L’imputato è da considerarsi condannato nel caso di annullamento con rinvio?

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Il quesito tracciato nell’articolo su indicato, involge un tema assai dibattuto sia dalla giurisprudenza di legittimità sia dalla dottrina.

Com’è noto, l’art. 624 c.p.p. prevede che se “l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata”.

Ebbene, a fronte di quanto statuito da questa norma giuridica, sorge il seguente problema: quando e come si può reputare l’imputato condannato nel caso in cui la Cassazione annulli con rinvio?

Tale questione non rappresenta una questione meramente teorica e di scuola posto che, com’è risaputo, il condannato è destinatario dell’ordine di esecuzione (ex art. 656 c.p.p.), del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti (ex art. 663 c.p.p.) nonché l’unico soggetto che può proporre ricorso straordinario per Cassazione (ex art. 625 bis c.p.p.).

Ciò premesso, sul versante nomofilattico, si registrano diversi indirizzi interpretativi.

Un primo orientamento sostiene che le decisioni della Corte di Cassazione di annullamento con rinvio – non determinando la formazione del giudicato – “non trasformano la condizione giuridica dell’imputato in quella di condannato”[1] laddove sia “stata accertata soltanto la responsabilita’ dell’imputato, ma non e’ ancora stata applicata la pena relativa”[2].

Da questa premessa, la Cassazione è pervenuta alla conclusione secondo cui il giudicato parziale in ordine alla responsabilità dell’imputato, non rappresenta una condizione sufficiente affinchè l’imputato possa considerarsi condannato posto che, la pronuncia irrevocabile di condanna, non è “ancora connotata dall’esaustivita’ la regiudicata per il permanere del residuo potere cognitivo del Giudice di rinvio in ordine alla determinazione della pena a lui devoluta”[3].

Infatti, secondo tale approdo ermeneutico, “la irrevocabilità e la esecutività della sentenza penale di condanna debbono necessariamente riguardare il capo di imputazione nella sua interezza, poichè la realizzabilità della pretesa punitiva dello Stato richiede la formazione di un giudicato di condanna che sia incompatibile con il permanere della qualifica di imputato in capo al soggetto”[4].

La disposizione prevista dall’art. 624 c.p.p., infatti, lungi dal costituire “l’espressione di un principio applicabile al di fuori della specifica situazione dell’annullamento parziale”[5], costituisce semplicemente una previsione legislativa che “detta una regolamentazione particolare, attinente unicamente ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio, e, dunque, è legata indissolubilmente alle peculiari connotazioni delle sentenze della Corte di cassazione ed alla sua “intrinseca irrevocabilità” ”[6].

Difatti, con “l’espressione “giudicato”, la legge non intende riferirsi all’intrinseca idoneità della sentenza ad essere posta in esecuzione”[7], dato che l’ “irrevocabilità può non coincidere con la definitività del “decisum” quando, (…) si sia formato un giudicato (parziale) sulla responsabilità dell’imputato e non è ancora intervenuta la determinazione della pena e quindi la sentenza non è ancora utilizzabile come titolo esecutivo (arg. ex artt. 624, 648, 650 c.p.)”[8].

Del resto, a tali conclusioni ermeneutiche, era già pervenuta la Corte di Cassazione durante la vigenza del Codice Rocco.

Infatti, già a proposito dell’art. 545 del codice di rito del 30, gli Ermellini avevano precisato “che l’intreccio dei limiti ai quali è vincolato il giudice di rinvio «sono tutti riconducibili alla rilevanza ed all’efficacia della sentenza pronunciata dalla Corte di cassazione» e che «gli effetti preclusivi che impediscono al giudice di rinvio di estendere la sua indagine oltre i limiti oggettivi del giudizio a lui affidato non sono in alcun modo assimilabili a quelli che conseguono alla delimitazione del contenuto dei motivi di impugnazione: essi, infatti, sono diretta ed includibile conseguenza dell’irrevocabilità della pronuncia della Corte di Cassazione in relazione a tutte le parti diverse da quelle annullate ed a queste non necessariamente connesse» (Cass., Sez. Un., 23 novembre 1990, A. ed altri, cit.)”[9].

Di talchè è evidente che al fine di appurare se, nel caso di annullamento con rinvio, un imputato debba considerarsi un condannato, occorre risalire alla concreta volontà che i Giudici di legittimità manifestano di volta in volta.

Ad esempio, è evidente che questo status non ricorra, qualora all’interno del corpo del dispositivo, gli Ermellini rimettano al Giudice di rinvio, “la rideterminazione del trattamento sanzionatorio conseguente alle statuizioni di cui sopra” siccome non v’è ancora una pena che possa essere effettivamente irrogata a carico dell’imputato.

