Interventi normativi e giurisprudenziali nell’ambito della violenza psicologica sessista

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Gli illeciti endofamiliari

Preliminarmente è bene precisare che nelle categorie degli illeciti endofamiliari vengono ricomprese tutte quelle condotte qualificabili come contra ius, le quali nascono e si sviluppano all’interno delle mura domestiche e sono dirette a violare i diritti e gli interessi di tutti coloro che vantano uno status all’interno della famiglia stessa. L’applicazione della Lex Aquilia e con essa l’introduzione della responsabilità extracontrattuale prevista e disciplinata nel nostro Codice Civile all’art. 2043, ha trovato non poche difficoltà di affermazione all’interno del contesto di natura familiare.

Infatti, in tempi remoti, qualsiasi condotta volta a pregiudicare gli interessi di un componente il nucleo familiare, non poteva considerarsi fonte di responsabilità risarcitoria da parte del soggetto agente, ma, al contrario, veniva considerata come un fatto socialmente giustificato.
Grazie all’evoluzione normativa e giurisprudenziale, si è assistito ad un radicale cambiamento e si è conferita importanza a qualsiasi condotta illecita che all’interno della famiglia possa considerarsi idonea a pregiudicare i diritti inviolabili della persona e tale da determinare un’effettiva, concreta e reale limitazione delle prerogative di ciascun membro familiare.
In particolare la lesione dei diritti connessi allo status familiare determinerà, in base alle nuove previsioni normative, un aggravamento della responsabilità del soggetto agente. Attualmente, nell’ambito dell’illecito endofamiliare il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto nel caso in cui il coniuge violi i doveri nascenti dal matrimonio e, allo stesso tempo, pregiudichi i diritti considerati inviolabili dell’altro coniuge a tale punto da sconfinare nella
configurazione di una fattispecie di reato. A tale proposito è bene precisare che rientrano
nell’ambito degli illeciti endofamiliari, non solo la violazione dei doveri coniugali in senso stretto, ma anche la c.d. violenza di genere. Trattasi di un fenomeno di natura socio-culturale, in costante crescita, il quale sta assumendo le caratteristiche di una vera e propria violazione dei diritti umani.

La violenza psicologica

In particolare, il tipo di violenza basata sulla disparità dei poteri tra i sessi che suscita maggiore interesse è sicuramente la violenza di natura psicologica. Infatti, le violenze caratterizzate da abusi psicologici sulla vittima, possono essere considerate subdole ed invisibili, ma soprattutto difficili da accertare e prenderne contezza in riferimento alla produzione del conseguenziale evento dannoso.
La violenza psicologica viene considerata come il mezzo attraverso il quale l’uomo manifesta il proprio dominio e la propria autorità sulla donna, la quale ne diviene a tutti gli effetti succube ed incapace di reagire di fronte a tali aggressioni psicologiche. La mancata denuncia della donna,  vittima dei predetti atteggiamenti prevaricatori del proprio partner, non fa altro che contribuire alla reiterazione degli stessi ed al loro aggravamento. La violenza psicologica ricorre laddove il maltrattante usa un linguaggio umiliante e denigratorio nei confronti della propria donna e di tale gravità da pregiudicarne, a lungo andare, il benessere psico-fisico.

A tale problema, si è cercato di provvedere attraverso il ricorso ad interventi di carattere sociale, come ad esempio l’apertura dei Centri Antiviolenza in tutto il territorio nazionale, ma anche per mezzo dell’introduzione di
specifiche normative volte a tutelare non solo colei che quotidianamente subisce abusi di tipo psicologico, ma anche coloro che sono costretti ad assistere ad atti di violenza compiuti dai propri familiari (violenza assistita).
Sul punto l’Ordinamento Giuridico attraverso l’introduzione della Legge n. 154/2001, ha predisposto una congrua tutela della donna con la previsione e la disciplina dell’allontanamento del coniuge violento da colei che ne è vittima. Infatti, con provvedimento giudiziario, si può ordinare all’imputato di lasciare immediatamente la casa familiare ovvero di non farvi rientro e comunque di non accedervi senza autorizzazione; nel caso in cui ricorrano esigenze di tutela della persona offesa oppure dei suoi prossimi congiunti, il Giudice può prescrivere che l’aggressore non si avvicini ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, salvo che ricorrano esigenze di lavoro.

