L’usucapione nei limiti dell’uso: una tesi dirompente (e folle?)

Viola Luigi 07/09/06
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INTRODUZIONE
L’art. 1158 c.c. individua una modalità di acquisto della proprietà o altri diritti reali di godimento[1], attraverso il possesso continuato per venti anni; si tratta di un acquisto a titolo originario che il legislatore ha voluto definire “usucapione”.
Affinché si realizzi l’usucapione è, pacificamente, necessario che vi sia un possesso (non violento o clandestino) per un certo periodo di tempo (senza interruzioni).
L’istituto de quo si fonda, secondo una certa impostazione[2], sull’esigenza di rendere certa e stabile la proprietà: se non esistesse l’usucapione, la prova della provenienza del diritto di proprietà (o diritto reale di godimento) “che chi si afferma proprietario dovrebbe dare non avrebbe limiti, e si dovrebbe risalire di autore in autore nella notte dei tempi”, con la conseguenza logica giuridica che sarebbe una prova di difficile dimostrazione, se non impossibile ( probatio diabolica).
Al fine, quindi, di agevolare l’onere probatorio del titolare del diritto sarebbe stato formulato tale istituto.
D’altronde, è pur vero che tale impostazione non è del tutto esente da critiche in quanto ben sarebbe possibile precisare che, a rigore, al fine di evitare la ricostruzione indietro nel tempo di autore in autore ad infinitum, soccorrerebbe già l’istituto della trascrizione[3] che, ragionevolmente, potrebbe arginare il rischio evidenziato; id est è la trascrizione che è deputata ad evitare le ricostruzioni a ritroso nel tempo, nell’ambito dei diritti reali, e non l’usucapione (al più l’usucapione può completare ed agevolare la risoluzione di contrasti tra titolari, o apparenti tali, di diritti reali, ma, comunque, non è la funzione primaria dell’istituto).

