L’ “anomala” circolazione della prova nell’arbitrato bancario finanziario

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a cura del dr. Edoardo Piermattei

SOMMARIO: 1. L’onere della prova tra ABF e processo civile: cenni introduttivi. 2. Il principio di prossimità della prova. 3. La rilevanza della condotta dell’intermediario. 4. Prova “incompleta”, integrazione istruttoria e acquisizione probatoria. 5. Vicinanza alla prova e inadempimento del fornitore: la decisione del Collegio di Coordinamento del 17 maggio 2021, n. 12645. 6. Riflessioni conclusive.

1.            L’onere della prova tra ABF e processo civile: cenni introduttivi

L’Arbitro Bancario Finanziario, nei primi due lustri di attività, sotto l’egida della Banca d’Italia, non è stato ancora destinatario di una disciplina organica sulla prova, né tantomeno sulla ripartizione dell’onere della prova e sui poteri del giudicante in ordine agli elementi probatori acquisiti nel corso del procedimento[1].

Ciò è dimostrato incontrovertibilmente dal dato normativo, dal momento che le vigenti “Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari” stabiliscono testualmente lo svolgimento di una procedura semplice e rapida[2], attraverso la quale il ricorrente, senza necessità di particolari competenze tecniche, chiede all’arbitro di tutelare il diritto che si ritiene leso dall’intermediario. La decisione è assunta dal Collegio sulla base di un’istruttoria esclusivamente documentale[3], applicando le previsioni di legge e regolamentari in materia, nonché eventuali codici di condotta ai quali l’intermediario aderisca.

Tale peculiare – ma al contempo non esaurientemente codificata – scansione procedimentale trova una sua coerente giustificazione nell’intrinseca funzione suppletiva esercitata dalle regole del diritto processuale civile.

Il rapporto dialettico fra i principi processualcivilistici e il loro adattamento in relazione alle peculiarità del procedimento arbitrale è esaurientemente descritto dalla decisione del Collegio di Coordinamento n. 7716 del 29 giugno 2017, in cui viene stabilito che: “una volta che il ricorso sia stato depurato da eventuali ragioni di preliminare inammissibilità, per decidere alfine sulla fondatezza della domanda non può che farsi applicazione, “in linea di massima” (stante l’assenza di specifici richiami alle norme generali e avuto riguardo alla natura “valutativa” del responso), delle regole fondamentali del processo civile: il principio dispositivo (artt.99 e 115 c.p.c); il principio del contraddittorio (art.101 c.p.c. e 167 c.p.c.) e il principio dell’onere della prova (art.2697 cc.)”[4].

Inoltre, coerentemente con quest’ultima finalità, non vi è dubbio che “l’Arbitro bancario non possa andare alla ricerca della verità, ma debba decidere sulla base dei fatti allegati dalle parti e delle prove fornite per supportarli: quindi nei limiti del tema della decisione e del tema della prova come parametrabile sulla scorta delle rispettive deduzioni e solo di queste”.

In tale prospettiva, la flessibilità procedimentale del sistema ABF è corroborata dall’applicazione di statuizioni di portata generale, riconducibili ai principi della disponibilità e dell’onere della prova, i quali assolvono ad una funzione di impulso e riequilibrio delle limitazioni istruttorie che regolano il procedimento davanti all’Arbitro[5].

Al riguardo, la decisione del Collegio qui in esame ha avuto fornito importanti precisazioni in merito alla circolazione dell’onere probatorio, deducendo quanto segue: “in relazione alla prova dei fatti rilevanti (e specificamente contestati), deve convenirsi che, poiché l’Arbitro bancario deve decidere secondo diritto, e quindi anche in base alla regola di giudizio sancita nell’art. 2697 c.c., il rischio della mancanza o insufficienza della prova di un fatto controverso non può che essere addossato alla parte che, avendolo affermato, aveva l’interesse a dimostrarlo”.

L’apparente rigore di questa statuizione è mitigato dalla successiva enunciazione del c.d. principio di vicinanza alla prova[6], il che costituisce un’eccezionale deroga al canonico regime del onus probandi ei qui dicit non ei qui negat[7].

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2.            Il principio di prossimità della prova

Il principio di prossimità opera quale anomalia nell’attribuzione traslativa dell’onere probatorio, addossando il rischio per la mancata dimostrazione di un fatto rimasto incerto nel giudizio alla parte che si sarebbe dovuta trovare nelle migliori condizioni per provarlo.

