Ingresso e soggiorno illegale: la Consulta salva il reato e respinge la depenalizzazione

La Consulta salva il reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato: legittima la scelta politica di non depenalizzare l’art. 10-bis TUI.

Allegati

La Consulta dichiara non costituzionalmente illegittimo l’art. 3 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, “reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato“: vediamo perché. Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.

Corte costituzionale -sentenza n. 81 del 19-05-2025

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Indice

1. Una questione già nota ma riproposta: il nodo dell’art. 10-bis d.lgs. 286/1998


Il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, era chiamato a giudicare, quale giudice di appello, in relazione ad una sentenza con cui l’imputato era stato condannato in ordine al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
Orbene, in questa occasione, il giudice fiorentino – dopo avere fatto presente di avere già sollevato, nel corso del medesimo giudizio, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 4, del d.lgs. n. 8 del 2016 e, in via subordinata, dell’art. 1, comma 1, del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 7 (Disposizioni in materia di abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell’articolo 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67), censurandoli, in riferimento all’art. 76 Cost., in ragione dell’omessa depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, rilevando al contempo che, con la sentenza n. 88 del 2024, la Consulta dichiarava non fondata la questione sollevata in via principale e inammissibile, per aberratio ictus, quella sollevata in via subordinata – riteneva di dovere nuovamente sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), «nella parte in cui non prevede l’abrogazione, trasformandolo in illecito amministrativo», del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero).
In particolare, secondo tale autorità giudicante, codesta nuova questione sarebbe stata rilevante giacché, dal suo accoglimento, sarebbero conseguite la depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato e l’assoluzione dell’imputato.
Ciò posto, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rilevava in limine che, se l’art. 2, comma 1, della legge 28 aprile 2014, n. 67 (Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili) ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per la riforma della disciplina sanzionatoria dei reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative e civili», tuttavia, l’art. 3 del d.lgs. n. 8 del 2016, non trasformando in illecito amministrativo il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, «nell’ambito della depenalizzazione delle fattispecie di reato (di cui alle leggi speciali) previste nominativamente dall’art. 2» della legge n. 67 del 2014, violerebbe l’art. 76 Cost., in quanto nella specie non verrebbe in rilievo un’ipotesi di «mancato esercizio» o di «esercizio solo parziale» della legge delega, ma «la violazione [dello] specifico principio e criterio direttivo» dettato dall’art. 2, comma 3, lettera b), che sarebbe inequivoco nel prevedere che il Governo dovesse trasformare in illecito amministrativo il suddetto reato, tenuto conto altresì del fatto che la depenalizzazione in questione, del resto, «risponde[erebbe] perfettamente alla logica ispiratrice» della legge n. 67 del 2014, vale a dire al «principio del ricorso minimo al diritto penale e [al]la razionalizzazione e accelerazione dei tempi del processo penale», essendo il reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 foriero di «aggravi per gli uffici giudiziari».
Oltre a ciò, il Tribunale fiorentino faceva presente come «il tema della depenalizzazione del reato» de quo sarebbe «stato uno di quelli più centrali nell’ambito della discussione assembleare», considerato anche che, in una fattispecie asseritamente analoga a quella oggetto dell’odierno incidente, il Giudice delle leggi avrebbe escluso che si fosse in presenza di «un mancato» o «parziale» esercizio della delega, ritenendo piuttosto di dover valutare se il Governo avesse, o meno, errato nel dare applicazione al criterio direttivo posto a fondamento della censura (è citata la sentenza n. 223 del 2019).
Tra l’altro, il giudice rimettente sollecitava, nell’ipotesi in cui venisse accolta la questione sollevata, infine, i giudici di legittimità costituzionale a dichiarare, «in via consequenziale», l’illegittimità costituzionale anche dell’art. 10-bis, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, «nella parte in cui prevede la pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro anziché la sanzione amministrativa da 5.000 a 10.000 euro», oltre a individuare, in estremo subordine, l’art. 2, comma 2, lettera e), della legge n. 67 del 2014, quale ulteriore soluzione reputata adeguata, per la richiesta pronuncia sostitutiva, chiedendo quindi la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 10-bis, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 «nella parte in cui prevede la pena dell’ammenda da 5.000 a 10.000 euro anziché la sanzione amministrativa da 5.000 a 50.000 euro». Per approfondimenti in materia, consigliamo il volume “Immigrazione, asilo e cittadinanza”, acquistabile sia su Shop Maggioli che su Amazon, un testo di riferimento in materia di diritto all’immigrazione.

