L’Istituzione scolastica nel periodo successivo all’Unità d’Italia. Un breve analisi storica sulle innovazioni e le riforme legislative.

Fiore Rosa 17/01/08
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 Una delle grandi questioni che l’Italia dovette fronteggiare nel suo costituirsi a Stato Nazionale moderno fu quella di realizzare una coscienza unitaria nei cittadini: questo compito venne affidato in gran parte alla scuola[1].
  Nel 1861 l’Italia eredita dagli Stati preunitari una situazione scolastica depressa e particolarmente deprimente, fortemente pregiudicata sia dal profondo divario fra le varie aree[2], sia dall’atteggiamento del clero, rivolto per lo più a preservare lo status quo, nel convincimento che l’istruzione per la maggior parte della popolazione potesse essere dannosa in quanto stimolo per ambizioni eccessive e rischiosamente ribelli[3].
 Questa situazione, unita alla condizione di miseria e di ingiustizia, alle arretratezze dei vecchi stati, non costituì certamente il terreno più adatto alla nascita di una nuova ‘scuola’.
 Il processo di modernizzazione dell’istituzione scolastica appare infatti lungo, articolato, difficoltoso e attraversato da dinamiche e scelte complesse riguardanti sia l’aspetto legislativo sia quello più strettamente pedagogico.
    La legge Casati[4] (promulgata da Vittorio Emanuele II il 13 novembre 1859)[5] rappresenta l’atto di nascita del sistema scolastico italiano.
    Il vero “propulsore” della politica scolastica, così come risultava dalla legge, era il Ministro che, secondo quanto riportato all’ art. 3, « governava l’insegnamento pubblico in tutti i suoi rami e ne promuoveva l’incremento […] mantenendo fermi tra le Autorità Scolastiche a lui subordinate i vincoli di supremazia e di dipendenza stabiliti dalle leggi e dai regolamenti; riforma o annulla gli atti delle medesime….»[6].
    L’ordinamento degli studi previsti dalla legge riguardava l’istruzione superiore impartita nell’università, l’istruzione secondaria (classica, tecnica, normale), l’istruzione elementare, gratuita ed articolata in due gradi, inferiore e superiore, della durata di due anni ciascuno.
    La legge era basata sui sistemi scolastici lombardi e piemontesi[7] nell’affidare l’istruzione elementare ai comuni, nello scegliere come asse culturale portante il sistema liceo – università a detrimento di altri ordini di studi, in particolare quello tecnico-professionale, e nell’esaltare l’accentramento e l’uniformità calata dall’alto: ciò metteva in evidenza la volontà di selezionare una classe dirigente ristretta, ma ben preparata, e di fondare la selezione sulla cultura umanistica.
    La legge, ad ogni buon conto, ebbe il merito di essere organica e di essere stata approvata per tempo, ancora prima che l’unità geografica dell’Italia fosse compiuta e, soprattutto, di aver affermato l’obbligo e la gratuità della frequenza: tuttavia, essa non considerò le difformità delle situazioni e i peculiari bisogni socio-culturali ed educativi delle popolazioni locali.
    Questa, peraltro, non fu altro che una scelta speculare del generale orientamento dell’ala conservatrice, che voleva privilegiare i ceti borghesi ed era refrattaria ad intendere il valore essenziale del capitale intellettuale per lo sviluppo dell’Italia, nonché la ricaduta socio-economica di un’istruzione di base più capillare e qualificata[8].
    La cultura del popolo rimaneva purtroppo ristretta ad uno scarno corso che, nella maggior parte dei comuni, non andava oltre il secondo anno di studio, e ad una scuola tecnica costituita solo nei centri più importanti.
    Due forme di scuola quali gli asili infantili, indispensabili per superare la crisi della famiglia operaia dovuta all’occupazione della donna nell’industria, e i corsi professionali, capaci di portare la classe lavoratrice nel vivo dell’attività produttiva e della cultura nazionale, vennero, invece, dallo Stato completamente trascurati[9].