Inoltre l’Autorità Giudiziaria, può disporre a carico del maltrattante l’obbligo di devolvere una somma di danaro periodicamente a favore delle persone conviventi che, per effetto della misura cautelare disposta, rimangano privi di mezzi adeguati.
In aggiunta alle predette considerazioni, si rende necessario tratteggiare, seppure sinteticamente, il reato di cui all’art. 572 c.p. Recentemente la Corte di Cassazione con sentenza n. 19674/2014, ha affermato che: “il reato di maltrattamenti in famiglia è integrato dalla condotta dell’agente che sottopone la moglie ad atti di vessazione reiterata e tali da cagionarle sofferenza, prevaricazione ed umiliazione, poiché costituenti fonti di disagio continuo ed incompatibile con le normali condizioni di esistenza (omissis)”. La giurisprudenza di legittimità con il predetto arresto giurisprudenziale, ha voluto richiamare l’attenzione sulle condotte idonee a concretare il reato di
maltrattamenti in famiglia, sottolineando che quest’ultimo si realizza non solo attraverso comportamenti consistenti in violenze fisiche, ma anche per mezzo di condotte sistematiche ed abituali volte alla sopraffazione psicologica della vittima e tali da alterare le relazioni di tipo familiare.

L’art. 572 c.p.

La norma di cui all’art. 572 c.p. è posta a tutela del vincolo familiare e postula l’esistenza di relazioni intense ed abituali. La persona offesa deve trovarsi in una posizione di soggezione nei confronti dell’autore del reato, il quale ai fini della configurabilità dell’illecito penale in commento, deve agire con l’intenzione di avvilire e sopraffare la vittima per mezzo di atti che si reiterano nel tempo, anche se intervallati da periodi di normalità. La stessa Corte di Cassazione in materia di abitualità della condotta criminosa ed in riferimento alla ricorrenza dell’elemento psicologico del reato, ha affermato che: “ad integrare l’abitualità della condotta, nel delitto di maltrattamenti in
famiglia o contro i fanciulli, è sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, unificati dalla medesima intenzione criminosa, anche se succedutisi per un limitato o per limitati periodi di tempo ed anche se gli atti lesivi siano alternati con periodi di normalità” (Cass. Pen. Sez. VI, n. 43673/2002).
In relazione alla ricorrenza del dolo, la stessa giurisprudenza di legittimità ha sostenuto che: “il dolo nei maltrattamenti in famiglia non richiede la sussistenza di una specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte aggressive e lesive, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; al contrario, è sufficiente la consapevolezza dell’autore del reato di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima” (Cass. Pen. Sez. VI, n. 33106/2003).

Naturalmente il senso di frustrazione, la perdita di autostima che consegue al ripetersi degli atti denigratori e prevaricatori del proprio partner, possono essere talmente gravi da annullare completamente la capacità di reazione della vittima costringendola, seppure di riflesso, a ricorrere a pratiche suicidarie. Ciò costituisce circostanza aggravante del reato di cui si discute.
Un altro problema strettamente correlato alla ricorrenza del fenomeno criminoso della violenza psicologica è dato dalla più o meno risarcibilità del danno esistenziale.
E’ chiaro che il compimento di atti di violenza psicologica, i quali si ripetono nel tempo compromettendo la sfera psichica della vittima e le sue stesse relazioni familiari, pregiudicano, a volte in modo irreparabile, la sfera psichica ed emotiva del soggetto leso e sono idonee ad alterare le sue abitudini di vita. Il pretium doloris che ne consegue, il pregiudizio alle dinamiche personali e sociali e l’incidenza nella qualità della vita intesa come normale realizzazione della persona ed estrinsecazione e formazione della sua personalità, violano deliberatamente i principi sanciti nella nostra Carta Costituzionale soprattutto in riferimento a quanto prevede l’art. 2 e 32. Ciò giustifica il ricorso della vittima di violenza all’Autorità Giudiziaria, al fine di richiedere il risarcimento del c.d. danno esistenziale accompagnato dalla dimostrazione della ricorrenza del nesso di causalità tra condotta pregiudizievole ed evento dannoso psicologico che ne è conseguito.

Dottorini Monia

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