Invece, secondo un diverso percorso interpretativo, “la qualità di condannato sussiste anche nel caso di una sentenza di annullamento che rinvii per nuovo giudizio su punti della decisione diversi dalla contestuale conferma dell’affermazione di colpevolezza avvenuta nei gradi precedenti del giudizio di merito, posto che, ai sensi dell’art. 624 c.p.p., comma 1, c.p.p., “la sentenza ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata”[10].

In effetti, a detta di questo indirizzo nomofilattico, nel caso in cui “l’annullamento con rinvio è disposto limitatamente alla necessità di rideterminare il trattamento sanzionatorio”, vi sarebbe un giudicato parziale idoneo per poter considerare l’individuo giudicato come condannato dato che, “ai fini della proponibilità del ricorso straordinario”, è sufficiente che vi sia una “persona nei cui confronti è definitiva l’affermazione di responsabilità penale per un determinato fatto-reato (Sez. 5, sent. 211 del 21.11.2007 – 7.1.2008)”[11].

Soggiunge, sempre tale filone interpretativo, che l’altro indirizzo illustrato in questo breve libello, sarebbe connotato da “molteplici incongruità sistematiche”[12] atteso che “a fronte di un vizio suscettibile di essere rilevato e rimosso subito con lo strumento del ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., occorrerebbe invece attendere il compimento del giudizio di rinvio e la definizione dell’eventuale giudizio di cassazione conseguente (con i possibili ulteriori corsi diversi dalla immediata definizione del processo), per poi giungere all’annullamento della sentenza di annullamento con rinvio, della sentenza del giudice del rinvio e di quella di cassazione sul giudizio di rinvio: il che è assolutamente incompatibile con i principi costituzionali della ragionevole durata e dell’efficienza del processo”[13].

Ebbene, ad umile avviso di chi scrive, tale valutazione argomentativa non è condivisibile giacchè per un verso, il “ricorso straordinario ex art. 625 bis c.p.p., contenente richiesta di correzione dell’errore materiale o di fatto, può avere ad oggetto esclusivamente pronunce di condanna, dovendosi intendere con tale termine l’applicazione di una sanzione penale”[14], dall’altro, seppur in casi particolari, anche la errata applicazione di una pena può costituire un caso di errore rilevante anche ai sensi dell’art. 625 bis c.p.p. .

Infatti, la Corte di Cassazione, partendo dal presupposto secondo il quale, la mancata considerazione di un motivo di ricorso per Cassazione costituisce errore rilevante a norma dell’art. 625 bis c.p.p. allorchè l’omissione abbia avuto carattere decisivo (in quanto la pronuncia non poteva comunque essere diversa da quella adottata)[15], è pervenuta alla conclusione secondo cui, è configurabile un errore di fatto, qualora la mancata valutazione di un motivo da parte del giudice di legittimità abbia ad oggetto “l’entità della pena base”[16].

Sicchè è evidente che, far decorrere i termini per poter esperire il ricorso straordinario senza attendere l’esito del procedimento annullato con rinvio, potrebbe precludere al condannato la possibilità di esperire tale mezzo di impugnazione in relazione alla sentenza con la quale viene comminato successivamente il trattamento sanzionatorio in quanto, per calcolare il termine previsto dall’art. 625 bis c.p.p., si dovrebbe far riferimento alla decisione con cui, in sede di legittimità, è stata affermata la responsabilità penale dell’imputato.

Del resto, a favore del primo orientamento nomofilattico, da tempo si è collocata la Corte Costituzionale la quale ha rilevato, in casi di questo tipo, che:

1.“alla stregua dell’art.624, comma 1, del codice di procedura penale, il giudicato parziale si forma soltanto sui “capi” e non pure sui “punti” della decisione”[17];

2.non può considerarsi formato un giudicato “poiché l’affermazione di responsabilità, ancora sub iudice con riferimento all’entità della sanzione, costituisce soltanto un “punto” all’interno di un singolo “capo” della sentenza”[18];

3.“con l’espressione giudicato la legge non intende, certo, riferirsi all’intrinseca idoneità della decisione ad essere posta in esecuzione” siccome “solo nel caso in cui la parte di sentenza non impugnata dovesse essere eseguita prima dell’esame del ricorso da parte della Corte di cassazione potrebbe prospettarsi – ma solo astrattamente – l’esigenza di non compromettere l’esecuzione della sentenza” [19].

Cosicchè è evidente che la Consulta, in caso di annullamento con rinvio per la determinazione della pena, ritiene la sentenza annullata non ancora definitiva posto che il giudicato non si è ancora formato sul capo della sentenza.

Tra l’altro, tale ricostruzione ermeneutica trova conforto anche a livello scientifico.