RATIO DELL’ISTITUTO E PROFILI CRITICI

La ratio giustificatrice che generalmente viene, invero, ricondotta all’istituto dell’usucapione è quella che cerca di far leva sulle ragioni sociali che possono aver ispirato tale istituto; infatti, si dice[4], l’usucapione sarebbe l’effetto dell’atteggiamento di sfavore del legislatore verso colui che è titolare di un diritto e non lo esercita: deve essere premiato colui che, pur senza averne il diritto, utilizza i beni e li rende produttivi, a scapito del proprietario rimasto inerte per lungo tempo[5].
In questo senso, d’altronde, sembrerebbe deporre un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’istituto, soprattutto laddove si evidenzi l’art. 42 Cost. che spiega come la legge determina i modi di acquisto della proprietà nonché di godimento, determinando, altresì, i limiti “allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”.
Se, pertanto, deve essere garantita la funzione sociale della proprietà e l’accesso alla stessa da parte di tutti, ben si giustifica un istituto giuridico che premia il soggetto produttivo che riesce ad acquisire un diritto per il possesso continuato, senza discriminazioni economiche; in particolare, infatti, assicurare la funzione sociale vorrebbe dire proprio realizzare un sistema meritocratico effettivo: chi utilizza un bene deve essere avvantaggiato rispetto a colui che non lo usa.
Da questa prospettiva, allora, il concetto di funzione sociale ben si potrebbe tradurre un meritocrazia reale.
Inoltre, la garanzia di libero accesso alla proprietà starebbe proprio a significare che essa non è accessibile solo economicamente, ma anche attraverso il possesso, poiché, diversamente, vi sarebbe il rischio di vulnerare, in qualche modo, il principio di uguaglianza, ex art. 3 Cost.: se tutti i cittadini devono essere uguali davanti alla legge, allora, tutti i cittadini devono poter accedere a tutti i diritti, comprendendo anche quelli reali, indipendentemente dalla sola posizione economica, in un’ottica sociale di giustizia distributiva.
In fondo, poi, la logica ispiratrice dell’istituto dell’espropriazione[6] (ex art. 42, III comma, Cost.) ben entrerebbe in linea con i rilievi esposti (in tema di usucapione), in quanto ispirato, comunque, a concezioni sociali[7] volte a favorire la realizzazione di opere pubbliche (attività), in svantaggio di proprietari terrieri che non utilizzano il loro bene (senza farlo fruttare).
Tuttavia, anche tale ricostruzione, seppure generalmente condivisa, non è del tutto esente da rilievi critici.
Se, infatti, si ritiene che la finalità dell’istituto dell’usucapione sia essenzialmente sociale, nel senso meritocratico del termine, allora, il legislatore avrebbe dovuto prevedere una disciplina dettagliata ed uniforme, con riferimento alla fase successiva all’acquisto della proprietà per mezzo dell’usucapione; se, cioè, l’obiettivo era premiare il soggetto che utilizza un bene rispetto a colui che non lo utilizza, allora, per esigenze di coerenza il legislatore avrebbe, nella sostanza, dovuto assicurare che il soggetto che ha usucapito continui ad utilizzare il bene nel tempo, altrimenti vi sarà stato un bene utilizzato per il periodo utile a realizzare l’usucapione, ma poi, ad usucapione avvenuta, il bene agevolmente potrebbe tornare a non essere utilizzato.
In altri termini, ben potrebbe accadere (e nella prassi accade spesso) che colui che usucapisce il bene, poi, se ne disinteressa, con il corollario applicativo che, nella sostanza, il bene oggetto di usucapione tornerà a non essere utilizzato, con l’ulteriore conseguenza che non verrebbe, comunque, realizzata quella funzione sociale che il Costituente avrebbe voluto garantire; la mancata previsione di una norma che imponga a colui che ha usucapito di continuare ad usare il bene (almeno nella stessa misura del periodo ante usucapionem ) sembrerebbe tradursi, in questa visuale prospettica, in un vulnus all’art. 42 Cost., difficilmente giustificabile.
In questo senso, allora, ben potrebbe essere, alla luce delle contraddizioni esposte, che il legislatore ha voluto attribuire all’usucapione una funzione sociale in un senso diverso da quello comunemente inteso, non tanto, quindi, movendosi in un’ottica meritocratica, quanto piuttosto in una prospettiva di tutela dei bisogni essenziali della famiglia[8] (per cui ha diritto ad usucapire colui che deve soddisfare i bisogni propri e della propria famiglia, attraverso un’interpretazione sistematica dell’art. 1021 c.c. con l’art. 1158 c.c.).

