L’evoluzione del diritto processuale penale attraverso la progressiva affermazione del principio del contraddittorio. Eccezioni e resistenze della giurisprudenza alla (piena) attuazione del modello adversary (Commento a Cass. – Sez. V – Ud. 18 marzo 2005

Liuzzi Sara 06/07/06
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SOMMARIO: 1. La vicenda. – 2. Ratio e regime delle notificazioni degli atti di appello incidentale. – 3. I profili di (il)legittimità costituzionale del richiamato art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p..
 
 
1. La vicenda. – Con sentenza del 10 dicembre 2002 il Giudice dell’Udienza Preliminare presso il Tribunale di Taranto, a seguito di giudizio abbreviato, riteneva D.L. colpevole del delitto di omicidio preterintenzionale e, per l’effetto, lo condannava alla pena di anni quattro, mesi cinque e giorni dieci di reclusione, nonché al risarcimento del danno patito dalla costituita parte civile, omettendo tuttavia di liquidarlo e rigettando l’avanzata richiesta di riconoscimento di una provvisionale.
La sentenza sopra richiamata veniva impugnata, oltre che dalla difesa dell’imputato, incidentalmente anche dalla costituita parte civile, la quale depositava presso la cancelleria del giudice procedente, ai sensi dell’art. 582 c.p.p., atto di “dichiarazione di appello e contestuale motivazione”.
Il gravame non veniva però notificato né all’imputato né ai suoi difensori che, invece, apprendevano dell’esistenza dell’appello incidentale soltanto nel corso dell’udienza svoltasi presso la Corte di Assise d’Appello e, segnatamente, in occasione della relazione compiuta dal suo presidente.
La difesa dell’imputato rappresentava allora di non aver mai ricevuto notifica dell’appello della parte civile e ne eccepiva nell’immediatezza l’irritualità per le suddette ragioni.
All’esito dell’udienza, tuttavia, l’adìta Corte, tralasciando ogni pronuncia sulla sollevata questione di rito, confermava l’impugnata sentenza ed accoglieva i motivi di doglianza della parte civile, ponendo a carico dell’imputato l’obbligo di corrispondere una provvisionale.
Il pronunciato disposto trovava infine conferma ed irrevocabilità con la sentenza n. 42600 del 18 marzo 2005, con cui la Corte di Cassazione rigettava il ricorso proposto dall’imputato e dichiarava manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 591, comma 1, lett. c), c.p.p., in relazione agli artt. 24, comma 2, e 111, commi 2-3-4, Cost., anch’essa eccepita dalla difesa dell’imputato in considerazione del fatto che la richiamata norma del codice di rito non estende l’inammissibilità dell’impugnazione anche allorché non siano osservate le disposizioni di cui all’art. 584 c.p.p. (Notifica alle altre parti).
 
