L’applicazione del “worldwide taxation principle” in italia tra diritto interno ed internazionale

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1. Il principio della tassazione mondiale nel TUIR

L’aspetto di partenza dal quale muove la presente indagine è rappresentato dal principio cosiddetto della tassazione “mondiale” dei redditi che l’Italia, così come la maggior parte dei Paesi occidentali, ha adottato nel proprio diritto tributario. Trattasi, come vedremo, di una “regola” che, nella sua essenzialità, risulta essere di estrema semplicità concettuale ma che, tuttavia, implica necessariamente dei collegamenti con altri aspetti interpretativi riguardanti tanto l’applicazione del diritto interno quanto del diritto internazionale.

Nella fattispecie di cui qui si discute, l’Amministrazione finanziaria italiana applica il principio secondo il quale i redditi del cittadino residente sono soggetti a tassazione diretta dal fisco italiano indipendentemente dal luogo ove tali redditi sono stati prodotti. Tale modalità di prelievo si deduce dalla lettura ed interpretazione combinata di quanto disposto dagli articoli 1, 2 e 3 del D.Lgvo 917/86 i quali costituiscono a pieno titolo, se così si può dire, i capisaldi del principio di cui si discute e che tutt’ora rappresenta una icona dell’ultima riforma tributaria risalente ai primi anni settanta.

Tuttavia parlare del principio della tassazione mondiale così come impostato dal legislatore italiano non ha senso se non ci si sofferma in via preliminare sui concetti di residenza e tassazione dei redditi delle persone fisiche residenti.

Secondo il diritto tributario italiano è considerato contribuente residente colui che è, per la maggior parte del periodo di imposta, iscritto nell’anagrafe della popolazione (italiana) residente ovvero mantiene il domicilio o, appunto, la residenza ai fini di quanto disposto dal Codice Civile.

Si dica sin da subito che i richiamati requisiti sono tra loro in rapporto di “alternatività” e non di concorrenzialità e che pertanto è sufficiente la presenza di uno dei tre per considerare come residente un certo contribuente. E’ agevole dunque intuire come, anche per effetto della riforma del 2004 che ha tentato di dare una “stretta” all’uso di eleggere residenze più o meno esterovestite in Paesi cosiddetti a fiscalità privilegiata, l’Amministrazione finanziaria italiana intenda allargare quanto più possibile i concetti citati al fine di rendere il più possibile efficiente il contrasto al fenomeno della evasione fiscale che, sopra tutto nel recente passato, ha visto un proliferare di residenze più o meno dubbie tendenti a raggiungere lo scopo di cui sopra. Per rimanere in tema di residenza, tuttavia, l’art. 2 comma 1 del TUIR collega i requisiti di cui si è detto all’elemento temporale ed esattamente utilizzando la locuzione “…per la maggior parte del periodo di imposta…” che è riferita alla permanenza nel territorio dello Stato per almeno 183 o 184 giorni a seconda che si tratti di anno bisestile o meno. L’aspetto temporale è dunque un elemento essenzialmente discriminante per poter poi di fatto rendere operativa, o meno, la tassazione Peraltro, a tal proposito, è interessante citare un pronunciamento dell’Agenzia delle Entrate1 secondo il quale, in caso di trasferimento del cittadino italiano all’estero nel corso dell’anno, non può essere contemplata mai una tassazione “frazionata” ad anno che veda una parte dei redditi tassata in Italia ed un’altra parte tassata nel Paese di destinazione almeno nell’ipotesi in cui il dubbio non possa essere chiarito dalla eventuale convenzione bilaterale, se esistente e se disciplinante il caso specifico. Con una evidente contraddizione, di cui si darà conto innanzi, l’Agenzia ha così risposto ad un quesito sollevato da un contribuente che intendeva frazionare il periodo di imposta ai fini della “cittadinanza” impositiva.