NATURA GIURIDICA E PROFILI CRITICI

Relativamente alla natura giuridica dell’usucapione è stato detto che si tratterebbe di una particolare modalità di acquisto, basata sulla prescrizione acquisitiva.
Vi sarebbe una prescrizione che opererebbe in sfavore del proprietario ed a vantaggio del possessore (o utilizzatore); poiché il proprietario non esprime il diritto di cui è titolare, allora, un altro soggetto che, al contrario, esprime i diritti corrispondenti a quelli del proprietario, ex art. 1140 c.c., acquisterà il diritto del proprietario (o titolare di altro diritto reale)[9].
In altri termini, si prescrive (prescrizione estintiva) il diritto del titolare per non uso e per uso acquista il bene il possessore (o utilizzatore); da un lato la prescrizione opera in senso estintivo e dall’altro in senso acquisitivo; id est  per il proprietario si prescrive il diritto di agire per la restituzione del bene (ovvero, secondo altra ricostruzione, si prescrive proprio il diritto di proprietà).
Tale assunto, poi, sarebbe desumibile da un’interpretazione combinata dell’art. 1158 c.c. con l’art. 1165 c.c.
Anche tale tesi, tuttavia, presenta ombre difficilmente superabili.
In particolare, infatti, tale tesi sembra entrare in contrasto con il principio di imprescrittibilità del diritto di proprietà[10].
Invero, il diritto di proprietà è imprescrittibile, per cui non si comprenderebbe agevolmente come, a fronte di tale diritto, possa sussistere una prescrizione acquisitiva in favore di un soggetto che utilizza un bene[11].
Inoltre, dalla lettura dell’art. 832 c.c. emergerebbe chiaramente come il titolare di un diritto di proprietà ben potrebbe anche arrivare a distruggere il bene stesso di cui è titolare[12], con la conseguenza logica giuridica che dovrebbe, a fortiori, avere il diritto di non utilizzare il bene; id est se il legislatore garantisce il diritto a distruggere la “propria proprietà”, almeno implicitamente, dovrebbe garantire il diritto di non utilizzarla.D’altronde, la libertà di distruzione del proprio bene emerge a chiare lettere dall’inciso “diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo”, ex art. 832 c.c., dove, in particolare, la disposizione piena implica anche la distruzione (mentre il godimento esclusivo implica lo ius excludendi alios); il concetto di disposizione piena, quindi, depone nel senso della possibilità di distruzione, tanto più che, diversamente argomentando, lo stesso diritto di disposizione non potrebbe ritenersi pieno: la disposizione è piena se comprende l’intera gestione del bene, senza escluderne l’eventuale distruzione.
Ancora, altro profilo critico emerge proprio dalla lettura dell’art. 1165 c.c., laddove, optando per una ricostruzione rigorista, non viene detto in alcun modo che l’usucapione è una forma di prescrizione acquisitiva, ma che alcune norme sulla prescrizione (in particolare quelle in tema di causa di sospensione, d’interruzione e di computo dei termini) vanno applicate anche all’istituto dell’usucapione: l’usucapione non è una forma di prescrizione, ma una modalità di acquisto di un diritto, in cui vengono applicate alcune norme sulla prescrizione.
In altri termini, la disciplina giuridica della prescrizione è parzialmente applicabile anche all’istituto dell’usucapione, ma non ne identifica la natura giuridica.
Altresì, il soggetto che mira ad usucapire un bene e concretamente pone in essere condotte finalizzate a tale obiettivo compie un illecito che, a rigore, ben potrebbe rientrare nell’ambito applicativo dell’art. 2043 c.c.; precisamente, si tratterebbe di una sorta di tentata appropriazione indebita. Sebbene, dunque, il soggetto intenzionato ad usucapire non deve agire in modo violento o clandestino, ciò non toglie, comunque, che possa configurarsi un vero e proprio illecito (al più di natura colposa), in quanto vi sarebbe comunque la violazione di un diritto di proprietà (o altro diritto reale) spettante ad altri.
