Insulti su Facebook? Reato di diffamazione

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A deciderlo è la prima sezione penale della Corte di Cassazione con la sentenza 16 aprile 2014 n. 16712, annullando recisamente l’assoluzione accordata a un Maresciallo della Guardia di Finanza di San Miniato nel Pisano, responsabile di aver offeso un suo collega avvalendosi di espressioni diffamatorie, giacché quest’ultimo l’aveva sostituito in un incarico di lavoro.

 

“Attualmente defenestrato a causa dell’arrivo di un collega raccomandato e leccaculo…ma me ne fotto per vendetta….”

 

Son bastate queste parole, scritte dal Maresciallo su Facebook a far emettere a suo carico una pronuncia di condanna dal tribunale di Roma a tre mesi di reclusione militare per diffamazione pluriaggravata.

La Corte d’ Appello della capitale l’aveva poi assolto per insussistenza del fatto,  poiché le espressioni anonime da lui adoperate impedivano la diretta identificazione dell’interessato se non ad una ristretta cerchia di utenti del social network, non avendo egli fatto alcuna menzione del nome del suo successore e del ruolo di comando in cui questo era subentrato. 

Il procuratore generale militare aveva allora immediatamente impugnato la sentenza di secondo grado in Cassazione, sottolineando come la pubblicazione sul network bastasse a render note le offese a più “soggetti indeterminati iscritti al social network e che chiunque, collega o conoscente dell’imputato, avrebbe potuto individuare la persona offesa”.

Ricorso che la prima sezione penale della Suprema Corte ha ritenuto fondato.

 

“Ai fini dell’integrazione del reato di diffamazione è sufficiente che il soggetto la cui reputazione è lesa sia individuabile da parte di un numero limitato di persone, indipendentemente dalla indicazione nominativa” .

Tale assunto risulta constatabile dall’indicazione sul profilo dell’autore, favorita inoltre dall’impiego dell’avverbio “attualmente” in relazione alla funzione di comando rivestita.

Va inoltre ricordato che: “Il reato di diffamazione non richiede il dolo specifico, essendo sufficiente ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie la consapevolezza di pronunciare una frase lesiva dell’altrui reputazione e la volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due”. 

Pertanto, così la Corte ha concluso:  “non può non tenersi conto dell’utilizzazione del social network, a nulla rilevando che non si tratti di strumento finalizzato a contatti istituzionali tra appartenenti alla Guardia di Finanza, nè alla circostanza che in concreto la frase sia stata letta soltanto da una persona”.

Appare dunque evidente, stante la fattispecie esaminata, come il web non possa più ritenersi un ambito esente da applicazione giuridica, essendo sempre più spesso luogo di espressione di individualità, ma debba altresì esser riconosciuto come area meritevole di un’idonea tutela da parte dell’ordinamento.

Federica Cazzetta

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