2. Ratio e regime delle notificazioni degli atti di appello incidentale.– La relazione preliminare al codice di procedura individua la finalità specifica dell’appello incidentale nell’esigenza di arginare la proliferazione degli appelli come strumenti meramente dilatori[1], consentendo alla parte che, in una valutazione globale della sentenza, ritenga accettabili le statuizioni sfavorevoli in considerazione di quelle favorevoli, di astenersi dal proporre impugnazione in attesa del comportamento della parte avversa, analogamente a quanto previsto nel processo civile[2].
Eloquente appare, a tal fine, il fatto che l’art. 595 c.p.p. riconosca il potere di proporre appello incidentale ad ogni “parte”, siccome previsto – quanto alle impugnazioni proposte in via principale – anche dall’art. 568 c.p.p..
Tale riconoscimento nel suo concreto e valido esercizio incontra, occorre precisarlo, presupposti e condizioni specifiche.
La dipendenza genetica dell’appello incidentale dall’appello principale fa discendere, infatti,  non solo che l’uno non è azionabile senza che sia stato proposto validamente l’altro, ma che il gravame incidentale viva di riflesso rispetto all’insorgere ed all’instaurarsi dell’impugnazione principale.
Invero, la carenza di legittimazione o di interesse ad impugnare, l’inoppugnabilità del provvedimento impugnato, l’inosservanza delle forme prescritte o il mancato rispetto dei termini costituiscono fenomeni impeditivi per il sorgere di un valido rapporto processuale di impugnazione, sicchè la declaratoria di inammissibilità dell’appello principale, retroagendo al momento della costituzione (fittizia) del rapporto, inficia anche quello incidentale.
Un ruolo fondamentale nella struttura dell’istituto di cui all’art. 595 c.p.p. gioca la comunicazione o notificazione dell’atto d’impugnazione, disciplinata dall’art. 584 c.p.p.: soltanto in tal modo, infatti, la parte che si era astenuta viene avvertita del cambiamento della situazione processuale, sì da essere messa nelle condizioni di proporre l’appello incidentale.
Proprio per questa ragione, d’altronde, la S. C. ha ritenuto (e ribadito con la commentata sentenza) che “l’omessa notifica alla parte privata dell’impugnazione proposta da altra parte non dà luogo all’inammissibilità del gravame”, ma esclude la “decorrenza del termine per la proposizione di eventuale appello incidentale”[3].
 