Ebbene, secondo la concezione della prescrizione acquisitiva sarebbe vero che si tratterebbe di un illecito, ma comunque questo si prescriverebbe (l’illecito aquiliano si prescrive in cinque anni, per cui il diritto al risarcimento del danno sarebbe ampiamente prescritto, visto che per l’usucapione di cui si discorre, ex art. 1158 c.c., sarebbero necessari venti anni).
Invero, proprio con riferimento al dies a quo , tuttavia, emergono profili di dubbia condivisione.
Infatti, l’azione risarcitoria di tipo aquiliano si prescrive in cinque anni dal giorno del compimento dell’illecito o dal giorno della sua conoscenza (soprattutto in tema di danni lungolatenti[13]), con la conseguenza logico applicativa che, il soggetto che abbia perso il bene per usucapione altrui, agevolmente potrà agire per il risarcimento del danno, evidenziando di essere venuto a conoscenza dell’usucapione in un momento successivo alla sua realizzazione; diversamente argomentando verrebbe vulnerato in concreto il diritto di difesa, ex art. 24 Cost., e l’art. 2935 c.c. (laddove si interpreti l’inciso “il diritto può essere fatto valere” in modo concreto e non meramente astratto).
Inoltre, pur non condividendo tale assunto, comunque, la prescrizione in tema di illecito permanente inizia a decorrere dal giorno in cui la permanenza dell’illecito è terminata, e non dal giorno in cui è stato posto in essere il primo atto causale dell’illecito permanente (o con effetti permanenti). Ne deriva che il soggetto che ha perso il diritto di proprietà, una volta perso il bene per possesso altrui continuato per venti anni (senza violenza o clandestinità), comunque potrà agire per il risarcimento nei cinque anni successivi all’avvenuto usucapione.
Ma veramente si può dire che l’usucapione possa essere ritenuto un illecito permanente di tipo colposo?
Ebbene, se si parte dall’idea che vi è un soggetto danneggiato (che perde un diritto) in modo almeno colposo, per un comportamento altrui abusivo, non vi sarebbero ostacoli alla considerazione che vengano integrati tutti gli estremi dell’illecito aquiliano; d’altronde, se la P.A. quando espropria un bene, legittimamente, per realizzare un’opera pubblica eroga verso il privato un indennizzo, a fortiori, il privato che usucapisce un bene per finalità di natura egoistica deve risarcire il danno cagionato, ovvero almeno una forma di indennizzo da atto lecito (in considerazione del fatto che l’usucapione è un istituto giuridico ammesso nel nostro ordinamento).
In altri termini, va bene che il privato che era proprietario perda il relativo diritto, ma colui che usucapisce dovrebbe ben riconoscere “qualcosa di economico” in favore del precedente proprietario, tanto più che la funzione sociale non viene, comunque, garantita[14] e che addirittura la P.A. eroga indennizzi verso il privato a cui sottrae un diritto, pur agendo per finalità pubblicistiche.
 Colui che usucapisce un bene dovrebbe, da questa angolazione prospettica, almeno erogare un indennizzo in favore del precedente proprietario; diversamente argomentando, non sarebbe del tutto fuori luogo ipotizzare l’incostituzionalità dell’istituto dell’usucapione, in quanto si mirerebbe a trattare in modo diseguale (esproprio e usucapione) situazioni giuridiche analoghe (ponendo l’accento sul fatto che vi è, nella sostanza, un soggetto che perde un diritto), in contrasto con l’art. 3 Cost.
Tuttavia, al di là di questi rilievi critici, un confine di liceità piena deve pur sussistere nella condotta di colui che usucapisce, in quanto un comportamento per essere sanzionato deve essere illecito e/o abusivo, così che è utile chiedersi quale sia, appunto, il discrimen tra liceità ed illiceità (ovvero tra diritto ad usucapire esercitato legittimamente e diritto esercitato in modo abusivo).
Quali sono, pertanto, i limiti di esercizio del legittimo diritto ad usucapire?
Invero, una possibile soluzione interpretativa[15] potrebbe derivare da una lettura combinata della disciplina sull’usucapione con quella dell’uso, trattandosi pur sempre di forme di uso, lato sensu intese.

