La bulimia legislativa in materia di “trasparenza” e il “dialogo cooperativo” nell’accesso civico generalizzato

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Il quadro normativo di riferimento

In tema di accesso, nelle sue diffuse tipologie, sono stati versati fiumi di inchiostro.

Legislatore, dottrina e giurisprudenza, in sede comunitaria e nazionale, si son fatti carico nel tempo di affrontare e definire via via le molteplici facce dell’istituto, per un verso tipizzandole e, per connesso verso, tentando di delimitarne, di ciascuna, i confini.

Vaste programme”!

Nell’ordinamento nazionale la “trasparenza”, intesa come presidio normativo dell’art. 97  Cost. e codificata, quale diritto all’accesso ai documenti, dall’art. 22 e ss. della legge n. 241 del 1990 e successive modifiche ed integrazioni, si è via via dilatata ed ha dato copertura ad altri istituti quali le “informazioni ambientali”, regolate dal d.l.vo 19 agosto 2005, n. 195, attuativo della Direttiva comunitaria 2003/4/CE, e l’accesso civico, normato dal d. lvo n. 33 del 2013, come integrato dal d.l.vo 25 maggio 2016, n. 97.

Con felice notazione, nel rendere il proprio parere sull’emanando decreto n. 97 del 2016, il Consiglio di Stato ha rilevato come “la trasparenza” si atteggia a “punto di confluenza” di principi costituzionali, buon andamento della P.A., legalità sostanziale, partecipazione del cittadino alla vita democratica e, quindi, assurge a fonte di istituti sì diversi, ma tutti tesi ad assicurare concretezza alla “disclosure” anche quale strumento fondamentale per la prevenzione della corruzione.

Si è, d’altronde, sostenuto che il “primo attore della trasparenza” (quale condizione di conoscibilità ed “accountability” in favore della generalità dei consociati) è proprio il cittadino e che la difesa ad oltranza del diritto alla riservatezza va nella direzione opposta a quei modelli di amministrazione condivisa, policentrica, pluralistica e paritaria e contravviene, altresì, al principio di sussidiarietà orizzontale (previsto dall’art. 118 della Costituzione ed in base al quale i poteri pubblici “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli ed associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”).

Non può che convenirsi con tali considerazioni, precisandosi, altresì, che nell’ordinamento son presenti anche una pletora di norme individue che hanno a presupposto gli obblighi dell’amministrazione di assicurare “trasparenza” e garantire una piena partecipazione democratica; per tutte, stante le sue connessioni con l’accesso civico, basterà qui ricordare l’art. 43, comma 2, del d.l.vo 18/08/2000 n. 267 (Testo unico sull’ordinamento degli enti locali) che sancisce il diritto dei consiglieri comunali e provinciali ad ottenere “tutte le notizie e le informazioni … utili all’espletamento del proprio mandato”.

E, pur tuttavia, più il campo si allarga, più i campi diventano plurimi, più “agricoltori” son chiamati a coltivarli, fra essi ricomprese le diverse Autorità indipendenti cui sono affidate porzioni di coltivazione, più attenzione si pone a ciascun campo e più si amplia il rischio di perder di vista il quadro di fondo, la cornice e più, soprattutto, si rende difficile assicurare quella armonia di conduzione che pur sarebbe necessaria ad evitare una babele delle lingue, ovvero che al summum ius corrisponda la summa iniuria.

È questa la mia opinione, sorretta dall’esperienza personale di una vita trascorsa per una parte ad “amministrare” e per altra parte a “giudicare”. Opinione che ho già avuto modo più volte di “esternare”,  trattando in particolare di legislazione antimafia, di opere pubbliche, di espropriazione, laddove, provocatoriamente, ho concluso sostenendo di rimpiangere le codificazioni del 1865 e la loro linearità ed onnicomprensività.

Ma tant’è; la bulimia legislativa sembra non avere limiti, anzi, di più, sembra afflitta anche da una sindrome di Penelope che, se pur come la consorte di Ulisse ammantata da buone intenzioni, “fa” e “disfa” e la “tela compiuta non dà”.

Ne conseguono, in pacifica evidenza, difficoltà oggettive nella individuazione dello ius applicabile al fatto concreto.