È, questo, un caso particolarmente evidente di “adattamento” dei principi e delle regole di diritto processuale alle peculiarità del procedimento ABF[8].

Sul punto il Collegio di Coordinamento, nella richiamata decisione, puntualizza come il criterio evocato non assuma una pregnanza meramente teorica, potendo trovare concreta applicazione anche: “nel procedimento abf quale strumento alternativo alla giustizia ordinaria, che deve essere capace di offrire anche allo sprovveduto consumatore, non tenuto all’onere di munirsi dell’assistenza legale, una tutela sostanziale rapida ed efficace dei suoi diritti[9].

Ciò nondimeno tale principio, per il limite concettuale che è ad esso immanente, non può essere però invocato ove ciascuna delle parti acquisisca la disponibilità della prova (documentale) su cui si dibatta[10].

Con precipuo riferimento al contenzioso bancario, ad esempio, viene declinato nel senso di prevederne un’intrinseca perimetrazione in virtù dell’applicazione dell’art. 119, comma 4, T.u.b.

D’altro canto, i casi di mancata tenuta delle scritture contabili[11], unitamemente alla mancata allegazione documentale a fronte della richiesta ex art. 119, comma 4, T.u.b.[12], rappresentano, secondo autorevole dottrina[13], “casi di vicinanza, per così dire, «qualificata», siccome rispondente a specifiche previsioni normative: per cui sarebbe irragionevole, se non altro, pensare che l’imprenditore bancario possa venire a trarre un utile processuale dalla loro violazione”.

Ragionando a contrario – atteso che le disposizioni richiamate dalla normativa di trasparenza del Testo Unico riconoscono in capo al correntista un diritto sostanziale di accesso alla documentazione contabile sottostante al rapporto bancario instaurato – è indubbio che il criterio di prossimità della prova, in quanto eccezione, debba trovare un’idonea legittimazione che non può semplicisticamente esaurirsi nella diversità di forza economica dei contendenti, ma esige l’impossibilità in ordine ad una sua acquisizione simmetrica[14].

3.            La rilevanza della condotta dell’intermediario

La natura di dovere di protezione consistente nel dare supporto documentale al cliente è un dovere di natura squisitamente sostanziale[15].

In coerenza con tale finalità, sotto il profilo procedimentale, è la previsione che stabilisce un obbligo di cooperazione in capo all’intermediario nella produzione della documentazione rilevante per la decisione nel merito[16], e il cui mancato assolvimento, in sede di reclamo, consente all’Arbitro di trarre argomenti di prova favorevoli alla tesi del ricorrente[17], in applicazione dell’art. 116, comma 2, c.p.c. e in collegamento con le risultanze istruttorie già acquisite.

L’argomento di prova, com’è noto, offre soltanto elementi di valutazione di altre prove e, quindi, non può costituire l’unico fondamento per ritenere provato un fatto[18].

L’interpretazione della norma nei termini esposti, peraltro conforme a quella offerta dalla giurisprudenza di legittimità[19], porta ad escludere che – in sede di riscontro al reclamo – il solo atteggiamento non collaborativo (o ostruzionistico) della Banca convenuta possa essere in concreto equiparato all’ammissione del fatto controverso.

Non a caso, il Collegio non ha mancato di sottolineare come la non collaborazione venga analogicamente ricondotta alla mancata ottemperanza ad un ordine del giudice, ai sensi dell’art. 210 c.p.c.[20].

Diversa è invece l’ipotesi in cui il resistente persista nel suo atteggiamento reticente, non depositando le controdeduzioni nei termini e dando luogo, pertanto, ad un procedimento “contumaciale”.

Sotto tale profilo, si ritene debba operare il principio di non contestazione, delineato dall’art. 115 c.p.c.[21].

Più precisamente, a differenza di quanto accade nel processo civile[22], il dovere di cooperazione di cui è gravato il resistente scardina il limite normativo che circoscrive l’applicabilità del brocardo relevatio ab onere probandi ai soli casi di costituzione delle parti[23].

Ciò in quanto la cooperazione richiesta in sede procedimentale non si atteggia a mero obbligo formale e procedurale[24], ma si ricollega agli obblighi di correttezza e buona fede in ambito contrattuale[25], oltre agli obblighi di trasparenza bancaria, la cui mancata ottemperenza responsabilizza ancor più l’assenza dell’intermediario.

La congruenza logico-giuridica di un simile ragionamento è lampante e depone nel senso di correlare la violazione del principio di riferibilità della prova all’atteggiamento silente assunto dall’intermediario, rendendo incontroversi tutti i fatti allegati e provati dal ricorrente, a fronte del principio generale desumibile dall’art. 115 c.p.c.