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Paolo Morozzo della Rocca | Maggioli Editore

2. La soluzione adottata dalla Consulta


La Corte costituzionale stimava la questione suesposta infondata.
Nel dettaglio, il Giudice delle leggi notava prima di tutto che, come chiarito sempre in sede di giustizia costituzionale, la legge n. 67 del 2014 persegue «l’obiettivo di deflazionare il sistema penale, sostanziale e processuale, in ossequio ai principi di frammentarietà, offensività e sussidiarietà della sanzione criminale. La chiara finalità politico-criminale delle deleghe recate dalla suddetta legge è quindi rinvenibile nell’esigenza di un alleggerimento del sistema penale coerente con il principio della extrema ratio del ricorso alla pena» (sentenza n. 88 del 2024).
Orbene, per la Consulta, è proprio in questa prospettiva che l’art. 2 della legge in esame, al comma 1, ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi «per la riforma della disciplina sanzionatoria dei reati e per la contestuale introduzione di sanzioni amministrative e civili» fermo restando che, per conseguire l’obiettivo della deflazione, si è fatto ricorso a due distinti strumenti: da un lato, alla depenalizzazione, mediante la trasformazione di un insieme di reati in illeciti amministrativi; dall’altro, all’abrogazione di alcuni reati, con la contemporanea sottoposizione dei corrispondenti fatti a sanzioni pecuniarie civili a carattere punitivo, che si aggiungono all’obbligo delle restituzioni e del risarcimento del danno secondo le leggi civili.
Chiarito ciò, quanto alla depenalizzazione, i giudici di legittimità costituzionale notavano come il legislatore delegante ne abbia individuato l’oggetto utilizzando due criteri selettivi, vale a dire: a) il primo, previsto dall’art. 2, comma 2, lettera a), della legge n. 67 del 2014, è quello consistente nella cosiddetta depenalizzazione “cieca”, basata su una clausola generale che demanda al legislatore delegato la trasformazione in illeciti amministrativi di «tutti i reati» puniti con la «sola pena della multa o dell’ammenda», a eccezione di quelli riconducibili ad alcune materie (edilizia e urbanistica; ambiente, territorio e paesaggio; alimenti e bevande; salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; sicurezza pubblica; giochi d’azzardo e scommesse; armi ed esplosivi; elezioni e finanziamento ai partiti; proprietà intellettuale e industriale); b) il secondo è previsto dalle lettere da b) a d) della stessa disposizione, che hanno indicato nominatim numerose fattispecie di reato contemplate sia dal codice penale che dalla legislazione speciale.
Ciò posto, si faceva oltre tutto presente che, durante i lavori parlamentari –ulteriormente precisava la sentenza n. 88 del 2024 – «la materia dell’immigrazione, inizialmente compresa nell’elenco di quelle sottratte alla depenalizzazione “cieca” (disegno di legge A.S. n. 110), è stata in seguito soppressa (in forza del subemendamento n. 1.0.100/5 approvato dalla Commissione giustizia del Senato della Repubblica), con il contestuale inserimento (in quello che sarebbe poi divenuto il comma 3, lettera b, dell’art. 2 della legge n. 67 del 2014) della previsione dell’abrogazione del reato di cui all’art. 10-bis del citato d.lgs. n. 286 del 1998», considerato tra l’altro che, a questa prima modifica in senso (meramente) abrogativo, nel corso dei lavori, è tuttavia seguito l’intervento del Governo che, «con altro emendamento, ha introdotto la previsione, accanto alla suddetta abrogazione, della trasformazione in illecito amministrativo del reato in parola, nonché quella secondo cui sarebbe invece dovuta rimanere ferma la rilevanza penale di altre violazioni in materia di immigrazione, giungendosi così alla formulazione dell’attuale art. 2, comma 3, lettera b), della legge n. 67 del 2014, che così dispone: “abrogare, trasformandolo in illecito amministrativo, il reato previsto dall’articolo 10-bis del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, conservando rilievo penale alle condotte di violazione dei provvedimenti amministrativi adottati in materia”».
Ebbene, per la Corte, alla luce di tale dinamica dei lavori parlamentari, risulta dunque chiaro che, nonostante l’impropria collocazione, «la sedes materiae in cui deve essere considerato, al fine di valutare il possibile contrasto con l’art. 76 Cost., il problema della mancata abrogazione e trasformazione in illecito amministrativo del reato di cui al citato art. 10-bis» è la cosiddetta depenalizzazione nominativa, data la presenza di una esplicita previsione che individua nominatim il reato in questione (ancora, sentenza n. 88 del 2024).
Se, pertanto, la disposizione denunciata, vale a dire l’art. 3 del d.lgs. n. 8 del 2016, riguarda i reati previsti dalla legislazione speciale e non contempla quello di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato, per la Consulta, le ragioni di tale omissione emergono, però, nella relazione di accompagnamento allo schema di decreto legislativo sottoposto al parere delle competenti commissioni parlamentari, essendo stato ivi precisato che le «ragioni politiche sottese alla scelta di non attuare le direttive di depenalizzazione […] sono di agevole comprensione: si tratta di fattispecie che intervengono su materia “sensibile” per gli interessi coinvolti, in cui lo strumento penale appare come indispensabile per la migliore regolazione del conflitto con l’ordinamento innescato dalla commissione della violazione», tenuto conto altresì del fatto che, nella medesima relazione, si precisa inoltre quanto segue: «ciascuna previsione di depenalizzazione ha autonomia strutturale rispetto all’intero contesto di prescrizioni impartite al legislatore delegato. Questi, pertanto, nel momento in cui ritiene di svolgere una precisa opzione di opportunità politica, non esercitando la delega in riguardo ad uno o più dei reati oggetto delle previsioni di depenalizzazione, dà luogo ad un parziale recepimento della stessa, per esercizio frazionato del potere devolutogli che non intacca la conformità alle direttive nella parte in cui, invece, la delega è attuata».