Invero, autorevole dottrina sostiene che “in caso di annullamento parziale, il giudizio sarà rinnovato solo con riferimento alle disposizioni della sentenza annullate (…) mentre le altre assumeranno il valore di decisione passata in giudicato (che non significa, tuttavia, eseguibilità della sentenza in ordine alle parti non annullate, poiché l’eseguibilità della sentenza di condanna va posta in relazione alla formazione di un vero e proprio titolo esecutivo, mentre l’autorità di cosa giudicata ad una o più statuizioni contenute nella sentenza di annullamento parziale è correlata esclusivamente all’esaurimento del relativo giudizio): l’autorità di cosa giudicata viene assunta dall’intera res iudicanda, a processo concluso”[20].

Tale posizione dottrinale, peraltro, non rappresenta una posizione isolata nel panorama scientifico, posto che altri studiosi hanno parimenti affermato che:

1.deve reputarsi condivisibile “l’orientamento secondo il quale, in caso di impugnazione parziale, il giudicato si forma quando i punti della decisione oggetto del gravame « sono definiti dal giudice dell’impugnazione e le relative statuizioni non sono censurate con ulteriori mezzi di gravame: soltanto in presenza di tali inderogabili condizioni deve considerarsi realizzata la consunzione del potere di decisione del giudice dell’impugnazione”[21];

2.“se soltanto il c.d. capo della sentenza (a differenza dei c.d. punti) è suscettibile di un’autonoma decisione, è solo con riferimento al capo della sentenza che si può parlare di giudicato come di accertamento di una situazione giuridica. Viceversa, se riguardo ai punti non è invocabile alcuna autorità di giudicato, quando la stessa (come nello specifico) viene impropriamente richiamata nel testo di legge, non può che collegarsi ad una volontà di precluderne ogni ulteriore valutazione”[22];

3.la disposizione di cui all’art. 624, comma 1, c.p.p. sembra ““porre al giudice di rinvio una mera preclusione processuale al riesame delle parti della sentenza non annullata rispetto alle quali il giudicato sostanziale si forma non immediatamente ma al momento della chiusura definitiva del processo; ossia «nel metaforico istante nel quale la soluzione delle vecchie questioni precluse si combina con quella escogitata dal giudice di rinvio sui temi riaperti dalla pronuncia della Corte e da questa somma logica viene fuori l’accertamento»”[23];

4. alla luce della nomofilattica prevalente, si deve intendere per “giudicato” “non la definizione di un accertamento giudiziale, bensì solo un “esaurimento del potere decisorio” o l’individuazione di “aspetti non più suscettibili di riesame” ”[24];

5.la “nozione di giudicato accolta in Costituzione è una nozione unitaria e che coincide con il totale esaurimento, per intervenuta decisione sul punto, di ogni e qualsiasi doglianza che in effetti sia stata avanzata al giudice dell’impugnazione, senza alcuna distinzione tra pronuncia sul fatto e la responsabilità e pronuncia sulla pena”[25].

Quindi, in conclusione, è evidente che il condannato possa considerarsi tale solo laddove il trattamento sanzionatorio sia determinato in via definitiva.

Infatti, solo a partire da questo momento, la persona condannata potrà esperire ricorso straordinario per Cassazione ovvero potrà essere destinataria dell’ordine di esecuzione di una singola pena (ovvero di pene concorrenti).

Tuttavia, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite ha aderito recentemente ad un diverso indirizzo interpretativo.

Infatti, nell’arresto giurisprudenziale del 21/06/12 (dep. il 17/07/12), le Sezioni Unite, con la sentenza n. 28717, nell’affermare il principio di diritto secondo cui “deve ritenersi legittimata alla proposizione del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto anche la persona condannata con sentenza annullata con rinvio in relazione alla sussistenza di una circostanza aggravante”, ha stabilito che, qualora il giudizio debba proseguire in sede di rinvio soltanto agli effetti della determinazione del trattamento sanzionatorio:

1) “deve ritenersi ontologicamente venuta meno la presunzione di non colpevolezza, essendo stata quest’ultima accertata con sentenza ormai divenuta definitiva sul punto”;

2) deve considerarsi, alla stregua del medesimo parametro costituzionale, “trasformata la posizione dell’imputato in quella di condannato, anche se a pena ancora da determinare in via definitiva”.

Ebbene, tale approdo ermeneutico, a modesto avviso dello scrivente, non è condivisibile dato che il fatto – reato per un verso, e la pena dall’altro, non rappresentano due entità giuridiche distinte l’una dall’altra, ma sicuramente determinano diverse co-interessenze in sede penale.

Ad esempio, come già esposto in precedenza, la mancata determinazione della pena fa sì che la sentenza non sia ancora utilizzabile come titolo esecutivo e, com’è risaputo, se non c’è un titolo esecutivo, non si può “parlare” di una sentenza di condanna.