In buona sostanza, nel caso in cui l’istituto di credito non abbia formulato argomentazioni sui fatti occorsi e non abbia correttamente assolto l’onere probatorio su questo incombente (per il principio di vicinanza alla prova), non può che ritenersi accertata, assumendo la documentazione in atti, l’avvenuta messa in atto dell’operazione controversa nei termini prospettati dalla parte ricorrente, con l’effetto di doversi ritenere acclarata, consequenzialmente, la denunciata violazione degli obblighi di condotta incombenti sullo stesso resistente.

Nel caso in cui invece gli elementi probatori necessari per dirimere la controversia rientrino nella disponibilità del correntista, l’obbligo di cooperazione non conduce a un’inversione della distribuzione dell’onere della prova e non esonera quest’ultimo dall’onere di fornire supporto probatorio alle proprie pretese, proprio perché la prossimità alla fonte del ricorrente non è impedita dal comportamento “illegittimo” posto in essere dall’intermediario[26].

Si tratterebbe, infatti, non tanto di applicazione della prossimità della prova, quanto piuttosto dell’irrogazione di una sanzione punitiva[27].

Sul punto è lo stesso Collegio di Coordinamento ad escludere tale ipotesi, “giacchè a un esito così grave e contrario a principi fondamentali del diritto, civile e processuale, avrebbe potuto pervenirsi solo in presenza di una chiara e speciale disposizione derogatoria del principio di uguaglianza delle parti nel processo (pur tenendo conto della natura peculiare del procedimento ABF, per il quale non può affermarsi la estensione automatica di tutte le norme del codice di rito, le cui disposizioni vanno applicate, in assenza di regole particolari, nei limiti della compatibilità)”.

4.            Prova “incompleta”, integrazione istruttoria e acquisizione probatoria

Le richiamate esigenze di omogeneità del regime probatorio si ricollegano anche al caso in cui: “il ricorrente abbia fornito una prova documentale non sufficiente (meglio: incompleta) del diritto affermato”[28].

Tale disposizione viene correlata alla non trascurabile regola dettata dall’art. 8, comma 3 del Regolamento per il funzionamento dell’Organo decidente dell’ABF in forza del quale “ove il Collegio ritenga necessaria una integrazione dell’istruttoria dispone la sospensione del procedimento[29].

Siffatto “potere officioso di disporre l’esibizione documentale” costituisce un unicum estraneo alle regole del codice di rito[30], compendiandosi quale strumento complementare e sussidiario in grado di sanare la carenza di un’allegazione ritenuta coessenziale ai fini della composizione della controversia[31].

D’altra parte, la valutazione da parte del collegio arbitrale in ordine alla sussistenza di una situazione di semiplena probatio esclude che l’integrazione istruttoria possa compensare la prova di un fatto del tutto assente, in quanto renderebbe: “il procedimento abf strutturalmente inquisitorio (a favore del cliente) e anche prolungato e oggettivamente costoso, in aperta contraddizione con i connotati di rapidità ed economicità (“della soluzione delle controversie”) predicati dall’art. 128-bis, comma 1, del TUB[32].

In una simile ipotesi il Collegio si troverebbe nell’impossibilità oggettiva di esperire una valutazione di merito, tenuto conto che il ricorso non permette di identificare gli elementi essenziali su cui poggia la pretesa avanzata, violando per un verso il principio di autosufficienza e, per altro verso, sollecitando un intervento meramente consulenziale da parte dell’Arbitro[33].

Da ultimo, il quadro descritto viene ulteriormente rafforzato dall’applicazione analogica del principio di acquisizione processuale, il quale implica che un elemento probatorio, una volta introdotto nel processo, vuoi dal correntista ricorrente vuoi dall’intermediario resistente, sia definitivamente acquisito alla causa e non possa più esserle sottratto[34].

In virtù di tale regime giuridico, le risultanze istruttorie concorrono tutte alla formazione del convincimento dell’arbitro, dovendosi logicamente escludere che la dimostrazione dei fatti posti dalle parti a fondamento delle rispettive deduzioni debba essere ricavata solo dalle prove offerte da quella gravata del relativo onus probandi[35].