    Questo apparve ancora più grave quando la legge Casati fu allargata alle regioni meridionali e centrali, dove l’analfabetismo era molto diffuso e le condizioni sociali e culturali assai più arretrate.
    Nel Mezzogiorno, infatti, la scuola esisteva solo sulla carta, ed era affidata alla responsabilità di comuni dissestati o dominati da fazioni reazionarie e comunque, dove esisteva, si limitava a raccogliere "per poche ore solo un numero ristretto di fanciulli"[10]; il carico imposto alla scuola di formare lo spirito unitario e di destare le intelligenze apparve, pertanto, subito sproporzionato: la scarsa istruzione non compensava la grande miseria, non cancellava le ingiustizie e le sopraffazioni, non rendeva sopportabili le tasse.
     Con la Legge Coppino, promossa dalla Sinistra "storica"[11] nel 1877, si stabilirono sanzioni per chi evadesse l’obbligo scolastico, specificando che tale obbligo non poteva essere certamente preteso da parte di coloro che non avevano possibilità economiche adeguate per attuarlo, di coloro che fossero ammalati e di quelli, infine, che fossero troppo distanti da una sede scolastica.
      Dunque, ci si impegnava a rendere operante l’obbligo scolastico, almeno per un triennio, dai 6 ai 9 anni di età, si avvertivano miglioramenti, non solo in termini economici, ma altresì in termini di autonomia per i maestri e per i professori e si pose maggiore attenzione ai problemi dell’istruzione tecnica e professionale.
     La legge conferì inoltre un riordinamento dell’insegnamento elementare, prolungato da quattro a cinque anni, di cui erano obbligatori i primi tre, che costituivano il corso inferiore.
     Rispetto alla legge Casati, nei programmi di studio non figurava più la religione, mentre apparivano le "prime nozioni dei doveri dell’uomo e del ‘cittadino".
      La questione in merito fu molto delicata in quanto in seguito divenne materia di contrastanti interpretazioni da parte dei cattolici e dei laici: per gli uni la religione della legge Casati non era abrogata esplicitamente e quindi valeva ancora, per gli altri era sostituita con tali "doveri"[12].
      Dai provvedimenti legislativi, comunque, emergeva che la scuola cercava di fornire, da una parte, la prima forma di assimilazione dei valori cittadini a chi veniva dalla campagna, dall’altra cominciava a sostituire, nei ceti urbani, la cultura artigiana che andava sempre più esaurendosi.
      Inoltre, si cercava di recuperare i ceti subalterni e anche popolari, cercando di fare in modo che la scuola riuscisse ad integrarsi e si impegnasse più organicamente nel passaggio da una società sostanzialmente agricola ad una società in via di sviluppo industriale.
      Questa linea, veniva ribadita non solo dai Programmi e dalle circolari Ministeriali, ma anche e soprattutto, dalla tipologia dei libri scolastici suggeriti ed adottati, che rappresentavano certamente l’operazione più incisiva e accurata volta ad acculturare il popolo sulla base di principi, di ideali e di comportamenti strettamente funzionali agli interessi della classe dirigente[13].
     In Italia, dunque, cominciava a mettersi in moto il processo che nella prima metà del secolo XIX si era manifestato nella maggior parte degli stati: un crescente interesse per l’alfabetizzazione e la scolarizzazione del popolo, che si tradusse, come abbiamo potuto vedere, in disposizioni legislative dirette a riordinare e generalizzare la scuola di base, gestita o controllata dallo Stato.[14]
      Nel periodo immediatamente successivo all’unificazione, l’acculturazione degli strati inferiori della società divenne questione di grande interesse: economisti, politici, proprietari terrieri e in seguito i protagonisti della prima industrializzazione, guidarono l’operazione di conquista culturale delle masse popolari. La borghesia risorgimentale sentiva l’urgenza di conquistare il popolo non tanto a progetti politici di cui essa sola riteneva di poter e dover sopportare il peso quanto ai propositi di rinascita economica e di conquista di quel grado di “civiltà” considerato indispensabile alla fondazione morale del nuovo stato[15].