Del resto, se è vero, come indicato in questo obiter dictum, che non può essere confusa “la eseguibilità di una sentenza di condanna con l’autorità di cosa giudicata”, è altrettanto vero che, in alcuni casi, la cosa giudicata determina l’eseguibilità di una sentenza solo ove sia “totale” e non solo “parziale”.

Ad esempio, com’è risaputo, quando ricorrono due o più circostanze tra quelle indicate dall’articolo 625, 624 bis del codice penale, la sospensione dell’esecuzione della pena “non può essere disposta” (art. 656, co. IX, lett. a), c.p.p.).

Altrettanto non condivisibile, sempre ad umile avviso di chi scrive, l’altro assunto ivi sostenuto secondo il quale “attendere l’espletamento del giudizio di rinvio e la definizione dell’eventuale giudizio di cassazione, con possibili ulteriori sviluppi, per poi giungere all’annullamento dell’originaria pronuncia rescindente, della sentenza del giudice di rinvio e di quella di cassazione sul giudizio di rinvio”, sarebbe “disfunzionale rispetto al parametro della durata ragionevole e della efficienza del processo”.

In effetti, tale passaggio argomentativo non tiene conto del fatto che si potrebbe, in estrema ipotesi, addivenire ad un conflitto pratico fra giudicati laddove, ad esempio, il giudice a cui viene rinviato il procedimento, riconosca l’esistenza dell’aggravante (e, quindi, per forza di cose, anche del fatto-reato) mentre i Giudici di cassazione, ai sensi dell’art. 625 bis, c.p.p., riconoscano l’insussistenza del reato.

In questo caso, sarebbe sufficiente l’adozione, ai sensi dell’art. 625 bis, co. IV, c.p.p., dei provvedimenti necessari per correggere l’errore?

E, se nelle more, l’altro procedimento si dovesse concludere in via definitiva (o perchè non impugnato in Cassazione o perchè già trattato in sede di legittimità), si potrà ancora parlare, argomentando a contrario, dell’opzione interpretativa tracciata dalle Sezioni Unite come quella davvero più rispondente alle esigenza di efficienza e ragionevole durata del processo?

Lo scrivente, in conclusione, pertanto, nonostante tale recente arresto nomofilattico, ritiene l’altro indirizzo interpretativo preferibile.

 

[1]Cass. pen., sez. V, 16/07/09, n. 40171.

[2] Ibidem.

[3] Cass., sez. un., 26/3/1997, Attina’; sez. un., 19/1/2000, Tuzzolino.

[4] Cass. pen., sez. I, 15/06/07, n. 24659.

[5] Cass. pen., sez. un., 19/06/00, n.1.

[6] Ibidem.

[7] Cass. pen., sez. un., 26/03/97, n. 4904.

[8] Ibidem.

[9] Ibidem.

[10] Cass. pen., sez. VI, 8/06/10, n. 25977.

[11] Ibidem.

[12] Cass. pen., sez. VI, 8/06/10, n. 25977.

[13] Ibidem.

[14] Cass. pen., sez. V, 23/09/05, n. 45937.

[15] Argomentando a contrario: Sezioni unite 27/3/02, Basile.

[16] Cass. pen., sez. I, 10/02/10, n. 15422.

[17] Corte Cost., 30/10/96, n. 367.

[18] Ibidem.

[19] Ibidem.

[20] AAVV, “Procedura Penale”, “Il ricorso per cassazione” di Alfredo Gaito, Torino, G. Giappichelli Editore, 2010, pagg. 808 – 809.

[21] Paola Sechi, “NULLITÀ ASSOLUTE E DURATA RAGIONEVOLE DEI PROCESSI: PRASSI APPLICATIVE E RIFLESSIONI DE IURE CONDENDO”, Riv. It. dir. e proc. pen., 2009, 01, 250.

[22] LEONE, Manuale di diritto processuale penale, Iovene, Napoli, 1985, p. 699; LEONE, Trattato di diritto processuale penale, vol. III, Iovene, Napoli, 1961, p. 235.

[23] CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 2003, p. 795.

[24] Filippo Raffaele Dinacci, “LA RINNOVAZIONE DELL’ISTRUTTORIA DIBATTIMENTALE NEL GIUDIZIO DI RINVIO”, Cass. pen. 2007, 09, 3500.

[25] Consiglio Superiore della Magistratura, IX Commissione: Tirocinio e Formazione Professionale, Incontro di studio sul tema: Il giudicato penale: profili costituzionali e di diritto comparato, Avv. Prof. Fabrizio Corbi, tratto dal sito internet: http://www.progettoinnocenti.it/dati/376CSM%20LA%20REVISIONE%20PENALE.pdf.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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