Alla luce delle suesposte considerazioni, tale reticolato argomentativo, nelle pieghe del sistema dell’Arbitro Bancario Finanziario, è un dato che avvalora la tendenza a ritenere il principio di prossimità della prova una valida attenuante rispetto allo “standard di prova” che deve ritenersi esigibile dalla parte onerata, semprechè specificatamente giustificato dall’ineguaglianza dei contendenti nelle concrete possibilità di accesso alla documentazione bancaria[36].

Ora, come rilevato dallo stesso Coordinamento, “stabilire quando questo esito si realizzi non è possibile in astratto e dunque spetta ai singoli Collegi risolvere prudentemente la singola controversia alla luce dei principi dianzi ricordati[37].

 

5.            Vicinanza alla prova e inadempimento del fornitore: la decisione del Collegio di Coordinamento del 17 maggio 2021, n. 12645

Una interessante prospettiva di indagine, in tema di applicazione del principio di prossimità della prova, è offerta dal contenzioso in materia di inadempimento (di non scarsa importanza[38]) del fornitore e della relativa incidenza sul contratto di credito collegato[39], finalizzato all’acquisto del bene o del servizio.

Al riguardo, la recente pronuncia del Collegio di Coordinamento del 17 maggio 2021, n. 12645 ha respinto la richiesta formulata dal consumatore ricorrente.

La pretesa era preordinata all’accertamento del proprio diritto alla risoluzione di un contratto di prestazione di servizi finanziari in collegamento negoziale ad un ulteriore contratto di fornitura, rimasto inadempiuto per causa imputabile al fornitore, con conseguente ripetizione delle somme già versate in esecuzione del contratto di credito.

Al di là delle pur rilevanti questioni di merito evocate, il punctum saliens della vicenda attiene alla valutazione dell’assetto negoziale vigente tra il consumatore ricorrente, l’intermediario resistente e il fornitore inadempiente, al fine di stabilire “se ricada sul consumatore ricorrente l’onere della prova dell’inadempimento di non scarsa importanza ovvero ricada sul finanziatore provare che il fornitore ha adempiuto la propria prestazione”.

In particolare, la decisione de qua è stata quantomeno trachante nel dettare un percorso metodologicamente orientato a declinare il criterio di prossimità a seconda delle fattispecie negoziali prese a riferimento e, dunque, all’altrettanto diversificato tenore assunto dal rapporto fra debitore e creditore ai fini dell’accessibilità ai mezzi di prova.

In via preliminare, il Collegio di Coordinamento ha preso atto dell’apparente “discrasia motivazionale” tra quanto sostenuto dall’orientamento consolidato dei Collegi territoriali e la giurisprudenza della Suprema Corte.

A parere dei Collegi ABF, il soggetto onerato della prova dell’inadempimento del fornitore non può che essere colui che sia parte del contratto, ossia il consumatore che ha ricevuto la fornitura, piuttosto che il terzo finanziatore, estraneo al rapporto di prestazione del servizio[40].

Al contrario, un’ulteriore corrente di pensiero, che trae le sue fondamenta dalla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite, del 30 ottobre 2001, n. 13533, ha attribuito rilevanza al c.d. principio della presunzione della persistenza del diritto, elevando l’intermediario a soggetto gravato dall’onere di provare l’adempimento del fornitore, nell’assunto che “il creditore deve provare soltanto la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento, mentre grava sul debitore l’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento[41].

Si tratta di un orientamento, questo, che – va detto per inciso – presta il fianco ad alcune critiche, proprio perche “variamente ridimensionato dalla giurisprudenza di legittimità successiva[42].

A prescindere comunque dalle difficoltà nel rinvenire un’ordine omogeneo tra i diversi indirizzi interpretativi, il Collegio di Coordinamento ha rimarcato la necessità che l’accertamento dell’inadempimento sia reso liquido attraverso idonea produzione documentale.

A tal riguardo ha fatto espresso richiamo alla riferibilità della prova, in quanto espressione di “un’esigenza pragmatica, basata sulla rilevanza, nei rapporti tra creditore e debitore, nelle parole della Suprema Corte, “…in concreto, della possibilità per l’uno o per l’altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere d’azione[43].

Nel caso di specie, posta la trilateralità negoziale che caratterizza tale genere di rapporti controversi e assunta la natura del procedimento ABF, al quale è preclusa la partecipazione da parte del fornitore, il principio di vicinanza della prova deve atteggiarsi tenendo presente che la controversia si fonda su elementi insiti nella relazione fra consumatore e fornitore ed esula – al contempo – dalla sfera di azione del finanziatore e dai rapporti che intercorrono tra quest’ultimo e il consumatore[44].