    Più tardi, nei primi decenni dopo l’Unità, la parte più dinamica e di più larghe vedute della classe dirigente si pose il problema di fondare sulla trasmissione di una serie di comportamenti ispirati ai valori centrali del lavoro e della patria, l’unificazione reale e lo sviluppo industriale del paese.
    Al momento nell’Unità gli analfabeti erano il 74,7%, dopo cinquant’anni, nel 1911, erano il 37,9%[16].
    Un risultato significativo se si pensa che la progressiva sconfitta dell’analfabetismo si accompagnava ad una importante riforma degli atteggiamenti e dei valori della cultura popolare.
   Condurre sui banchi di scuola tre quarti della popolazione e parlare a milioni di fanciulli (e indirettamente alle loro famiglie) posti in condizione di particolare ricettività non poteva rimanere senza conseguenze: i modelli di pensiero e di comportamento trasmessi dalla scuola divennero comunque un valore la cui sfera di influenza andava oltre coloro che ne erano direttamente toccati.
     L’educazione del popolo, pertanto, esigeva preliminarmente la creazione di una ideologia popolare: occorreva un’immagine del popolo che fornisse la base per gli interventi degli educatori e che potesse essere trasmessa al popolo stesso, scissa nelle due figure contrapposte del cattivo e del buon popolano. A questo provvide, in epoca risorgimentale, quella schiera di intellettuali che aderirono alla politica del moderatismo liberale e che provenivano in gran parte dal ceto medio[17].
    Essi attribuirono alla propria posizione sociale una funzione mediatrice tra élites e masse popolari che fece della classe media il modello cui il popolo doveva guardare e contribuì a fissare molte costanti della nuova etica proposta al popolo: moderazione, rispettabilità, equilibrio tra l’aspirazione a migliorarsi e la capacità di accontentarsi di ciò che si ha. Questi modelli, in ogni caso, passarono attraverso una copiosa produzione di giornali, opuscoli divulgativi, testi educativi, che divenne, in seguito, editoria specificamente scolastica.
     I governi postunitari accolsero sostanzialmente questi indirizzi e li tradussero in provvedimenti legislativi (dopo la legge Casati, nuovi Programmi Ministeriali entrarono in vigore nel 1867[18], nel 1888[19], nel 1894[20], nel 1905[21] ), con una preoccupazione costante per i risultati rivelata da altrettanto frequenti inchieste[22] sulla situazione e l’andamento della scolarizzazione. 
     Il libro di testo è forse il materiale che meglio ci permette di ricostruire oggi ciò che effettivamente il maestro insegnava a quel tempo.
     In una scuola che per molto tempo lamentò una tragica povertà, il libro era l’unico strumento di cui non si potesse fare a meno.
    Secondo i programmi del 1860[23] e quelli del 1867 la lettura, la spiegazione e la ripetizione del libro occupavano la maggior parte della lezione.
    L’estensione a tutto il territorio nazionale degli stessi programmi e dei medesimi orientamenti pose le condizioni per il potenziamento del mercato dei manuali destinati soprattutto alle ultime classi elementari: una fonte interessante, ma secondaria per quanto riguarda il formarsi, nella scuola di base, di una nuova etica popolare.
    In seguito, con i Programmi del 1888 comparvero nuovi procedimenti didattici come la ‘lezione di cose’, l’osservazione diretta di oggetti.
  Tuttavia, il libro di lettura rimaneva centrale sia per l’insegnamento di nozioni varie sia per l’opportunità che offriva, attraverso il commento di racconti morali, di suggerire regole sociali di comportamento.