3. I profili di (il)legittimità costituzionale del richiamato art. 591 comma 1 lett. c) c.p.p..
Quidi iuris, invece, nell’ipotesi in cui l’omessa notifica concerna l’appello incidentale?
Le questioni di inammissibilità, prima, e di legittimità costituzionale, poi, sollevate nella vicenda al vaglio rappresentano un’occasione interessante per approfondire e comprendere il senso e le finalità concrete delle regole poste a fondamento del regime delle notificazioni degli atti di appello incidentale, con particolare riguardo alla novella introdotta dalla L. Cost. 2/99 che, modificando l’art. 111 Cost., ha contribuito ad estendere le guarentigie a tutela dell’imputato, nonché alla successiva L. 63/2001 sul c.d. “giusto processo”.
Una lettura storico-sistematica della disciplina in oggetto obbliga innanzitutto a considerare come, a differenza dell’attuale codice, che non comprende l’omessa notifica dell’atto d’impugnazione fra le ipotesi d’inammissibilità del gravame, espressamente e tassativamente elencate dall’art. 591, l’art. 199 bis del pre-vigente c.p.p. ***** prevedeva che la dichiarazione di impugnazione del pubblico ministero fosse notificata all’imputato, a pena di inammissibilità, entro trenta giorni dalla sua proposizione;l’art. 202, comma secondo, dello stesso c.p.p. del 1930 poneva poi a carico della parte impugnante la sentenza per i soli interessi civili l’onere di far notificare la relativa dichiarazione alle altre parti entro tre giorni, termine – quest’ultimo – previsto “a pena di decadenza”.
In altri termini, già l’impostazione sancita in materia de qua dal pre-vigente codice di rito penale era più garantistica di quella attuale.
Inoltre, nonostante l’essenziale funzione di garanzia sottesa alla notifica degli atti d’impugnazione, essa non è stata finora tenuta in debito conto neanche dalla giurisprudenza.
Con la commentata sentenza, infatti, la S.C. di Cassazione, nel riprendere il principio già in precedenza affermato dalle Sezioni Unite, per cui: “l’omessa notifica alla parte privata dell’impugnazione proposta da altra parte non dà luogo all’inammissibilità del gravame, ma solo all’obbligo della cancelleria di provvedere alla notifica non eseguita”, ha ritenuto insussistente la “prospettata compressione delle prerogative difensive” e, per l’effetto, manifestamente infondata l’eccepita questione di illegittimità costituzionale[4].
L’analisi di tale sentenza, che pare tesa più nello sforzo di superare un ostacolo formale ad una pronuncia di piena efficacia nel merito, che ad affrontare compiutamente un vuoto normativo, sotto il profilo sanzionatorio, della norma processuale, rende tuttavia necessaria la sua comparazione con i principi posti dal legislatore del 1999 a fondamento del cosiddetto “giusto processo”. Tale – infatti – è “il processo che si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale”.
Il contraddittorio, inteso come capacità delle parti di rappresentare al giudice le proprie ragioni e difendersi dalle accuse sostenute dalle altre, integra la regola fondante della dialettica dibattimentale, che vede le parti fra loro contrapposte nell’intento di influire, con le loro argomentazioni, nella formazione del giudizio[5].
Esso, tuttavia, come già affermato precedentemente dalla più sensibile giurisprudenza e come in seguito esplicitamente sancito dall’art. 111 Cost., vive uno sviluppo ben più complesso della mera esposizione al giudice delle ragioni delle parti, prevedendo stadi e momenti attraverso i quali si esplica la sua effettiva realizzazione.
Ed infatti, “chi partecipa al contraddittorio, per poter rappresentare, deve disporre di mezzi di rappresentazione, e per reperire tali mezzi deve essere adeguatamente e preventivamente informato”[6].   
 Pertanto, il diritto riconosciuto all’imputato di “difendersi provando” e “contrastando” le pretese avverse non può non transitare dall’esigenza “che all’imputato o al condannato sia assicurata l’effettiva conoscenza degli atti essenziali al fine del procedere”[7].
Le suesposte esigenze impongono di ritenere che anche l’atto di impugnazione proposto al solo fine di tutelare gli interessi civili derivanti dal reato debba considerarsi un “atto essenziale” del processo, soltanto la cui conoscenza consente validamente all’imputato di partecipare al contraddittorio sugli specifici aspetti ad esso connessi ed esercitare così – non formalmente, bensì concretamente ed efficacemente – il diritto di difesa, inviolabile in ogni stato e grado del giudizio, che gli è riconosciuto dalla Carta Costituzionale.
L’urgenza appena esplicitata non trova, di converso, valido soddisfo nella generica enunciazione della possibilità riconosciuta a ciascuna parte di prendere visione di propria iniziativa degli atti di impugnazione eventualmente proposti ex adverso, né nella possibilità di interloquire a proposito “attraverso il contraddittorio instaurato nel giudizio di secondo grado”[8].
L’enucleazione di simili argomenti, ridotti a mera petizione di principio, atteso l’evidente contrasto con l’applicazione concreta della norma in esame, trascura infatti di considerare che l’efficace attuazione dei principi del giusto processo è, innanzitutto, diritto di disporre del tempo necessario a preparare la difesa e baluardo interpretativo proteso a garantire nel completo esplicarsi del processo penale la corretta amministrazione della giustizia a garanzia dei diritti inderogabilmente sanciti dalla Costituzione e dalle Convenzioni sovranazionali a tutela di “chiunque sia sottoposto a procedimento penale”.
 
                                                                                                                         ***********
                                                                                                                     Foro di Taranto


Cass. – Sez. V – Ud. 18 marzo 2005 (dep. 24 novembre 2005) n. 42600 – Pres. *********            – Rel. Di Popolo – P.M. Padrone (concl. conf.).
 
Eccezione di nullità della sentenza per omessa notifica all’imputato dell’appello           proposto dalla parte civile – Insussistenza – Questione di legittimità costituzionale         dell’art. 584 c.p.p. – Manifesta infondatezza.
   (****** art. 584).
Omicidio preterintenzionale – Irragionevolezza della pena edittale – Questione di        legittmità costituzionale – Manifesta infondatezza.
   (C.p. art. 584).
Coscienza e volontà dell’azione – Reato commesso in stato di dormiveglia –      Irrilevanza ai fini della punibilità.
   (C.p. art. 42).
 