Ne costituisce naturale conseguenza l’assunto secondo cui “l’onere della prova non può che collocarsi nell’ambito del rapporto di fornitura e che pertanto, vista anche l’estraneità del fornitore al procedimento presso l’ABF, non può che gravare sul consumatore l’onere di dimostrare la sussistenza dell’inadempimento del fornitore nonché la non scarsa importanza dello stesso, in aderenza al generale principio sancito nell’art. 2697, comma 1, c.c.”.

In altri termini, la diversa “consistenza” tra i rapporti intercorrenti tra le parti impedisce di giustificare l’applicazione di un regime probatorio che addossi in capo all’intermediario l’onere della prova dell’adempimento del fornitore.

Un’eccezione a tale regola potrebbe ravvisarsi nel caso in cui “il consumatore, nel dare mandato al finanziatore di erogare al fornitore il ricavo del finanziamento, condizioni il versamento allo stato di avanzamento della prestazione del servizio”: in tale eventualità i ruoli saranno invertiti.

6.            Riflessioni conclusive

In conclusione, a livello teorico, le argomentazioni addotte dal Collegio di Coordinamento, nelle richiamate decisioni, sono senz’altro condivisibili e coincidono con la ricostruzione anche qui enucleata.

Ne emerge, in tal modo, più chiara e persuasiva la finalità di quelle stesse regole sulla distribuzione e valutazione delle prove, ove la fisiologica disparità nell’accesso alla prova è destinata a segnare la lettura di un procedimento che tenga conto della realtà sostanziale dei rapporti che involvono tra le parti.

Ciò nonostante, dal punto di vista applicativo, non si possono obliterare del tutto le oggettive difficoltà che i Collegi ABF incontrano nell’impiegare la vicinanza alla prova in funzione discretiva al fine di individuare il soggetto gravato dall’onere di provare il fatto concreto.

Una cosa è certa: la motivazione estrinsecata dal Collegio di Coordinamento, ponendosi nel solco delle precedenti decisioni, si spende tutta sul crinale della valorizzazione pratica del criterio di prossimità, rendendo comunque manifesta la necessità di privilegiare la stretta coerenza che lega la vicinanza al diritto di difesa.

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Edoardo Piermattei, praticante avvocato; cultore della materia in Diritto Processuale Civile; tirocinante  ex art. 73 d.l. 69/2013, Corte d’Appello Bologna, III Sezione civile e Sezione specializzata in materia d’Impresa; stagista presso la Segreteria Tecnica dell’Arbitro Bancario Finanziario – Banca d’Italia..

[1] SOLDATI, La terza riforma dell’arbitro bancario finanziario (abf), in Contratto e impresa, 2020, 4, p. 1541.

[2] Sez. VI, Par. 1 e 2.

[3] Il che implica inevitabilmente un’intrinseca limitazione della disciplina di riferimento. Cfr. Sez. VI, Par. 3.

[4] In tal senso si è già espresso il Collegio di Coordinamento, 15 dicembre 2016, n. 10929, nella quale sono stati tra l’altro precisati i limiti cognitivi dell’ABF (“definiti dalla domanda formulata dalla parte ricorrente e dalle argomentazioni di segno contrario, addotte dalla parte resistente, senza che l’arbitro possa esaminare situazioni fattuali diverse da quelle rappresentate dalle parti interessate”).

[5] Nel procedimento ABF non sono ammessi i procedimenti istruttori di integrazione propri del giudizio civile, come la c.t.u. o l’interrogatorio libero tra le parti, mentre – di rimando – è consentito l’uso delle presunzioni (semplici o legali), le quali non comportano però alcuna sospensione del procedimento né alcuna integrazione dell’istruttoria documentale già svolta. Tutte le decisioni sono accessibili liberamente sul sito dell’Arbitro: www.arbitrobancariofinanziario.it.

[6] CONTE, L’arbitro bancario finanziario, Milano, 2021, p. 146 ss.

[7] Cfr., per un ulteriore approfondimento, DOLMETTA, MAVAGNA, Vicinanza della prova e contratti d’impresa, in apertacontrada.it, 2015.

[8] TUCCI, L’Arbitro Bancario Finanziario fra trasparenza bancaria e giurisdizione, in Banca borsa e titoli di credito, 2019, p. 9-10.

[9] MINERVINI, Gli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia bancaria e finanziaria, in I contratti bancari, a cura di Capobianco, Torino, 2016, p. 715 ss.