    Nei Programmi del 1894 e del 1905 va sempre più accentuandosi la funzione educativa del libro di lettura e nel 1905 per la prima volta si parla, addirittura, dell’utilità del libro per ‘svegliare la passione’ per la lettura, che comincia ad essere proposta alla scuola come un valore a sé; si suggerisce anche l’opportunità di utilizzare libri di lettura che siano composti di attraente materia narrativa[24].
    Solo più tardi, nel 1923, il libro di lettura sembra perdere la funzione di ammaestramento morale, in quanto gli si chiede di avere valore artistico e di formare il gusto estetico: i libri, infatti, smettono di imporre, di esortare e di presentare il mondo in bianco e nero, e mirano a catturare il lettore con un più delicato intreccio narrativo.
    Due fatti contribuirono allora a far nascere una produzione decisa a tenere conto delle caratteristiche proprie dei lettori della “prima età”: l’interesse che il pensiero degli Illuministi aveva portato al problema dell’educazione come indagine sullo sviluppo dell’intelligenza e della socialità nell’individuo e, dall’altra parte, l’istituzione delle prime scuole pubbliche per le quali parevano indispensabili strumenti didattici nuovi. I primi libri per l’educazione dei “figli del popolo” vanno inseriti nelle molteplici iniziative editoriali (almanacchi[25], letture periodiche, opuscoli) che nel clima culturale del liberalismo moderato risorgimentale si erano rivolte a un pubblico popolare, unendo notizie utili per il lavoro dei campi e la conduzione familiare a esortazioni morali che invitavano all’operosità, al risparmio, alla frugalità.
 
Rosa Fiore*
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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*Laureata in Scienze dell’Educazione, Università Suor Orsola Benincasa, Napoli. Perfezionata in “Consulenza Pedagogica in ambito scolastico ed extrascolastico per adolescenti in situazione di disagio e marginalità”.
[1] Cfr. D. Bertoni Jovine – F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, Editori Riuniti, Roma 1961, p. 9.
[2]Per uno studio sul divario tra Nord e Sud, cfr. G. Ricuperati, Università e scuola in Italia, in Letteratura italiana, vol. I, Einaudi, Torino 1982, pp. 998-999 ma anche cfr. G. Minichiello, Meridionalismo, Ed. Bibliografica, 1997.
[3] Cfr. M. Santoro, Storia del libro italiano, Editrice Bibliografica, Milano 1994, pp. 270.
[4] Sulla legge Casati e sui successivi sviluppi legislativi, cfr. G. Talamo, La scuola dalla legge Casati all’inchiesta del 1864, Giuffrè,Milano 1960; G. Canestri- G. Ricuperati, La scuola in Italia dalla legge Casati ad oggi, Loescher, Torino 1976; E. De Fort, Storia della scuola elementare in Italia. I : Dall’Unità all’età giolittiana, Feltrinelli,  Milano 1979. Per quanto riguarda invece la scuola secondaria, ampi studi si trovano in   T. Tomasi, ( a cura di ) La scuola secondaria in Italia (1859-1977), Vallecchi, Firenze 1978;     L. Ambrosoli, La scuola secondaria, in G. Cives, ( a cura di ), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni, La Nuova Italia, Firenze1990; G. Minichiello, Apprendimento umano, azione formativa e qualità del servizio scolastico, in AA.VV., La cultura del dirigente scolastico, Brescia, La scuola, 2001.
[5] Cfr. G. Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia. Da Casati a Gentile, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 13. La legge Casati ( n. 3725/1859) comprendeva 5 titoli e 379 art., così suddivisi: 46 relativi all’amministrazione della P. I; 141 relativi all’Istruzione superiore (università); 84 relativi all’istruzione secondaria classica; 43 relativi all’istruzione tecnica e 58 articoli in tutto relativi all’istruzione elementare e normale.
[6] Cfr. V. Sarracino E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (1830-1999), Liguori Editore, Napoli 1999, pp. 30-31.