   La prima questione finisce per contestare, per addotti profili di incostituzionalità, la legittimità dell’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi in Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2003, n. 12878, RV 223724 (che ha ribadito che l’omessa notificazione alla parte privata dell’impugnazione proposta da altra parte non dà luogo all’inammissibilità del gravame, ma solo all’obbligo della cancelleria di provvedere alla notifica non eseguita), prospettandone effetti di “illegittima compressione dei diritti costituzionali alla difesa … ed al contraddittorio” e deducendo la concreta rilevanza della questione nella specifica fattispecie processuale di accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile.
La manifesta infondatezza dell’eccezione è immediatamente rivelata dalla effettiva insussistenza della prospettata compressione delle prerogative difensive, evidenziata dal corollario giurisprudenziale ribadito, che ha considerato che l’omissione della notificazione comporta effetti di mancata decorrenza del termine per la proposizione di eventuale appello incidentale e, in ogni caso, non può determinare alcun pregiudizio al riguardo per richieste espressamente enunciate nell’atto di gravame.
   Ed è parimenti connotata da manifesta infondatezza la questione sollevata dal Procuratore Generale, che ha sostanzialmente rappresentato, in profili di illegittimità costituzionale, l’ingiustificata previsione differenziata della pena minima edittale del reato di cui all’art. 584 c.p. rispetto a quella indicata per il reato di cui all’art. 586 c.p. e ciò perché, nell’apparenza della denunziata illegittimità costituzionale, si finisce per contestare l’assoluta ed incontestabile discrezionalità legislativa, correlata anche a sottese opzioni di tipo “politico”, concretamente intangibili ed incensurabili per le ragioni venute in rilievo nella determinazione di regimi sanzionatori legali differenziati, come previsti per fattispecie criminose apparentemente similari.
   Per il primo motivo (che prospetta, in punto di fatto, uno stato di “dormiveglia” dell’imputato, rilevante per escludere coscienza e volontà dell’azione contestata ed accertata) rileva che la situazione addotta non integra oggettivamente gli estremi di una condotta inesigibile ai sensi del primo comma dell’art. 42 c.p., come ipotizzato dai precedenti giurisprudenziali richiamati dal ricorrente per la differente fattispecie di azione realizzata da agente trovatosi in condizione di sonno fisiologico.
 