[10]  La normativa del Testo Unico Bancario prevede una serie di diritti in capo al cliente come l’obbligo di forma scritta e di consegna del contratto ex art. 117 TUB. Condivisibili, sul punto, le considerazioni di MORINI, L’onere della prova nel contenzioso bancario, in www.altalex.it, 2021.

[11] Cfr. art. 2220 c.c.

[12] Da ultimo cfr. Cass., 30 ottobre 2020, ord. n. 24181, in pluris.it,  la quale ha ribadito il principio di diritto secondo cui: “Il titolare di un rapporto di conto corrente ha sempre diritto di ottenere dalla banca il rendiconto, ai sensi dell’art. 119 del d.lgs. n. 385 del 1993 (T.U.B.), anche in sede giudiziaria, fornendo la sola prova dell’esistenza del rapporto contrattuale, non potendosi ritenere corretta una diversa soluzione sul fondamento del disposto di cui all’art. 210 c.p.c., perché non può convertirsi un istituto di protezione del cliente in uno strumento di penalizzazione del medesimo, trasformando la sua richiesta di documentazione da libera facoltà ad onere vincolante”.

[13] DOLMETTA, MAVAGNA, Vicinanza della prova in materia di contenzioso bancario. Spunti (I. il saldo zero), in Riv. dir. banc., Dirittobancario.it, 2014, p. 9.

[14] Al riguardo v. CAGGIANO, L’arbitro bancario finanziario, esempio virtuoso di degiurisdizionalizzazione, in Nuova giur. civ. comm., 2017, p. 492 ss.

[15] V. COLOMBO, La richiesta della documentazione ex art. 119 T.U.B. nel corso del processo, in www.ilcaso.it, 2017.

[16] Ai sensi delle Disposizioni sui sistemi di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di operazioni e servizi bancari e finanziari, Sezione VI, Par. 5, “viene resa pubblica, altresì, la mancata cooperazione al funzionamento della procedura da parte dell’intermediario. Tra i casi di mancata cooperazione rientrano, ad esempio, l’omissione o il ritardo nell’invio della documentazione richiesta che abbiano reso impossibile una pronuncia sul merito della controversia, o il mancato versamento dei contributi richiesti”.

[17] Cfr. Collegio di Roma, 30 maggio 2014, n. 3535: “In relazione al processo civile – nell’ambito del quale non è previsto a carico della parte convenuta come dinanzi all’ABF un analogo dovere di cooperazione -, si ritiene che ai sensi dell’art. 116, comma 2, cod. proc. civ. «il comportamento processuale o extraprocessuale delle parti, può costituire non soltanto elemento secondario di valutazione delle risultanze probatorie altrimenti acquisite, ma anche “unica e sufficiente fonte di prova” per la formazione del convincimento del giudice» (Cass., 26 giugno 2007, n. 14748; v. già Cass., 26 marzo 1997, n. 2700; più recentemente, v. anche Cass., 29 gennaio 2013, n. 2071)”.

[18] Per un ulteriore approfondimento si veda Trib. Cagliari, 31 maggio 2014, in dejure.it.

[19] Anche Cass., 27 agosto 2004, n. 17076 e Cass., 7 giugno 2002, n. 8310, in pluris.it, precisano come l’inosservanza dell’ordine di esibizione dei documenti da parte del proponente possa configurare un argomento di prova ex art. 116 c.p.c., comma 2, discrezionalmente valutabile dal giudice di merito, e come la mancata considerazione di tale inosservanza e la mancata ammissione di una consulenza contabile non possano in alcun modo esonerare dalla prova dei fatti posti a base della pretesa fatta valere in giudizio.

[20] Si richiamano le argomentazioni addotte da COLOMBO, op. cit., il quale riscontra che: “Tali questioni sembrano, peraltro, “by-passate” nell’ambito della procedura di risoluzione stragiudiziale delle controversie in materia di intermediazione finanziaria, recentemente entrata in funzione. Il regolamento dell’Arbitro per le Controversie Finanziarie prevede infatti, all’art. 11, comma quarto, il dovere per l’intermediario di produrre, in sede di deduzioni in replica al ricorso presentato dal cliente, “tutta la documentazione afferente al rapporto controverso”. La questione dell’onere probatorio viene, in fin dei conti, assai sfumata”.

[21] Difatti, nella presente procedura – a differenza del processo civile, che tende ad escludere l’applicazione del suddetto principio al contumace volontario – il dovere di cooperazione di cui il convenuto è gravato consente di superare quel limite normativo rispetto a chi abbia compiuto la scelta di non dar corso né al deposito delle controdeduzioni né al compimento di alcun altro atto difensivo, in spregio al già ricordato specifico obbligo di cooperazione. Aspetto, quest’ultimo, ben colto dal Coll. Roma, 19 luglio 2016, n. 6535.