Infine, sul concetto di domicilio alternativo alla residenza ritengo di non dovermi soffermare in questa sede su quanto già ampiamente affrontato tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza in modo compiuto ed esaustivo. Si diceva, dunque, della tassazione dei redditi, in capo al cittadino residente, ovunque essi prodotti; in questo senso è interessante sottolineare il luogo di produzione del reddito (ovunque al di fuori del territorio nazionale) e le categorie degli stessi che sono poi soggetti ad una sorta di ulteriore elencazione dall’art. 23 così come richiamato poi dal comma 2 del successivo art. 165.

Pertanto, un concetto che solo apparentemente mostra difficoltà di comprensione si rivela in effetti molto semplice da applicare dopo una lettura correlata delle richiamate norme; in perfetta applicazione del principio secondo il quale ognuno a casa propria detta le proprie regole (o quasi), l’Italia ha ritenuto e ritiene di dover tassare con le proprie imposte i redditi prodotti in capo al cittadino residente persona fisica ovunque questi abbia prodotto tale imponibile anche, magari, in più di un Paese straniero.

Le difficoltà invece, come vedremo, nascono successivamente e sono relative ai rapporti con la tassazione nel Paese di “destinazione” e, soprattutto, nella applicazione delle norme convenzionali.

 

2. La mitigazione operata dall’art. 165 del TUIR

Per quanto sopra accennato, il problema va ora esaminato dal punto di osservazione del Paese straniero nel quale il cittadino residente italiano produce il reddito imponibile. E’ facile pensare che, a meno che non si tratti di uno di quei Paesi a tassazione “zero”, l’Autorità fiscale straniera sottoporrà a prelievo il reddito prodotto dal cittadino italiano creando, in un attimo, quel fenomeno tanto dibattuto (e combattuto) dalle Amministrazioni finanziarie soprattutto occidentali: il fenomeno della doppia imposizione.

In un secolo, il ventesimo, in cui la libertà dei commerci, la libertà di stabilimento e soprattutto la libertà di circolazione delle persone ha visto un sensibile, inesorabile incremento, le democrazie occidentali hanno dovuto necessariamente occuparsi della regolamentazione ed armonizzazione fiscale in definitiva proprio per evitare che tali processi socio-economici andassero a colpire i singoli cittadini in modo da essere eccessivamente penalizzanti sotto il profilo del prelievo tributario. A livello internazionale questo scopo si è raggiunto con la stipula delle convenzioni contro le doppie imposizioni che costituiscono dei veri e propri trattati internazionali bilaterali che hanno lo scopo di regolamentare i rapporti in materia di fisco tra due Paesi; a livello di normativa nazionale l’Italia ha provveduto a “ridisegnare” quelle clausole di salvaguardia che hanno più o meno, appunto, il medesimo scopo delle convenzioni per il tramite della legge delega nr. 80 del 7 aprile 2003. Tale passaggio ha portato all’inserimento dell’art. 165 nel TUIR che è espressamente deputato a tale funzione; si parla dunque del credito di imposta per i redditi prodotti (ed aggiungerei anche tassati) all’estero. Si ricordi, per completezza di cronaca, che l’intervento del legislatore italiano come sopra richiamato non ha rappresentato una novità e ciò per dire che il meccanismo del credito di imposta esisteva anche precedentemente con la differenza che era diversamente strutturato e forse, oggi, maggiormente vantaggioso rispetto al passato.

Dopodiché non vuole essere questa la sede per illustrare nei dettagli il funzionamento “tecnico-applicativo” dell’attuale credito di imposta, bensì si vuole porre l’accento sulla sentita esigenza (da parte del legislatore italiano) di voler dare compiuta mitigazione al fenomeno della doppia tassazione che il medesimo reddito può o potrebbe subire da parte di due autorità fiscali contemporaneamente.

L’Italia ritiene di dover dunque risolvere il problema consentendo, al cittadino contribuente che ha prodotto redditi in un Paese straniero, di detrarre le imposte pagate all’estero dall’imposta netta italiana commisurata ad un determinato rapporto indicato dall’art. 165.