   FATTO E DIRITTO. – L’adita Corte di assise di appello ha confermato la sentenza del G.U.P. presso il Tribunale di Taranto (riformata soltanto con ulteriore statuizione di attribuzione di provvisionale in favore della parte civile costituita), emessa, all’esito di giudizio abbreviato, in data 10 dicembre 2002, di condanna di D. L. alla pena di giustizia per il contestato omicidio preterintenzionale del piccolo A. V., figlio di M. P., “convivente” appunto dell’imputato.
   Il fatto è stato ricostruito come verificatosi nella mattinata del 21 agosto 2000, quando il piccolo V. era stato accompagnato dal D. e dalla P. al presidio ospedaliero di *************, laddove era stato riscontrato “arresto cardiocircolatorio con midiasi fissa, lieve ematoma regione frontale sx.” ed era stato disposto il trasferimento all’ospedale di Massafra (il bambino vi era giunto cadavere mentre nell’occasione il D. aveva riferito ai Carabinieri intervenuti – che ne avevano rilevato lo stato di agitazione – di aver dato al bambino uno “schiaffo”, senza volere, per reazione infastidita ad un “graffio”).
   La sentenza impugnata riporta, in particolare, le risultanze delle immediate attività investigative, con riferimento alle precisazioni fornite dall’imputato (“era sdraiato sul letto, in stato di dormiveglia … il piccolo ad un certo punto, si era avvicinato al suo letto, tirandogli i capelli e dandogli dei pizzicotti … mollava uno schiaffo al bambino, con l’intento di farlo smettere”), espone le modalità delle misure cautelari personali adottate a carico del D.; riferisce le risultanze degli accertamenti medico – legali.
   Rileva poi che la sentenza di primo grado ha, in particolare, correttamente valutato le risultanze degli accertamenti peritali (che hanno ricollegato gli esiti letali della caduta – con impatto “violento ed inaspettato” – alle modalità imprevedibili della rapida iniziativa del D., “nel senso che il piccolo non è riuscito a prepararsi alla caduta”), desumendone anche la corretta qualificazione giuridica del fatto contestato e l’esclusione di ipotesi di “aberratio delicti” rilevante ai sensi degli artt. 83 e 586 c.p., ovvero di reato ascrivibile alla fattispecie di cui all’art. 571 c.p..
   La stessa sentenza, a confutazione delle questioni sollevate dall’imputato appellante, ha poi considerato che:
– le dichiarazioni variamente rilasciate dall’imputato hanno sempre espresso “una chiara, piena e … onesta confessione in ordine allo schiaffo inferto al bambino” (col supporto degli ulteriori elementi probatori acquisiti resta così confermato che “il piccolo A., prima di cadere per terra … era stato colpito con un “ceffone” al viso per mano del D. … (che) non gradiva i ripetuti e sicuramente affettuosi tentativi … per svegliarlo attraverso pizzicotti al viso e innocui graffi”, oltre che “quello schiaffo, inferto senza nemmeno una particolare violenza e sicuramente senza cattiveria, determinò, per effetto di una dinamica perversa, l’esito letale” in conseguenza della inconsulta “caduta all’indietro” nelle modalità ipotizzate dalla ricostruzione peritale, che ha evidenziato la sussistenza del nesso di causalità con la condotta posta in essere dall’imputato);
– né rileva la questione sollevata in ordine al difetto di dolo in una iniziativa istintiva determinata dal “solo fine di allontanare (il bambino), senza alcuna intenzione di colpirlo, rilevando invece al riguardo che, per il reato ritenuto di omicidio preterintenzionale, certamente l’imputato abbia avuto piena coscienza “di infliggere una sofferenza fisica, se pur lieve, alla vittima” per quanto ricollegata al fine di “dissuaderla dal reiterare le sue azioni di disturbo”, e che, tra “una vasta gamma di possibilità”, abbia “scelto” proprio quella di “mollare un ceffone” e, cioè, di dar luogo a delitto di percosse (che, quale conseguenza non voluta, ha provocato la caduta all’indietro di A. V. ed i connessi effetti letali di “arresto cardio – respiratorio acuto secondario a trauma vertebro – midollare del tratto toraco lombare”);
– in tal modo è rimasta comprovata la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto contestato ai sensi dell’art. 584 c.p., posto che la condotta integrante “l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 581 c.p., ha cagionato, con rapporto di stretta causalità rispetto all’evento, la morte del piccolo”, in conformità dei richiamati principi giurisprudenziali, che in materia hanno accreditato da un lato la configurabilità del reato di cui all’art. 586 c.p. quando invece la morte si ponga come conseguenza di un delitto doloso diverso dalle lesioni o dalle percosse e, dall’altro, hanno reso ipotizzabile la fattispecie criminosa di cui all’art. 571 c.p. soltanto in situazione di abuso di mezzi di correzione sostanzialmente leciti.
   Il ricorrente denuncia che, in tal modo, la sentenza impugnata è inficiata:
1 – violazione della disciplina di cui all’art. 42 – 1° co. – c.p. e da connesse carenze del procedimento argomentativo, che ha omesso la valutazione della rilevanza della riconosciuta situazione psichica di “dormiveglia”, assimilabile, per la natura automatica della condotta “di riflesso”, al sonno determinativo di “azione priva di coscienza e volontà”;
2 – violazione della disciplina di cui all’art. 45 c.p., anche in profili di carenze motivazionali del diniego del rilevo esimente di una dinamica fattuale delle conseguenze della condotta assolutamente imponderabile ed imprevedibile;
3 – analoghi vizi della accreditata qualificazione giuridica della concreta fattispecie, propriamente riferibile alla previsione di cui all’art. 586 c.p., corrispondente al riconosciuto proposito dell’agente, inteso esclusivamente ad “allontanare da sé il bambino” ed avulso dalla rappresentazione (anche “minima”) della “possibilità di ulteriori tragiche conseguenze”;