[22] L’art. 115 c.p.c. è stato da ultimo modificato dall’art. 54, comma 14, L. 18 giugno 2009, n. 69, il quale ha stabilito la non applicabilità di detto principio al contumace c.d. volontario. Coglie bene questo aspetto COSTANZO, in L’evoluzione del dibattito sulla non contestazione, judicium.it, 2011.

[23] In una prospettiva comparata, v. Collegio di Roma, 20 dicembre 2013, n. 6746: “Il legislatore tuttavia ha ritenuto di non pervenire a soluzioni estreme stabilendone la non applicabilità al contumace c.d. volontario. Si tratta, peraltro, di una limitazione che non tutti ritengono condivisibile – sia nel quadro delle indicazioni comparatistiche, per lo più concordi nel sottoporre ad un procedimento accelerato e a determinate sanzioni processuali (quali, ad es., la ficta confessio per i fatti allegati dalla controparte) il contumace che volontariamente non si sia costituito in giudizio (cfr. i §§ 330-347 della ZPO tedesca o i §§ 396-403 di quella austriaca), sia nell’ottica di un’effettiva responsabilizzazione del convenuto o, in genere, di ogni parte del processo, a fronte dei doveri di lealtà e di buona fede, sanciti dall’art. 88, comma 1, cod. proc. civ. anche se l’opinione fatta propria dal legislatore risulta conforme al precedente orientamento giurisprudenziale, che escludeva ogni possibile rilevanza della contumacia in sé, in termini di «mancata contestazione» (di recente, Cass., 15 luglio 2011, n. 15674; Cass., 23 giugno 2009, n. 14623). Problema che non si pone in sede ABF in quanto il dovere di cooperazione di cui è gravato il resistente scardina il previsto limite normativo e, quindi, ogni esigenza tutelata dalla norma citata e che si giustifica soltanto a tutela del contumace volontario il cui statuto è affatto diverso da quello del resistente ingiustificatamente assente (assolutamente non assimilabile al contumace volontario nel processo civile)”.

[24] Prescindendo, dunque, dal diritto di difesa del quale invece il resistente può liberamente disporre nell’ambito del procedimento.

[25] Cfr. artt. 1175 e 1375 c.c.

[26] Sul punto, ancora DOLMETTA, MAVAGNA, op. cit., p. 9: “il contributo della vicinanza si limita, qui, a fornire la traccia di una lettura e applicazione un poco «sofisticata» e non brutalmente meccanicistica della norma dell’art. 2697 c.c., condotta mediante il ricorso agli strumenti della presunzione semplice e dell’argomento di prova”.

[27] MISURALE, MISURALE, La Cassazione boccia l’applicazione del saldo zero nell’azione di accertamento negativo promossa dal correntista, in Riv. dir. banc., Dirittobancario.it, 2015, p. 5-6.

[28] Coll. Coord., 29 giugno 2017, n. 7716.

[29] Si riscontra una certa analogia con i poteri istruttori conferiti al giudice del lavoro dagli artt. 427 e 437 c.p.c., i quali, pur comportando una attenuazione dell’onere della prova a carico delle parti, non possono ritenersi di certo finalizzati ed estesi alla ricerca di fatti che sarebbero rilevanti – se provati – ai fini della decisione ma che le parti per negligenza o per qualsiasi altra causa non abbiano ritualmente dedotto in giudizio.

[30] Così TUCCI, op. cit., p. 10.

[31] Ad esempio, in relazione alla proposizione di una domanda di restituzione di oneri non maturati a seguito di estinzione anticipata di un finanziamento contro cessione del quinto dello stipendio, l’Arbitro ha chiarito che è il ricorrente a dover provare la natura recurring dei corrispettivi già anticipati dei quali chiede la ripetizione, trattandosi di fatti costitutivi della domanda la cui prova grava su chi propone il ricorso ex art. 2697 c.c. Tuttavia, quando non sia contestata l’esistenza del contratto, la produzione incompleta del relativo documento da parte del ricorrente può essere sanata assegnando a quest’ultimo (o all’intermediario resistente, se a questi applicabile in via residuale il criterio della prossimità della vicinanza della prova) un termine per l’integrazione, in modo da consentire al Collegio di esaminare la clausola oggetto di contestazione (al contrario tale adempimento non è necessario nel caso in cui il tenore della clausola risulti pacifico). Così Relazione sull’attività ABF 2017, p. 111.