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Nuova trasparenza amministrativa e libertà di accesso alle informazioni

Il volume è una guida all’applicazione degli istituti della trasparenza amministrativa, attenta ai profili di impatto organizzativo e operativo. L’opera analizza in maniera sistematica il D.Lgs. 33/2013, così come risultante dalle modifiche introdotte dal D.Lgs. 25 maggio 2016, n. 97, attraverso un commento analitico, articolato per temi. Ad inizio di ogni capitolo sono riportati gli articoli del D.Lgs. 33/2013 relativi agli argomenti oggetto di commento. L’analisi mira a evidenziare le problematiche applicative, con il fine di garantire uno strumento utile sia sul piano interpretativo sia su quello operativo. Sono molte e significative le novità della riforma operata dal D.Lgs. 97/2016. Con l’integrazione dell’accesso generalizzato alle informazioni detenute dalle pubbliche amministrazioni (il cd. “Foia”) nel quadro dell’organica disciplina della trasparenza amministrativa, giunge a un primo compimento il percorso verso l’affermazione della libertà di ac- cesso alle informazioni da parte dei cittadini. Il principio in base al quale ogni informazione detenuta è cono- scibile (salvo eccezione) pone le pubbliche amministrazioni di fronte a un cambio di paradigma culturale e organizzativo, e vedrà un serio banco di prova in sede di applicazione dei limiti e delle eccezioni al diritto di accesso generalizzato. Di contro, anche la nuova opera di snellimento e semplificazione degli obblighi di pubblicazione presenta una serie di problematiche applicative, a cominciare dalla concreta operatività e fruibilità delle banche dati centralizzate, sostitutive di numerosi obblighi di pubblicazione fin qui demandati a ciascuna amministrazione. Il volume si propone di fornire gli strumenti necessari all’attuazione degli oneri imposti alle amministrazioni pubbliche e alla comprensione degli effetti della nuova disciplina in materia di trasparenza amministrativa. Benedetto Ponti Ricercatore universitario di Diritto amministrativo, docente di Diritto dell’informazione, consulente in materia di trasparenza e integrità, autore di pubblicazioni in materia di amministrazione digitale, trasparenza amministrativa e riutilizzo dei dati pubblici.

a cura di Benedetto Ponti | 2016 Maggioli Editore

La sentenza del Tar Campania e le sue composite statuizioni

È dunque, in tale spirito, consapevole di questa non lieve difficoltà, che ho molto apprezzato una recentissima pronuncia della sesta sezione del TAR Campania, la n. 2486 del 9 maggio 2019.

Apprezzata in quanto trovo pregevole la ricostruzione dottrinaria in essa operata del coacervo ordinamentale che trova genesi nella “trasparenza” e del tutto condivisibili le articolate conclusioni cui è pervenuta.

Non era (è) cosa semplice in una pronuncia giudiziaria ricostruire, con linearità e sinteticità, diversi istituti, compararli per quanto necessario e trarre la regola da seguirsi nel caso concreto.

Credo che di una pronuncia di tal fatta, in una cioè onnicomprensiva, e nel contempo lineare e sintetica, ci fosse bisogno in tema di accesso.

La questione al vaglio del giudice era già stata affrontata per il passato e la domanda giudiziaria di accedere ad una miriade di atti (tutte le licenze commerciali, tutti i certificati di agibilità, tutte le domande di condono pendenti; tutte le autorizzazioni paesaggistiche intervenute e cosi via) prima della sopravvenienza dell’accesso civico per quanto io ricordi era sempre stata respinta, facendosi leva sull’una o sull’altra ragione: mancanza di legittimazione, di un interesse attuale, violazione della privacy, controllo generalizzato dell’operato della P.A., necessità di elaborazione dei dati, aggravi insostenibili per l’amministrazione e così via.

E respinta veniva anche allorquando l’accesso era finalizzato alla “difesa in giudizio”.

In un caso in cui era stato negato l’accesso a tutte le autorizzazioni paesaggistiche rilasciate da un Comune il diniego è stato ritenuto legittimo in quanto: “Va osservato che la mancata visione dei documenti non priva il ricorrente del diritto di difesa, potendo il ricorso essere proposto sulla base di altre censure, e potendo altresì essere dedotto il vizio di eccesso di potere per disparità di trattamento in base ai dati già a disposizione, salvo chiedere al giudice un ordine di esibizione di atti, a seguito dei quali articolare motivi aggiunti.