4 – analoghi vizi per violazione dell’art. 584 c.p.p., non essendosi rilevato l’eccepito difetto di notificazione dell’atto di appello depositato dalla parte civile, così inammissibile anche per palese violazione dei diritti correlativi alla difesa ed al contraddittorio (e al riguardo ha anche esplicitato, con la memoria difensiva depositata all’udienza dinanzi a questa Corte, questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 24 – co. 2°- e 111, co. 2° – 3° – 4° – Cost., dell’art. 591 co. 1° lett. c) che “non prevede l’inammissibilità dell’impugnazione anche quando non sono osservate le disposizioni di cui all’art. 584 c.p.p.).
   Viene in rilevo preliminare l’esame delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispettivamente, dal difensore dell’imputato e dal P.G., che risultano manifestamente infondate.
    La prima questione finisce per contestare, per addotti profili di incostituzionalità, la legittimità dell’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi in Cass., Sez. Un., 29 gennaio 2003, n. 12878, RV 223724 (che ha ribadito che l’omessa notificazione alla parte privata dell’impugnazione proposta da altra parte non dà luogo all’inammissibilità del gravame, ma solo all’obbligo della cancelleria di provvedere alla notifica non eseguita), prospettandone effetti di “illegittima compressione dei diritti costituzionali alla difesa … ed al contraddittorio” e deducendo la concreta rilevanza della questione nella specifica fattispecie processuale di accoglimento dell’impugnazione proposta dalla parte civile.
   La manifesta infondatezza dell’eccezione è immediatamente rivelata dalla effettiva insussistenza della prospettata compressione delle prerogative difensive, evidenziata dal corollario giurisprudenziale ribadito, che ha considerato che l’omissione della notificazione comporta effetti di mancata decorrenza del termine per la proposizione di eventuale appello incidentale e, in ogni caso, non può determinare alcun pregiudizio al riguardo per richieste espressamente enunciate nell’atto di gravame.
   Ed è parimenti connotata da manifesta infondatezza la questione sollevata dal Procuratore Generale, che ha sostanzialmente rappresentato, in profili di illegittimità costituzionale, l’ingiustificata previsione differenziata della pena minima edittale del reato di cui all’art. 584 c.p. rispetto a quella indicata per il reato di cui all’art. 586 c.p. e ciò perché, nell’apparenza della denunziata illegittimità costituzionale, si finisce per contestare l’assoluta ed incontestabile discrezionalità legislativa, correlata anche a sottese opzioni di tipo “politico”, concretamente intangibili ed incensurabili per le ragioni venute in rilievo nella determinazione di regimi sanzionatori legali differenziati, come previsti per fattispecie criminose apparentemente similari, come è stato già ritenuto – sentenza della Corte Cost. n. 162/1981 – proprio in riferimento alle pene edittali previste per il reato di cui all’art. 584 c.p. e per la fattispecie considerata nell’art. 18 – co. 2° e 4° – della Legge n. 194/1978 sull’interruzione di gravidanza.
   I motivi esposti a sostegno del ricorso risultano destituiti di fondamento (e di ciò rende immediata ragione il premesso diffuso richiamo alle risultanze processuali e probatorie, che, esaminate coerentemente e compiutamente, hanno comportato incensurabile e corretta affermazione di sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato ex art. 584 c.p. e di correlativa colpevolezza del D).
   Vale soltanto aggiungere che:
– per il primo motivo (che prospetta, in punto di fatto, uno stato di “dormiveglia” dell’imputato, rilevante per escludere coscienza e volontà dell’azione contestata ed accertata) rileva che la situazione addotta, neppure incontestabilmente comprovata nella sua effettiva consistenza, non integra oggettivamente gli estremi di una condotta inesigibile ai sensi del primo comma dell’art. 42 c.p., come ipotizzato dai precedenti giurisprudenziali richiamati dal ricorrente per la differente fattispecie di azione realizzata da agente trovatosi in condizione di sonno fisiologico;
– per il secondo motivo rileva che correttamente è stata esclusa la configurabilità del caso fortuito, determinativo della non punibilità prevista dall’art. 45 c.p. in favore dell’imputato, del quale incensurabilmente è stata evidenziata la rilevante commissione di fatto rilevante ai sensi dell’art. 58 c.p. (e ad essa è direttamente conseguita, nelle ricostruite modalità fenomenologiche, la morte del piccolo V.);
– in tal modo resta evidenziata anche l’infondatezza del terzo motivo, che ripropone la questione di diversa qualificazione del fatto nei termini della fattispecie criminosa di cui all’art. 586 c.p. (l’ineccepibile ed incensurabile confutazione della questione, come argomentata nella sentenza impugnata e corrispondente a principi normativi e giurisprudenziali – fino a Cass. 23 marzo 1990, ******* – , è correttamente ancorata al riscontro dell’accertamento del fatto determinativo della morte del V., non voluta dall’agente, ma direttamente correlata, nella descritta ricostruzione della tragica sequenza eziologica -, ad atto diretto a commettere il reato di percosse e non, come previsto dall’art. 586 c.p., ad attività diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse e dalle lesioni personali, posto che l’intento perseguito dall’agente non rileva ad escludere la rilevanza oggettiva anche della semplice “spinta” addotta e della contestuale consapevolezza ad integrare la configurata sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 581 c.p.;
– l’infondatezza del quarto motivo resta evidenziata dal richiamo delle considerazioni argomentative della manifesta infondatezza della prospettata incostituzionalità dell’art. 584 c.p.p. e, conseguentemente, dell’art. 591 lett. c) c.p.p..
   Alla pronuncia di rigetto dell’impugnazione consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
   La Corte di Cassazione dichiara manifestamente infondate le proposte questioni di legittimità costituzionale;
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
 