CONCLUSIONI E TESI DIROMPENTE

Le argomentazioni esposte hanno evidenziato alcune contraddizioni del sistema giuridico con riferimento all’istituto dell’usucapione, almeno nella misura in cui si voglia optare per le ricostruzioni classiche.
Optando per le ricostruzioni classiche, infatti, si è visto che la funzione sociale della proprietà non è, comunque, garantita (perché il bene usucapito ben potrebbe essere utilizzato dal nuovo proprietario anche in misura inferiore rispetto al precedente proprietario) e che l’attribuzione della natura giuridica di prescrizione acquisitiva pone significativi problemi di coerenza giuridica rispetto alla tradizionale concezione dell’imprescrittibilità del diritto di proprietà.
Inoltre, si è visto che vi è un significativo problema di individuazione del dies a quo  della prescrizione estintiva e di configurabilità di un illecito aquiliano ovvero di un indennizzo da attività lecita.
E’ davvero così? Veramente non vi sono soluzioni interpretative idonee a ridurre al minimo le evidenziate contraddizioni logico-giuridiche?
Una possibile soluzione, forse, potrebbe derivare dall’interpretazione del concetto di funzione sociale, non tanto in una prospettiva meritocratica, quanto piuttosto in una visuale collettivistica e di giustizia distributiva; in questo senso, il legislatore non avrebbe istituito l’usucapione al fine di premiare chi utilizza un bene rispetto a colui che non lo usa, quanto piuttosto di permettere l’acquisto di un bene (in modo sostanzialmente gratuito) a soggetti bisognosi, laddove il proprietario non usi lo stesso bene.
Il concetto di usucapione, cioè, anche in considerazione della sua etimologia, sarebbe una forma di uso (usu-capione, ovvero dal latino “impossessarsi con l’uso”), ex art. 1021 c.c., con la conseguenza che colui che usucapisce può, comunque, utilizzare il bene “per quanto occorre ai bisogni suoi e della propria famiglia”; è vero che per realizzarsi l’usucapione, in linea di massima, è necessario il possesso continuato per diverso tempo, laddove per possesso, ex art. 1140 c.c., si intende il potere sulla cosa “corrispondente all’esercizio della proprietà o altro diritto reale”, con la conseguenza che per usucapire il diritto di proprietà bisognerebbe esercitare tale diritto in modo continuato, ma ciò non toglie che tale diritto possa essere esercitato con i limiti dell’uso, ex art. 1021 c.c.
In altri termini, si dice, affinché si realizzi correttamente l’usucapione, in questa prospettiva, il possesso continuato della cosa deve manifestarsi entro i limiti dei bisogni (essenziali) di colui che usucapisce e della sua famiglia.
Il Costituente, così, avrebbe inteso realizzare la funzione sociale nel senso di attribuire il diritto di usucapire un certo bene solo a colui che ne ha bisogno, nei limiti del non utilizzo da parte del proprietario: se c’è un bene che non viene utilizzato, corrisponde alla funzione sociale che tale bene possa essere usucapito da chi ne ha bisogno; colui che non ne ha bisogno e, ciononostante, prova ad usucapire un bene altrui porrebbe in essere un comportamento illecito, idoneo a giustificare una certa pretesa risarcitoria.
Optando per questa ricostruzione, allora, si realizzerebbe un’interpretazione più coerente con la lettera della legge (in particolare con il termine stesso “usucapione”) e la Costituzione (laddove si parla di funzione sociale della proprietà e proprietà accessibile a tutti, ex art. 42 Cost.), oltre al fatto che sarebbe più agevole individuare il discrimen tra condotta lecita ed illecita.
Inoltre, in questo senso, verrebbe a monte limitato il problema del dies a quo della prescrizione, in quanto resterebbe riferibile alle sole ipotesi di usucapione per volontà di soggetti, per così dire, non bisognosi (rectius: coloro che non usano il bene nei limiti dei propri bisogni e di quelli della propria famiglia).
Tale visuale prospettica, tuttavia, presta il fianco ad una critica particolarmente forte: se un soggetto si serve della cosa nei limiti del bisogno, può usucapire il diritto di uso, ma non altri diritti reali; se, infatti, colui che intende usucapire un bene limita l’utilizzo dello stesso ai propri bisogni e quelli della famiglia, ben potrà sostenersi che l’usucapione ha avuto per oggetto l’uso e non altri diritti reali.
In effetti, tale rilievo argomentativo è particolarmente convincente, almeno che non si voglia sottolineare (ed ipotizzare) che per usucapire è necessario utilizzare i beni nei limiti dell’uso, ma ciò non vuol dire che si usucapisce il diritto di uso; la tesi esposta, infatti, ipotizza un collegamento giuridico (dettato dallo stesso termine “usucapione”) tra l’esercizio di un diritto ed i limiti indicati nella disciplina giuridica dell’uso, ma non dice che si usucapisce un diritto reale maggiore (ad esempio quello di proprietà) attraverso l’uso.
L’uso riguarderebbe solo i limiti dell’esercizio del diritto che si vuole usucapire, ma non il contenuto; così, ad esempio, se un soggetto vuole usucapire una servitù di passaggio, fruirà della servitù nei limiti dei propri bisogni (e della propria famiglia), mentre ad usucapione avvenuta potrà fruire della stessa servitù in modo più ampio, facendola utilizzare a terzi (parenti, amici, ecc.) o addirittura darla in locazione (si pensi alla servitù di parcheggio[16]).
Tale tesi innovativa, in definitiva, potrebbe portare l’interprete ad attribuire un ruolo sociale pieno all’usucapione (come, forse, voluto dal Costituente), salvaguardando i titolari di diritti suscettibili di usucapione.