In un’evenienza del genere, in cui il richiedente vuole conoscere un numero indeterminato di pratiche amministrative riguardanti terzi, al fine di compiere un’investigazione per la ricerca di un vizio dell’agire amministrativo, nella mediazione tra diritto di difesa e diritto alla privacy, si deve ritenere che manca la rigorosa necessità dei documenti per la difesa in giudizio, necessità che non può essere valutata né dal richiedente l’accesso né dalla pubblica amministrazione destinataria della richiesta, e che deve invece essere valutata, a giudizio instaurato, dal giudice, in sede di esame della richiesta istruttoria dell’interessato”.

Così, ex multis, Cons. Stato, sezione sesta, n. 117/2011, confermando TAR Campania, sezione sesta, n. 16647/2010.

Nel caso odierno, al di là della maggiore mole di documenti richiesti (tutte le licenze commerciali, tutti i certificati di agibilità, tutte le domande di condono pendenti in un Comune), la situazione si appalesa(va) similare.

La differenza, dirimente ai fini della decisione della causa, sta(va) nel fatto che, qui oggi (all’epoca l’istituto dell’accesso civico non era codificato), l’istanza di accesso era stata presentata espressamente sia “ai sensi degli artt. 22 e ss. della l. n. 241/del 1990” che “degli artt. 5 e ss. del d.l.vo n. 97/2016 e che, sempre per come si ricava dai contenuti della pronuncia, in ricorso erano state proposte censure specifiche di violazioni di legge riferite ad entrambi gli istituti.

In coerenza con i propri precedenti e con la giurisprudenza unanime, la pronuncia ha quindi rigettato la domanda dell’attore di essere ammesso ad accedere ex art. 22 l. 241/90 ai ripetuti documenti per poter sostenere le sue ragioni (diritto a conseguire la licenza di agibilità pur in pendenza della domanda di condono degli immobili adibiti ad attività commerciale) davanti al giudice (qui di appello).

Ha poi proseguito affermando: “A diverso esito si giunge allorquando si esamina la domanda di accesso del ricorrente in base all’art. 5, comma 2, del d. l.vo n. 33 del 2013”.

Ed il diverso esito (ovvero, l’accoglimento in parte qua della domanda attorea stante la rilevata fondatezza della denuncia di violazione del principio della “par condicio civium” (pag. 19 della sentenza) vien quindi dal TAR Campania puntualmente motivato, con le considerazioni qui di seguito sinteticamente riprodotte:

  • l’essere l’amministrazione a conoscenza dell’interesse personale dell’istante non si frappone al diritto di quest’ultimo di fruire dell’accesso generalizzato uti cives;
  • l’accesso civico non è precluso dal sostanziare un controllo generalizzato, anzi ne costituisce la ratio ed il fine;
  • alcuna legittimazione è quindi richiesta;
  • l’aggravio lavorativo, in ispecie in presenza dell’estensione a chiunque del diritto ad accedere agli atti formati dall’amministrazione al fine precipuo di partecipare alla vita democratica, deve essere oggetto di apposita prova (“dati alla mano”) e, in difetto, non può sostanziare una istanza “massiva”;
  • l’obbligo di fornir prova dell’aggravio “dati alla mano” è vieppiù stringente in presenza della c. detta amministrazione digitalizzata, che vede anche i processi di elaborazione dati dover costituire regola di buona amministrazione;
  • il diritto alla riservatezza, per la parte in cui può dirsi esistente, ben può essere tutelato attraverso opportuni oscuramenti di dati.

Così concluso il vaglio del merito, il giudice fa poi buon utilizzo dei poteri affidatigli dall’art. 34 cod. proc. amm, rendendo effettivo il suo dictum a mezzo delle finali statuizioni rese: “Al fine di consentire concreta esecuzione alla presente decisione, il Collegio ritiene, infine, di fornire ulteriori indicazioni che hanno rilievo sul piano degli effetti conformativi della sentenza”.

Richiamati ancora precedenti giudiziari e puntuali previsioni dell’Anac, in sintesi e per quanto qui più rileva, la pronuncia ingiunge all’amministrazione di attivare un “dialogo cooperativo” con l’istante/ricorrente al fine di verificare la possibilità di pervenire ad intese ragionevoli che appaghino entrambe le parti in campo, creando quindi, nella sede amministrativa, lo ius da applicarsi alla fattispecie concreta.

A commento della sentenza non credo vi sia altro da aggiungere. Inutile e ridondante sarebbe (stato) qui riportare l’articolata ricostruzione dei due istituti, accesso documentale ed accesso civico, da essa operata. È lì, e “chiunque” (per l’appunto) può accedervi.

