Con recente ordinanza la Corte di Cassazione (Cass. 17 gennaio 2020, n. 945), preso atto del contrasto giurisprudenziale, ha aderito all’orientamento maggiormente garantista in merito alla possibilità per gli Uffici delle entrate di estendere le indagini finanziarie ai conti correnti bancari di soggetti terzi rispetto al contribuente, nel caso in cui sia provata la natura fittizia delle operazioni o la riferibilità delle stesse al contribuente.
Il fatto
La Commissione Tributaria Regionale del Piemonte accoglieva l’appello promosso dalla Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Alessandria che aveva accolto il ricorso della società contribuente contro un avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate per l’anno 1992, relativamente ad assegni emessi per lire 440.600.000,00 dal legale rappresentante di una società terza in favore della moglie del legale rappresentante della società ricorrente, socia al 10% della medesima società nonché della figlia, somme imputate a reddito della contribuente.
Il giudice d’appello, soprattutto, fondava la sua decisione su una serie di indizi che permettevano di riferire tali somme alla società contribuente e non, al contrario, alle persone fisiche madre e figlia familiari del legale rappresentante della stessa società fra i quali: oltre al rapporto di parentela e alla qualifica di socia rivestita dalla moglie, la circostanza che entrambe, moglie e figlia, avevano dichiarato che gli assegni incassati rappresentavano la restituzione di un prestito concesso in favore dell’amministratore unico della società terza che versava in difficoltà economiche; l’inesistenza di documentazione che attestasse trasferimenti di denaro avvenuti in precedenza a favore di tale soggetto; la mancata indicazione dell’importo del prestito de quo; il prolungato rapporto tra cliente e fornitore tra la contribuente e la società terza; la scoperta di altri documentati versamenti da parte di quest’ultima a favore della contribuente per l’anno 1992 per la somma di lire 90.440.000,00.
Avverso siffatta sentenza proponeva ricorso per cassazione la società contribuente e resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate. In particolare, quale unico motivo di impugnazione la società lamentava la violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. con riferimento agli artt. 2727 e 2729 c.c., dal momento che il giudice avrebbe erroneamente considerato gli elementi forniti dall’Agenzia delle entrate quali presunzioni gravi, precise e concordanti per consentire di riferire gli assegni versati alle persone fisiche alla società contribuente. Deduceva quindi che l’inferenza probabilistica per collegare gli assegni alla società non potesse desumersi dall’invocato rapporto di parentela (non essendo stato dimostrato nessun atto traslativo in tal senso), ovvero dall’asserita falsità del contratto di mutuo o dall’omessa indicazione dell’importo del prestito, considerato che le dichiarazioni delle parti sul punto avrebbero dovuto portare a ritenere la sussistenza del predetto contratto.
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La decisione
Preliminarmente il giudice rileva che nel caso in cui la critica al ragionamento presuntivo del giudice di merito si fonda su un’attività diretta solo ad evidenziare che le circostanze di fatto avrebbero dovuto essere ricostruite in un modo diverso, allegando un’inferenza probabilistica differente da quella applicata dall’organo giudicante, allora la censura coinvolge un apprezzamento di merito riguardante la quaestio facti che andrebbe ricondotto nell’alveo del vizio di motivazione di cui all’art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c.[1] Nella fattispecie in esame errano, infatti, le ricorrenti nel ricomprendere la loro censura all’interno della violazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c., in quanto incentrano le loro doglianze proprio sul ragionamento inferenziale del giudice d’appello, investendo direttamente la quaestio facti, sotto il profilo della valutazione del merito degli elementi istruttori.
Per quanto riguarda invece il punto centrale della questione, ovvero la possibilità da parte dell’Agenzia delle entrate di estendere gli accertamenti bancari di cui all’art. 32 d.p.r. e all’art. 51 comma 2 n. 2 del d.p.r. 633/1972, anche ai soci della società i giudici di legittimità si riferiscono all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi nel tempo:
- Secondo l’orientamento meno garantista il solo vincolo coniugale o familiare con il contribuente ovvero il rapporto dell’amministratore e dei soci con la società contribuente, legittimerebbe per ciò solo l’estensione del controllo bancario anche ai conti correnti formalmente intestati ai terzi. La ragione giustificativa va ricercata proprio nel rapporto familiare da cui inferire, salva prova contraria, la connessione ed inerenza delle operazioni riscontrate sui citati conti correnti bancari al contribuente;[2]
- Altra parte della giurisprudenza, al contrario, aderendo all’orientamento maggiormente garantista non considera sufficiente, al fine di acquisire i dati bancari relativi ai terzi, estranei alla compagine sociale, il solo rapporto familiare ovvero la qualità di socio o amministratore, ma evidenzia la necessità che gli Uffici dimostrino l’esistenza di indizi dai quali si possa presumere la riconducibilità alla società delle somme transitate sui conti correnti personali.[3]
Al medesimo contrasto la Suprema Corte si riferisce anche in relazione ai soci di società di persone:
- In alcune pronunce, infatti, per verificare le movimentazioni bancarie presenti sul conto corrente personale, si è reputata sufficiente la sola qualità di socio;[4]
- Diversamente, in altre sentenze, in particolare in tema di iva, nel caso di accertamento concernente una società in nome collettivo, per poter controllare i conti correnti bancari intestati ai soci, è richiesto un onere probatorio più stringente, in quanto l’ufficio finanziario deve adeguatamente provare, anche avvalendosi di presunzioni, che i movimenti bancari del conto corrente del socio siano in realtà riferibili alla società.[5]
In merito infine alle società a responsabilità limitata, quale quella di cui alla citata controversia, in conformità ai precedenti arresti giurisprudenziali, si ritiene che l’art. 51 d.p.r. 633/1972 e l’art. 32 n. 7 d.p.r. 600/1973, consentono agli uffici finanziari l’accertamento fiscale tramite indagine su conti correnti intestati a terzi, nel caso in cui abbiano ragione di ritenere, sulla base di elementi indiziari, che gli stessi siano stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti. In tal caso trova quindi applicazione l’art. 32, comma 1, n. 2 e n. 7, d.p.r. 600/1973 che, invertendo così l’onere della prova, prevede una presunzione legale a carico del contribuente, che è tenuto a fornire giustificazione dei movimenti bancari e a dimostrare che gli stessi non sono a lui riferibili.[6]
In conclusione, con la pronuncia in commento, la Suprema Corte mostra di aderire all’orientamento maggiormente garantista per il contribuente, secondo il quale l’amministrazione finanziaria deve provare, anche tramite l’ausilio di presunzioni, come avvenuto nel caso di specie, la natura fittizia dell’intestazione o la sostanziale riferibilità al contribuente delle movimentazioni bancarie di conti correnti intestati a terzi.
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Note
[1] Cass., sez. un., 8053 e 8054 del 2014.
[2] Cass., 30 luglio 2018, n. 20118; Cass., 10 febbraio 2017, n. 3628; Cass., 1 febbraio 2016, n. 1898; Cass., 1 ottobre 2014, n. 20668; Cass., 4 agosto 2010, n. 18083; Cass., 20449/2011.
[3] Cass., 12817/2018, in tema di srl, secondo cui la Commissione Regionale non ha tenuto conto dell’elemento della sostanziale assenza di autonome fonti di reddito in capo a tre dei quattro soci.
[4] Cass. Civ., 20449/2011.
[5] Cass., 20 maggio 2011, n. 11145; Cass., 14 novembre 2003, n. 17243; Cass. 28 giugno 2001, n. 8826.
[6] Cass., 7 febbraio 2018, n. 2843.
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