Ora, al di là dei singoli e soggettivi calcoli ed indipendentemente dal constatare la maggiore o minore convenienza tra il sistema post ed ante riforma, sottolineo come il problema della doppia imposizione trova una soluzione, per così dire, “localizzata” indipendentemente da come, i due Stati abbiano, eventualmente, disciplinato i propri rapporti bilaterali.

La puntualizzazione è necessaria perché come vedremo nel successivo paragrafo, le cosiddette norme pattizie internazionali intervengono in maniera spesso radicalmente diversa da quanto fanno i singoli Stati nelle proprie legislazioni nazionali dando luogo a problemi di raccordo ed interpretazione spesso non irrilevanti.

Il dato di fatto, riscontrabile anche in altre normative nazionali europee, è che in ogni caso anche per quanto riguarda l’Amministrazione fiscale italiana, resta ben fermo il concetto per il quale il cittadino residente in Italia, se ha prodotto redditi all’estero, questi debbono essere sempre dichiarati al fisco italiano ed a questo vanno versate le imposte con le salvaguardie a cui si è appena accennato.

Ciò è tanto più limpido quando lo stesso art. 165 al comma 2 richiama l’art. 23, sempre del TUIR, per individuare le categorie reddituali che reciprocamente devono essere assoggettate a tassazione.

Questa, dunque, risulta essere la attuale disciplina prevista dalla normativa italiana. Si affrontano, nel paragrafo che segue, le tematiche inerenti i rapporti legati al diritto ed alla regolamentazione internazionale.

 

3. I rapporti con il diritto tributario internazionale (norme pattizie), le implicazioni costituzionali ed il diritto comunitario.

E’ necessario dunque, posto quanto detto sin qui, esaminare qual’é il tipo di rapporto che lega la normativa nazionale (ad esempio quella italiana) con la normativa contenuta nelle convenzioni contro le doppie imposizioni tenendo a mente, si vedrà più avanti perché, il contenuto dell’art. 117 della nostra Carta costituzionale.

Da un rapido esame della dottrina2 mi sembra di poter dire che sulla questione sussista unanimità di vedute almeno su due aspetti:

– le convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni costituiscono veri e propri trattati internazionali;

– come tali sono soggette all’applicazione della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati.

Dunque esse rappresentano senz’altro norme di diritto tributario internazionale che però, si ricordi, finiscono per trovare sede anche nell’ordinamento di diritto interno non foss’altro perché dalla fase della trattativa e della formazione dell’accordo, passando per la fase della sottoscrizione del testo condiviso si avrà infine la ratifica della Convenzione per il tramite di una legge ordinaria votata ed approvata dai rispettivi organi legislativi dei Paesi sottoscrittori.

Quindi, anche per questa considerazione, non ho affatto alcuna convinzione che il trattato così formatosi finisca per avere, poi, una connotazione esclusivamente “internazionale” mentre invece sussiste la certezza che le convenzioni così e fin qui stipulate ricalcano lo schema generale di Convenzione OCSE che ha tre finalità principali rappresentate dalla eliminazione del fenomeno della doppia imposizione, dalla lotta alla evasione fiscale alla risoluzione di eventuali insorgenti controversie.

Sebbene alcuni3 abbiano criticato lo schema eccessivamente generalista della convenzione di cui sopra e dunque forse poco incidente sulla concreta regolamentazione dei rapporti tributari trans-nazionali tale da indurre la nascita di una legislazione di richiamo, viene da dire, invece, che alcuni problemi interpretativi insorgono proprio se si vuole dare la giusta applicazione contemperando, volta per volta, le norme interne con le norme pattizie. Nell’esempio dell’Italia mi sembra emblematico il caso della tassazione dei redditi fondiari; lo schema di convenzione Ocse prevede sempre (esclusivamente) la tassazione nel Paese ove insiste l’immobile, il diritto tributario interno dispone esattamente il contrario (art. 23 e 165 comma 2 TUIR).

