Gli aspetti pratici dell’Interruzione del processo civile non chiariti dalle riforme del processo civile e del codice della crisi.
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Indice
1. L’interruzione del processo civile per l’apertura della liquidazione giudiziale
L’art. 143 del Codice della Crisi (D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14) prevede che “L’apertura della liquidazione giudiziale determina l’interruzione del processo. Il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice”.
La nuova formulazione dell’articolo in esame, quindi, precisa – a differenza di quanto previsto dall’art. 43 della Legge Fallimentare (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267) – il dies a quo per calcolare il termine di tre mesi previsto dall’art. 305 c.p.c..
L’art. 305 c.p.c. (non modificato dalla riforma Cartabia) prevede, infatti, l’estinzione del giudizio qualora, entro il termine di tre mesi dall’interruzione, il processo non è proseguito ai sensi dell’art. 302 c.p.c. o riassunto ai sensi dell’art. 303 c.p.c..
Tuttavia, a mio avviso, si continuano a porre alcuni dubbi meramente pratici. Prima di tutto e principalmente, cosa succede se il giudice non dichiara l’interruzione?
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2. Il dies a quo e la “conoscenza” dell’evento interruttivo
La formulazione dell’art. 305 c.p.c. è vaga sul dies a quo e la riforma Cartabia non ha precisato alcunché.
Precisamente, ci si è a lungo chiesti se il termine di tre mesi decorra da quando l’evento interruttivo si è verificato o da quando se ne ha conoscenza e, in tal caso quale forma debba avere.
La giurisprudenza maggioritaria ha affermato che sebbene il giudizio si interrompa ipso iure, “non è sufficiente la sola conoscenza da parte del curatore fallimentare dell’evento interruttivo rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, ma è necessaria anche la conoscenza dello specifico giudizio sul quale detto effetto interruttivo è in concreto destinato ad operare. La conoscenza, deve inoltre essere “legale”, cioè acquisita non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione, o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, assistita da fede privilegiata”[1].
Inoltre, l’onere di provare che la conoscenza legale dell’evento interruttivo sia anteriore al trimestre precedente la riassunzione incombe su colui che eccepisce l’estinzione del giudizio.
3. Aspetti pratici
L’art. 143 del Codice della Crisi nella parte in cui prevede che “Il termine per la riassunzione del processo interrotto decorre da quando l’interruzione viene dichiarata dal giudice” chiarisce, quindi, da quando decorre il termine dei tre mesi per la riassunzione del giudizio.
Il legislatore fallimentare ha, quindi, voluto ribadire il principio della conoscenza legale. Il dies a quo decorre da quanto si ha ufficiale comunicazione alle parti.
Alcuni dubbi pratici, tuttavia, permangono.
Poniamo un caso concreto. Una parte informa il Giudice dell’intervenuta apertura della liquidazione giudiziale. Il giudice dichiara, quindi, l’interruzione del giudizio e “manda alla cancelleria” la relativa comunicazione alle parti.
Cosa succede se la cancelleria non fornisce alcuna comunicazione?
Possiamo ritenere che il dies a quo decorre dal momento in cui la parte ne abbia dato comunicazione al Giudice? Considerando che ormai il processo è telematico, ogni parte del giudizio può avere conoscenza – tramite accesso agli atti – dell’evento interruttivo.
A mio avviso, tuttavia, è da escludersi una risposta affermativa a tale ultima domanda. La norma è chiara: il termine decorre dalla dichiarazione del giudice. La ragione è probabilmente data dal fatto che la dichiarazione di interruzione del giudizio viene comunicata (via pec) alle parti. Pertanto, solo così il requisito della conoscenza legale è soddisfatto.
Ma rimane il problema nel caso in cui la cancelleria ne dà comunicazione solo ad una parte (si pensi al caso di più parti in un giudizio) o, nel caso peggiore, se non fornisce alcuna comunicazione. Quando decorre il termine dei tre mesi ex art. 305 c.p.c.?
Il rischio è, evidentemente, che il termine di tre mesi non inizia a decorrere.
Oltre a sollecitare insistentemente la cancelleria perché provveda alla comunicazione, forse vale la pena notificare alle altre parti l’evento interruttivo del giudizio al fine di far decorrere il termine ex art. 305 c.p.c..
Del resto solo in questo modo, è possibile sostenere che il principio della conoscenza legale è soddisfatto comunque. Mi sembra, peraltro, un’interpretazione con quanto piuttosto recentemente le Sezioni Unite hanno precisato[2]:
“in caso di apertura del fallimento, ferma l’automatica interruzione del processo (con oggetto i rapporti di diritto patrimoniale) che ne deriva ai sensi dell’art. 43, comma 3, l.fall., il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità̀ ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre da quando la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, ove già non conosciuta nei casi di pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va direttamente notificata alle parti o al curatore da ogni altro interessato ovvero comunicata – ai predetti fini – anche dall’ufficio giudiziario, potendo inoltre il giudice pronunciarla altresì̀ d’ufficio, allorché́ gli risulti, in qualunque modo, l’avvenuta dichiarazione di fallimento medesima”.
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