[32] Il rimando è sempre a Coll. Coord., 29 giugno 2017, n. 7716.

[33] In argomento v. Coll. Torino, 30 luglio 2021, n. 18100; Coll. Milano, 22 aprile 2016, n. 3703.

[34] Al riguardo si veda Cass., 23 dicembre 2005, n. 28498, in dejure.it.

[35] Illuminante sotto tale aspetto Cass. 16 giugno 1998, n. 5980, la quale ha enucleato il seguente principio di diritto, applicabile per relationem al procedimento ABF: “Vige, difatti, nel nostro ordinamento processuale, in uno con il principio dispositivo, quello c.d. “di acquisizione probatoria”, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute (e qual che sia la parte ad iniziativa della quale sono state raggiunte), concorrono, tutte ed indistintamente, alla formazione del libero convincimento del giudice, senza che la relativa provenienza possa condizionare tale convincimento in un senso o nell’altro, e senza che possa, conseguentemente, escludersi la utilizzabilità di un prova fornita da una parte per trarne argomenti favorevoli alla controparte”.

[36] Così Coll. Napoli, 17 dicembre 2013, n. 6597; Coll. Roma, 11 settembre 2015, n. 7109; Coll. Roma, 11 settembre 2015, n. 7139.

[37] Cfr. Coll. Coord. 29 giugno 2017, n. 7716; nonché da ultimo Coll. Milano, 27 maggio 2021, n. 13499; Coll. Milano 27 maggio 2021, n.13493; Coll. Milano, 27 maggio 2021, n. 13490.

[38] Cfr. art. 1455 c.c.

[39] La disciplina del contratto di credito collegato si rinviene nell’art. 121, comma 1, lett. d) T.u.b., qualificandola in termini di pattuizione negoziale finalizzata “esclusivamente a finanziare la fornitura di un bene o la prestazione di un servizio specifici se ricorre almeno una delle seguenti condizioni: 1) il finanziatore si avvale del fornitore del bene o del prestatore del servizio per promuovere o concludere il contratto di credito; 2) il bene o il servizio specifici sono esplicitamente individuati nel contratto di credito”.

[40] Coll. Roma, 21 marzo 2019, n. 8023; Coll. Napoli, 21 febbraio 2018, n. 4344; Coll. Bari, 6 luglio 2018, n. 14661.

[41] Coll. Coordinamento, 17 maggio 2021, n. 12645.

[42] Il rimando è a Cass. 9 agosto 2013, n. 19146, in dejure.it, che, in tema di garanzia per difformità e vizi nell’appalto, ha acclarato come: “l’accettazione dell’opera segna il discrimine ai fini della distribuzione dell’onere della prova, nel senso che, fino a quando l’opera non sia stata espressamente o tacitamente accettata, al committente è sufficiente la mera allegazione dell’esistenza dei vizi, gravando sull’appaltatore l’onere di provare di aver eseguito l’opera conformemente al contratto e alle regole dell’arte, mentre, una volta che l’opera sia stata positivamente verificata, anche “per facta concludentia”, spetta al committente, che l’ha accettata e che ne ha la disponibilità fisica e giuridica, dimostrare l’esistenza dei vizi e delle conseguenze dannose lamentate”. In tema di locazione immobiliare v. anche Cass. 10 febbraio 2017, n. 3548, in dejure.it, secondo cui “in caso di domanda di risoluzione ex art. 1578 c.c. grava sul conduttore (anche per ovvie ragioni di vicinanza della prova) l’onere di individuare e dimostrare l’esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l’idoneità del bene all’uso pattuito, spettando, invece, al locatore convenuto di provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa”. Da ultimo, in relazione alla garanzia per i vizi della cosa venduta, v. Cass. 3 maggio 2019, n. 11748, in dejure.it, esaustiva nello stabilire che: “grava sul compratore che esercita le azioni di risoluzione del contratto o di riduzione del prezzo ex art. 1492 c.c. l’onere di provare l’esistenza dei vizi del bene compravenduto, non trovando applicazione la regola di riparto degli oneri probatori stabilita, per il caso di inesatto adempimento, dalla sentenza n. 13533 del 2001 delle sezioni unite”.

[43] Coll. Coordinamento, 17 maggio 2021, n. 12645.

[44] Coll. Bologna 10 settembre 2021, n. 20038.

Edoardo Piermattei

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