Un caso del genere, che peraltro riguarda anche altre fattispecie reddituali, a mio avviso non denota genericità della regolamentazione internazionale; pone invece la questione centrale dell’analisi che si sta effettuando: il problema dei rapporti tra le due categorie di norme e dunque, in definitiva, l’esplicazione gerarchica delle fonti.

Non si tratta di un problema di poco conto nella misura in cui, come accennavo, esistono situazioni in cui il trattato internazionale dispone in maniera opposta da quanto previsto dalla norma interna ovvero limiti, il primo, la potestà impositiva dello Stato nazionale.

In dottrina4 si è condivisibilmente iniziato a parlare di prevalenza della norma pattizia su quella interna in quanto norma “speciale” seguendo l’antico brocardo lex specialis derogat priori generali.

Se questa è dunque la via da seguire, i termini della questione devono essere analizzati da altra visuale critica che ponga in serio dubbio l’effettiva applicabilità delle norme interne come norme aventi efficacia superiore anche verso le norme convenzionali. Il punto di osservazione (e di partenza) deve essere ribaltato nel senso che nell’ambito della regolamentazione impositiva internazionale l’interprete deve procedere in primo luogo all’esame ed applicazione delle norme internazionali e dopo, ma solo dopo, procedere ad applicare la norma interna nell’eventualità in cui non sia data risposta nell’operazione interpretativa ed applicativa precedentemente effettuata in ambito “trans-nazionale”.

Nel concordare dunque con l’applicazione del principio di specialità spiegandone le ragioni tra poco, è agevole comprendere allora che anche il generico ma incidente concetto di tassazione mondiale definito all’interno del nostro TUIR può essere annullato dall’ applicazione gerarchica delle fonti se la norma internazionale dovesse disporre in modo difforme dalla regolamentazione interna. Non è pertanto più così certa e scontata l’idea di un fisco italiano ubiquo ed onnipresente che tutto vuole tassare in capo al cittadino residente che, in nome delle libertà individuali fondamentali, si sposta, staziona e produce o scambia beni e/o servizi in uno o più Paesi stranieri. Questa certezza, almeno, non esiste se nella applicazione comparata delle due norme (convenzionale ed interna) la prima offre soluzione applicativa difforme dalla seconda.

Per esser chiari quindi, e per riprendere il caso accennato sopra, il cittadino residente italiano che è proprietario di un immobile (ad esempio) in Francia e dunque titolare del cosiddetto reddito fondiario, dovrà in ottemperanza del principio di specialità consultare quanto previsto dalla Convenzione internazionale contro le doppie imposizioni Italia – Francia la quale all’art. 6 dispone molto semplicemente che tale categoria reddituale sconta l’imposizione nello Stato in cui è situato l’immobile. Il cittadino residente italiano, quindi, verserà le imposte francesi ed avrà esaurito ed estinto la sua obbligazione tributaria null’altro dovendo fare nei confronti del fisco italiano; l’applicazione così fornita del principio di specialità rende dunque non operative quelle norme menzionate nei paragrafi precedenti.

D’altra parte una conseguenza siffatta ha delle ragioni logiche nel fatto che il principio di specialità che rende prevalente l’applicazione della norma convenzionale su quella interna ha radici nell’ordinamento giuridico italiano e non solo tributario, superando quella dicotomia che ha visto la dottrina5 discutere sterilmente sulla individuazione del “carattere” della specialità ratione personarum e ratione materiae per arrivare al novero della cosiddetta specialità sui generis;.

In realtà, con riferimento al diritto internazionale, vi è principalmente una ragione “generale” che spiega la “prevalenza” applicativa di una norma piuttosto che un’altra che è, appunto, da individuarsi nell’ordinamento giuridico interno; detta prevalenza dunque, può rinvenirsi nel principio di autoreferenzialità.