Note


[1] Le servitù non apparenti non possono essere usucapite.
[2] Si veda Torrente, Schlesinger, Manuale di diritto privato, Milano, 1997, 374.
[3] Si legge in Gazzoni, Manuale di diritto privato, Napoli, 2001, 290, che “la trascrizione assolve a funzioni diverse, ma la funzione sua tipica è quella di dirimere i conflitti tra più aventi causa dallo stesso autore (o dante causa)”.
[4] Perlingieri, Manuale di diritto civile, Napoli, 1997.
[5] Perlingieri, cit.
[6] Si segnala, con l’occasione, la recentissima sentenza della Corte Costituzionale 191/2006 (reperibile anche su www.diritto-in-rete.com, 2006, Url http://www.diritto-in-rete.com/sentenza.asp?id=103), che ha dichiarato parzialmente incostituzionale il T.U. sull’espropriazione (D.P.R. 327/2001), nella parte in cui attribuiva tutta la materia dell’espropriazione alla competenza esclusiva del giudice amministrativo.
[7] Sul tema della funzione sociale della proprietà, anche con riferimento all’espropriazione, si veda Gambaro, La proprietà, Milano, 1990, 119.
[8] Questo ultimo rilievo è approfondito nella parte finale del presente scritto.
[9] In un certo senso, è possibile ritenere che nell’istituto dell’usucapione (ordinario) prevale la sostanza sulla forma.
[10] Si legge in Bigliazzi Geri, Breccia, Busnelli, Natoli, Diritto civile 2 – Diritti reali, Torino, 1998, 393, che il rilievo che il legislatore guarderebbe con sfavore il mancato utilizzo del bene è contraddetto dall’imprescrittibilità del diritto di proprietà, quasi a voler sottolineare che ben potrebbe esistere anche un diritto a non utilizzare il bene, desumibile proprio da una lettura estensiva dell’art. 832 c.c.; tra l’altro, se si ritiene che al proprietario spetti anche il diritto di distruggere il proprio bene, a fortiori, potrebbe vantare il diritto a non utilizzare un determinato bene.
[11] E’ argomento dibattuto se possa sussistere un’usucapione a favore di terzo, seppure la tesi prevalente opta per una risposta negativa, in quanto l’usucapione pur essendo un modo di acquisto della proprietà come il contratto, in cui si ammette la clausola “a favore di terzo”, non è acquisto a titolo derivativo, ma originario; tale diversità strutturale giustificherebbe la non estensibilità della disciplina del contratto a favore di terzo all’istituto giuridico dell’usucapione.
[12] Torrente, cit.; Bigliazzi Geri, cit.
[13] Per un approfondimento sul punto, sia consentito il rinvio a Viola, La prescrizione dei danni lungolatenti, in www.altalex.com, 2005, Url http://www.altalex.com/index.php?idnot=1068.
[14] Come spiegato precedentemente (nella parte iniziale del presente scritto).
[15] Piuttosto coraggiosa, si aggiunge.
[16] Cass. civ. 8262/2002 ha precisato che la proprietà delle aree interne o circostanti ai nuovi fabbricati di nuova costruzione, su cui grava il vincolo pubblicistico di destinazione a parcheggio, può essere acquistata per usucapione, non comportandone tale vincolo indisponibilità, inalienabilità ed in commerciabilità. Sul tema dei parcheggi si segnala la sentenza Cass. SS.UU. 12793/2005 (reperibile anche su www.altalex.com, 2005, Url http://www.altalex.com/index.php?idnot=9895), in tema di disponibilità degli stessi nella misura di eccedenza rispetto ai parametri richiesti dalla legge.

Viola Luigi

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