[7] Si rammenta che il quadro dell’istruzione pubblica negli Stati preunitari italiani può essere complessivamente diviso in due grandi aree. Nel Regno di Sardegna, nel Lombardo-Veneto e nel Granducato di Toscana durante la prima metà dell’Ottocento si erano affermate varie spinte innovatrici, con effetti rilevanti sul sistema scolastico, che passano sia attraverso l’iniziativa di istituzioni private e di gruppi di cittadini, sia attraverso quella sello Stato; nello Stato Pontificio e nel Regno delle Due Sicilie la politica dei governanti era stata ispirata da una dichiarata ostilità verso l’istruzione popolare e da una sostanziale diffidenza per qualsiasi idea di ammodernamento del sistema scolastico. A questo proposito cfr. V. Saracino – E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (1830- 1999).
[8] Cfr. M. Santoro, Storia del libro italiano, cit.,  p. 271.
[9] Cfr. D. Bertoni Jovine- F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 10.
[10] Ibidem, p.10
[11] In quello stesso anno si verificò nel Paese una svolta politica che portò al potere la "sinistra liberale", che aveva sconfitto il moderatismo della “destra storica”, i cui governi negli anni Sessanta avevano limitato e frenato l’emergente richiesta d’istruzione proveniente dal Paese. Si trattava, in altri termini, di una vera e propria svolta che avrebbe garantito negli anni avvenire maggiore attenzione ai problemi formativi ed istituzionali delle nuove generazioni. Cfr. in proposito V. Saracino – E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative (1830-1999), cit.
[12] Si veda l’interessante contributo di G. Cives, La scuola elementare e  popolare, in G. Cives, ( a cura di ), La scuola italiana dall’Unità ai nostri giorni.
[13] L’importanza del libro di testo, come strumento di omogeneizzazione culturale, non sfuggiva, infatti, alle autorità scolastiche del Regno: se il corpo insegnante in quei primi anni era stato reclutato senza garanzie culturali ed era eterogeneo tra preti, ex preti che avevano svestito l’abito, garibaldini, poteva sembrare un rimedio necessario quello di cementarne l’opera con la carta dei libri di testo: cfr. M. Raicich, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile, Nistri-Lischi, Pisa 1982, pp. 138-139.
L’uso del libro nella scuola era nato con la scuola stessa. Quando il testo era destinato ad essere studiato a memoria, risultava essere schematico, fatto di definizioni, deduttivo; spesso contava di aiutare col ritmo il ricordo degli alunni, mentre, invece, in versi erano scritti testi di morale e di storia sacra. Nel secolo XVI e nei seguenti troviamo abbecedari, libri di geografia, grammatiche, aritmetiche in versi, poi nel secolo XIX sparisce in gran parte quest’uso, ma i testi, specialmente per le elementari, ebbero un carattere ibrido: non si vedeva bene fino a che punto dovessero servire agli allievi, piuttosto che ai maestri per imparare quello che dovevano insegnare. Le letture, poi, corrispondevano al concetto che dell’educazione avevano gli uomini di scuola di quel tempo: racconti, pertanto, tutti volti a dimostrare i danni della vita immorale. Migliori furono i testi di logica e le grammatiche destinate ai Gesuiti.   Su questo argomento, cfr. G. Cives, Breve storia del libro di testo, in “ Scuola di base”, 1960, maggio-agosto, pp. 3 sgg.
[14] Cfr. M. Bacigalupi-P. Fossati, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’unità alla Repubblica, cit., p. 89
[15] Ibidem, p.89
[16] Cfr. Svimez, Un secolo di statistiche italiane: nord e sud 1861-1961, Roma 1961, p. 175.
[17] Cfr. U. Carpi, Egemonia moderata e intellettuali nel Risorgimento, in Storia d’Italia, Annali, 4, Intellettuali e potere, Einaudi, Torino 1981, pp. 431-471.
[18] I Programmi del 1867 cercarono di conseguire obiettivi realistici impegnandosi a lottare contro l’analfabetismo; inoltre, ribadivano che all’istruzione doveva essere sempre congiunta l’educazione: in altri termini, i fanciulli che uscivano dalla scuola devono essere istruiti e savi. In essi vi è una totale assenza di riferimento all’insegnamento religioso nella scuola elementare.