Infatti, una sommatoria combinata di norme ordinarie interne, costituzionali e di prassi amministrativa portano a concludere in tal senso; l’art. 75 del DPR 600/73 dispone che “…nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sul reddito sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia.”; l’art. 169 del TUIR recita che le disposizioni presenti in tale legge sono applicabili in deroga alle convenzioni internazionali solo se più favorevoli posponendo, dunque, la gerarchia delle fonti alla esistenza (esclusiva) di disposizioni migliorative. Non venga dimenticato, da ultimo, l’attuale art. 117 della Costituzione; in tale precetto viene stabilito che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni è comunque subordinata al rispetto dei vincoli derivanti “… dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.”

Se tutto ciò non bastasse si aggiunga anche che una consolidata prassi amministrativa6 ha sempre avallato la prevalenza della norma internazionale su quella interna.

L’origine della prevalenza, tuttavia, non è unica ma bensì deve differenziarsi a seconda del contesto ordinamentale giuridico nel quale ci si muove; si è fatto riferimento al principio della autoreferenzialità che però ritengo applicabile alle (sole) norme di diritto internazionale tout court mentre, specificatamente per il diritto comunitario (soprattutto per consolidata giurisprudenza) il principio che giustifica la prevalenza è, appunto, la disapplicazione della norma interna in favore di quella comunitaria7 nella consapevolezza che tale norma è diretta derivazione non di un singolo trattato internazionale magari “solo” bilaterale, bensì è diretta derivazione di un qualcosa di più ampio e compiuto e cioè del trattato istitutivo della Comunità Europea all’interno del quale gli Stati contraenti si impegnano ad osservare le specifiche e reciproche obbligazioni.

Non è questa la sede per un approfondimento; si segnala solo che autorevole dottrina8 ha provveduto anche ad individuare i diversi “livelli” di disapplicazione.

Non è invece di particolare interesse la discussione, che pure c’è stata, sull’ipotesi di dover individuare un principio consuetudinario internazionale (principio del non aggravamento) che giustificasse la prevalenza applicativa della norma convenzionale. Per quanto sopra detto, risulta molto fondata l’ipotesi che tale principio in effetti non esista9; fra l’altro qualora anch’ esistesse non si comprende come questo potrebbe spiegare il principio della prevalenza. Resta da ricordare che, in tema di “non discriminazioni”, già lo schema generale di Convenzione OCSE contiene una norma in tal senso (art. 24) che ha il compito (non irrilevante) di dichiarare una sorta di principio di parità di trattamento sotto il profilo dell’imposizione fiscale tra i nazionali degli Stati contraenti.

 

 

Alessandro Ferraria


1 R.M. nr. 471/E del 03.12.08

2 Bizioli, “Tax Treaty interpretation in Italy”, in AA.VV., Kluwer, The Netherlands, 2001 pag. 208; Fantozzi- Vogel, “Doppia Imposizione Internazionale”,

3 Melis, “Atti del seminario “I vincoli internazionali nel sistema delle fonti del diritto tributario, Roma, 2004, LUISS, pagg. 35 e segg.

4 Croxatto, “Diritto internazionale tributario” Padova 1998 pag. 646; Gest-Tixier “Droit fiscal international”; Girelli, Appunti dalle lezioni di diritto Tributario, 2010 pag. 52

5 Conforti, “Diritto internazionale”, Torino, pag. 321; Melis, op. cit.

6 Circ. Min. Fin. 12.09.1977 nr. 85/12/969; Ris. Min. Fin.13.04.1977 nr. 12/036;

7 Corte di Giustizia sent. 9 marzo 1978 causa 106/77

8 Celotto, “La prevalenza del diritto comunitario sul diritto degli Stati:ambito e portata della disapplicazione” pagg 124 e segg

9 Fantozzi-Vogel, “Doppia Imposizione Internazionale”, cit., pag. 191

Ferraria Alessandro

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