Il diverso, precedente, avviso del Garante dei Dati Personali

Non può sfuggire, in ogni caso, da altra angolazione, che la sentenza in questione supera, con argomentazioni del tutto condivisibili, anche le “resistenze (fin qui) opposte a tale linea interpretativa dal Garante per la Protezione dei Dati Personali, da ultimo palesate nel provvedimento n. 1 del 3 gennaio 2019.

In tale provvedimento, relativo ad una richiesta di parere del Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza di un Comune emiliano adito in sede di riesame, il Garante ritiene legittimo il diniego opposto da quest’ultimo ad una istanza di accesso civico alla «copia nel formato detenuto da questa amministrazione (o in sub-ordine in forma riassuntiva), contenente i dati del committente, descrizione dell’intervento, località del cantiere e tecnico progettista, delle Segnalazioni Certificate di Inizio Attività (SCIA) e possibilmente anche delle Comunicazioni Inizio Attività Asseverata (CILA) concernenti l’attività degli interventi edili da attuarsi nel territorio comunale, presentate nel mese di settembre 2018».

A giustificazione della propria decisione, il Garante afferma, in buona sostanza, che “non è possibile accordare una generale prevalenza della trasparenza o del diritto di accesso civico “generalizzato” a scapito di altri diritti ugualmente riconosciuti dall’ordinamento (quali quello alla riservatezza e alla protezione dei dati personali), in quanto, procedendo in tal modo, si vanificherebbe proprio il necessario bilanciamento degli interessi in gioco che richiede un approccio equilibrato nella ponderazione dei diversi diritti coinvolti, tale da evitare che i diritti fondamentali di eventuali controinteressati possano essere invece gravemente pregiudicati dalla messa a disposizione a terzi – non adeguatamente ponderata – di dati, informazioni e documenti che li riguardano (cfr. provv. n. 521/2016, cit.). In caso contrario, vi sarebbe infatti il rischio di generare comportamenti irragionevoli in contrasto, per quanto attiene alla tutela della riservatezza e del diritto alla protezione dei dati personali, con la disciplina internazionale ed europea in materia (art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; artt. 7 e 8 della Carta dei diritti fondamentali dell ́Unione europea, Dir. 95/46/CE, Reg. (UE) 27/4/2016 n. 2016/679)”.

Conclude, infine, il Garante, quasi a voler temperare gli effetti del parere espresso nei termini suesposti, che «resta, in ogni caso, salva la possibilità per il soggetto istante di accedere eventualmente alla documentazione e ai dati personali richiesti, laddove, invece, formulando una diversa domanda di accesso agli atti amministrativi ai sensi degli artt. 22 ss. della l. n. 241/1990, dimostri di possedere un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso».

Tale conclusione – a ben vedere – si pone in stridente contrasto proprio con quanto affermato dal TAR che ha negato l’accesso documentale di cui alla legge n. 241 del 1990, sebbene trattavasi di “accesso defensionale”, ed accolto invece l’istanza di accesso civico generalizzato.

Prospettive de iure condendo

A questo punto vien fatto solo, anche per riannodare le fila rispetto all’incipit delle presenti note, di porre un interrogativo che affido alla meditazione di chi avesse a ritenere che valga la pena di soffermarvisi.

Posto che al 1865 è difficile ritornare, non sarebbe opportuno creare per lo meno qualche norma di raccordo fra le varie previsioni, fra i diversi Istituti?

Mi spiego. Nel caso che ne occupa credo di non sbagliare nel ritenere che l’istante si sia avvalso dell’ausilio legale fin dal momento di proposizione della domanda di accesso e che, quindi, solo grazie alla diligenza del suo procuratore si sia fatto leva, già ab origine, su entrambi i “diritti”.

Se così non fosse stato, il suo “diritto”, pur esistente, non si sarebbe potuto far valere nelle aule di giustizia.

E non mi si replichi che è sempre così. Certo che lo è; ma semplificare la vita al cittadino, evitare che possa incorrere in errori rientra fra quegli stessi obblighi di “trasparenza, buona amministrazione, open government, sempre predicati dal legislatore e posti a fungere da cappello ai diversi istituti.

In definitiva, io direi, sfoltire, sfoltire, sfoltire: li rami, li campi, li agricoltori.

 

 

Dott. Monaciliuni Arcangelo

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