 
 


[1] Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, in Suppl. ord. N. 2 della G.U. del 24.10.1988 p. 125.
[2] *********, Corso di diritto processuale civile, 1988, vol. II, p. 318; G. VERDE, Profili del processo civile, vol. 2, 2° ed., Napoli, pp. 227 ss..
            [3] Cass., *****, 29.1.2003, n. 12787, *********, in Cass. pen. 2003, p. 1829, nota (*****).
[4] Cass. Pen., sez. V, 18.3.2005 – 24.11.2005, n. 42600.
[5] A.A. ***** – ************, Manuale di diritto processuale penale, 4° ed., p. 134; A. NAPPI, Guida al             codice di procedura penale, 7° ed., pp. 8 ss.; *********, Manuale di procedura penale, 2° ed., pp. 10 ss..
[6] R. ERRICO, tratto dalla memoria difensiva depositata presso la Corte di Cassazione per l’udienza del 18/03/2005 nella quale si sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 591, comma 1 lett. c) c.p.p. in riferimento agli artt. 24, comma 2 e 111, comma 2, 3, 4 Cost..
[7] Cfr., ex pluribus, Corte Cost., 17.12.1987 n. 519, in Giur. cost., 1987, fasc. 12, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 579, comma 1, c.p.p. nella parte in cui, riferendosi al ricorso del pubblico ministero, disponeva: “Tale ricorso non è notificato all’interessato”; nonché Corte Cost. 13/11/1985 n. 280, in Cass. Pen., 1985, fasc. 12, dichiarativa dell’illegittimità costituzionale dell’art. 666, quinto comma, c.p.p. nella parte in cui non disponeva che il decreto ivi previsto fosse notificato all’estradando.
[8] Cass., sez. VI, 04.06.2003 n. 24184, *******.
 

Liuzzi Sara

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