chiarezza, sinteticità e giustizia, 357-361; BARBAGALLO, Per la chiarezza delle sentenze e delle loro motivazioni, 362-364; FERRARI, Fatti e parole nella giurisprudenza, 364-368; SCODITTI, Chiarezza e semplicità delle sentenze: simplex sigillum veri, 368-371; GENTILE, La relativa opacità del linguaggio giudiziario, fra inestetismi ed espressioni incerte: cause, tendenze, rimedi, 371-377.

[49] Interessante notare che il modello redazionale di ricorso in Cassazione, contenuto nel Protocollo del 2015, individui un atto ben scandito nelle sue parti, con scissione della parte motiva da quella attinente allo svolgimento del fatto, mentre le modifiche alla disciplina della sentenza comportino una probabile commistione della realtà fattuale e di quella motiva. Tuttavia, a tal proposito, il summenzionato Protocollo d’Intesa tra CSM e CNF sulla chiarezza e sinteticità degli atti e provvedimenti per i giudizi di appello prevede l’articolazione bipartita in antefatto e motivazione nelle sentenze di primo grado; in riferimento ai provvedimenti di appello, inoltre, il medesimo protocollo suggerisce di dar conto, nello svolgimento del processo, anche della decisione del giudice di prime cure (art.5.3).

[50] L’espressione è ripresa dalla Risoluzione del CSM, disponibile in Foro it., 1988, p. 249 ss.

[51] In questi termini, CAPPONI , Salviamo la giustizia civile, cit.

[52] V. nota 50.

[53] Kafka, Il processo, Milano, 1971, p.175.

[54] Espressione coniata da RASIA, Dalla motivazione per relationem alla motivazione c.d. collage, cit.

[55] Ibidem; GRASSO, La mera riproduzione di un atto di parte nella sentenza civile: diritto senza letteratura?, cit.; BERTILLO, Sulla motivazione riproduttiva degli atti di parte, cit.

[56] V. NEGRI, Sentenze in appalto agli avvocati: al giudice il dispositivo, al legale le motivazioni, in www.ilsole24ore.com.

[57] Non manca chi sottolinea – in maniera condivisibile – che anche per le parti in causa, e non solo per i soggetti esterni, la motivazione redatta attraverso la riproduzione di un atto crea rischi in merito alla certezza del decisum, in quanto costringe il destinatario a eterointegrare la motivazione. Così STORTO, Il principio di sinteticità degli atti processuali, cit.

[58] In questo senso, RASIA, Dalla motivazione per relationem alla motivazione c.d. collage, cit.

[59] Introdotta con la legge 25 ottobre 2016 n. 197 (di conversione del D.L. 31 agosto 2016 n. 168), la riforma sancisce il definitivo approdo a tecniche motivazionali differenziate, prevedendo una diversa tipologia di rito e di provvedimento in base alla funzione del decisum di ultima istanza. Laddove i ricorsi implichino l’esercizio della sola funzione di controllo di legalità della sentenza impugnata (c.d. ius litigatoris), il nuovo art. 375 c.p.c. statuisce che la decisione sia presa, all’esito della trattazione in camera di consiglio, con ordinanza succintamente motivata. Qualora, invece, la Corte sia chiamata anche all’esercizio della funzione di indirizzo giurisprudenziale (c.d. tutela dello iusconstitutionis), il ricorso sarà trattato in pubblica udienza e la decisione avrà la forma di sentenza. Sulla riforma, v. PANZAROLA, La cassazione civile dopo la l. 25 ottobre 2016, n. 197 e i c.d. protocolli, cit.

[60] In Foro it., 2011, p.183.

[61] Sulla opportunità che lo stile della motivazione sia calibrato sulla maggiore o minore valenza nomofilattica, e quindi tenendo conto della platea di destinatari della pronuncia, v. RORDORF, Il linguaggio degli atti giudiziari, in CONTE, DI MARZIO (a cura di), La sintesi negli atti giuridici, Milano, 2018, pp. 45-58.

[62] Il decreto presidenziale n. 68 del 28 aprile 2016, si era invece occupato della motivazione semplificata in ambito penale.

[63] Il Centro Elettronico di Documentazione è una struttura autonoma, alle dirette dipendenze della Prima Presidenza, per fornire i servizi informatici alla Corte di Cassazione.

5. Conclusioni

Abbiamo osservato, inizialmente, come procedere nella direzione di rendere effettivo il principio di sinteticità e la chiarezza – anche al fine di accelerare i processi – sia un iter che non deve andare a discapito delle garanzie costituzionali. Giunti al termine del percorso, non possiamo che considerare come le scelte affrettate, dettate anche dall’urgenza del sovraccarico dei ruoli giudiziari, rischiano di dar vita a riforme scarsamente significative per la riduzione dei tempi del contenzioso. È necessario, pertanto, il recupero di una visione d’insieme, che consideri il processo nella sua integrità, quale fenomeno le cui caratteristiche riflettono tanto l’attività del giudice, quanto quella delle parti.

Significative ed estremamente attuali ci sembrano, dunque, le parole spese dal magistrato Borrè nel 1988, in occasione della risoluzione del CSM sulla legge Vassalli, da cui ebbe origine la L. 353/1990:

«Il giudice non si trova di fronte il risultato di una sua attività preparatoria, ma qualcosa che si è affastellato disordinatamente e perfino casualmente. Quando il giudice è investito di seri poteri direttivi e realmente li esercita; quando egli è coinvolto insieme alle parti in un comune contraddittorio che mira a sfrondare l’inutile e ad identificare, in fatto e in diritto, il vero «nocciolo» della contesa; quando i fascicoli, non invasi dalle profluvie della trattazione scritta, rimangono oggetti leggibili e non degradano a inaffrontabili monumenti di archeologia; quando la prova orale, assunta unitariamente e contestualmente, è appena esaurita nel momento in cui il giudice decide e i risultati di essa sono vivissimi nel ricordo e nella coscienza di tutti i presenti; quando si verificano tali condizioni, non è impensabile che il giudice sia in grado non solo di pronunciare il dispositivo, ma anche di corredarlo di una motivazione, succinta come la vuole la legge. […] Il problema del «collo di bottiglia» della decisione (o meglio: dell’autonoma e paludata scritturazione del documento-sentenza), che è una delle cause principali della crisi della giustizia civile, sarebbe per tal via alleggerito.»[64]

[64] Risoluzione disponibile in Foro it., 1988, p. 249 ss.

Redazione

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