[19] Con i Programmi del 1888 si passò ad un relativo incremento del numero delle discipline d’insegnamento: dalle tre discipline indicate da Casati (religione, scrittura e aritmetica), si passò alle cinque del 1888 (lingua, scrittura e disegno, geografia, storia e aritmetica), alle sette del 1894 (lingua, scrittura e disegno, storia, geografia, aritmetica, lavori e ginnastica). Questi Programmi rappresentarono senza dubbio un’innovazione politica e pedagogica.
[20] I   Programmi del 1894 di Bacelli presentavano, ma con maggiore attenzione agli aspetti burocratici dell’insegnamento, un enfatico richiamo ai valori del sentimento religioso e a quello dell’onore della nazione italiana. Inoltre andava sempre più accentuandosi la funzione educativa del libro di lettura.
[21] I Programmi del 1905 hanno il merito di insistere sull’importanza della gradualità dell’apprendimento e del rapporto con il mondo in cui il bambino vive. Il libro di lettura era sempre di più al centro dei nuovi programmi.
[22] La legge Casati stabiliva che il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione ogni cinque anni dovesse presentare al Ministro una relazione sullo stato dell’insegnamento pubblico. All’adempimento di quest’obbligo furono legate appunto importanti inchieste ministeriali, i cui materiali, raccolti per fornire una base alla relazione, rappresentano una fonte preziosa di conoscenza. Tra le inchieste assunsero grande rilievo la prima del 1864 e quelle successive del 1867 e del 1907, legate rispettivamente ai nomi di Carlo Matteucci, Vittorio Ravà e Camillo Corradini. Quella che va ricordata è sicuramente la prima, che ebbe come obiettivo quello di verificare i risultati dell’applicazione della legge Casati in tutto il territorio nazionale, soprattutto a livello di istruzione popolare. Da tale inchiesta risultò che il numero delle scuole, dei maestri e degli alunni, rispetto al 1861, era leggermente aumentato, ma rimaneva grande la piaga dell’evasione e dell’assenteismo scolastico, provocati dalle condizioni di miseria delle classi popolari e del fenomeno lavoro infantile.        Cfr.    V. Sarracino- E. Corbi, Storia della scuola e delle istituzioni educative ( 1830-1999), cit.
[23] I Programmi del 1860, annessi al regolamento della legge Casati (R. D. 15 settembre 1860 n. 4336) erano sobri e tutto sommato apprezzabili. Dove il corso era fissato in quattro classi, erano fissati i Programmi A, B, C, D: pertanto, i programmi erano scanditi classe per classe e, all’interno di ciascuna classe, materia per materia. Per quanto riguarda i contenuti si indicavano per la prima classe la Lingua italiana e l’aritmetica, per le classi successive, i programmi davano importanza alla Lettura, voce sotto la quale venivano poste materie come Geografia elementare, Storia nazionale, Scienze fisiche e naturali, ecc.. Cfr. F. V. Lombardi,    I Programmi per la scuola elementare dal 1860 al 1985, La Scuola, Brescia 1987, p. 8 sgg.
[24] Cfr. M. Bacigalupi-P. Fossati, Da plebe a popolo. L’educazione popolare nei libri di scuola dall’unità alla Repubblica, La Nuova Italia, Firenze, 1986, cit.
[25] L’almanacco, considerato inizialmente una rozza stampa per popolani semicolti, con l’Unità diventa un genere di consumo: prodotto da editori o giornali si strutturava sulle attese degli strati urbani, specializzandosi come canale della divulgazione e puntando, oltre che ad un pubblico giovanile, anche al pubblico femminile. Cfr. G. Ragone, Un secolo di libri, Biblioteca Einaudi, Torino 1999, pp. 16-17.

Fiore Rosa

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