Di conseguenza, non priva di significato, ai fini del controllo operato dalla Corte costituzionale, ad avviso di codesta Corte, è la circostanza che su tale conclusione abbia convenuto la Commissione giustizia (II) della Camera dei deputati che, nel parere reso sullo schema di decreto legislativo (A.G. 245), ha rilevato che la scelta di non procedere alla depenalizzazione del reato di cui all’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998 «non incide sulla legittimità del provvedimento in esame, in quanto non si tratta di una violazione dei principi di delega quanto piuttosto di un mancato esercizio della delega su un particolare punto, che comunque è del tutto autonomo rispetto alle altre ipotesi di depenalizzazione […]» visto che, come più volte rilevato in sede di giustizia costituzionale, «il parere delle Commissioni parlamentari non è vincolante, né esprime interpretazioni autentiche della legge delega, ma costituisce pur sempre elemento che contribuisce alla corretta esegesi di quest’ultima» (ex plurimis, sentenza n. 96 del 2020).
Infine, nella relazione illustrativa dello schema definitivo del decreto legislativo, il Giudice delle leggi denotava come si sia ribadito che il Governo «non […] ritiene di esercitare la delega» in parte qua, in considerazione delle «ragioni politiche sottese alla scelta di non attuare le direttive di depenalizzazione», legate al «carattere particolarmente sensibile degli interessi coinvolti dalle fattispecie».
In questi termini, di conseguenza, per la Consulta, l’omessa depenalizzazione in questione deve essere collocata, al fine della pertinente valutazione di legittimità costituzionale, nell’ambito del rispetto dell’oggetto definito dalla legge delega, trattandosi della mancata attuazione di una sua parte, più che in quello della violazione dei veri e propri principi e criteri direttivi, tanto più se si tiene a mente quel consolidato orientamento sostenuto sempre dalla Consulta, a tenore del quale: «il mancato o incompleto esercizio della delega non comporta di per sé la violazione degli artt. 76 e 77 della Costituzione, salvo che ciò non determini uno stravolgimento della legge di delegazione» (ordinanza n. 283 del 2013; nello stesso senso, ex multis, sentenze n. 304 del 2011 e n. 149 del 2005).
Quando una tale alterazione non è riscontrabile, per la Corte, l’omissione del legislatore delegato può quindi determinare una responsabilità politica del Governo verso il Parlamento, «non certo una violazione di legge costituzionalmente apprezzabile» (già sentenza n. 8 del 1977), fermo restando che questo orientamento, sul cosiddetto eccesso di delega in minus, è stato da ultimo ribadito dalla sentenza n. 223 del 2019 sempre emessa da parte dei giudici di legittimità costituzionale.
Sempre ad avviso del Giudice delle leggi, l’omessa depenalizzazione in oggetto non determina, inoltre, quello stravolgimento della legge di delegazione invece evocato dal rimettente, peraltro non in coerenza con la sostenuta ininfluenza dell’argomento dell’eccesso di delega in minus posto che l’omessa attuazione attiene a una singola fattispecie di reato, sicché non è idonea a minare il complessivo disegno del legislatore delegante, che ha previsto un’azione di depenalizzazione, “cieca” e nominativa, ad ampio spettro, concernente una vasta platea di reati.
Per la Corte costituzionale, la mancata depenalizzazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato non è, quindi, suscettibile di pregiudicare in radice il progetto del legislatore delegante considerato che la Commissione giustizia della Camera dei deputati ha, del resto, precisato che la scelta del Governo si risolve in «un mancato esercizio della delega su un particolare punto, che comunque è del tutto autonomo rispetto alle altre ipotesi di depenalizzazione», così come la giurisprudenza di legittimità, peraltro, ha già ritenuto manifestamente infondate questioni di legittimità costituzionale in cui si lamentava il solo parziale esercizio delle deleghe conferite con l’art. 2 della legge n. 67 del 2014, con specifico riferimento al reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato (Corte di Cassazione, Sezione prima penale, sentenza 14 ottobre 2016-11 maggio 2017, n. 23295).
La Corte costituzionale, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, pertanto, dichiarava non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 (Disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67), sollevata, in riferimento all’art. 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nell’ordinanza summenzionata.

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3. Conclusioni: non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8 nella parte in cui non prevede l’abrogazione, trasformandolo in illecito amministrativo», del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286


Con la decisione qui in esame, come appena visto, la Consulta ha ritenuto come l’art. 3 del decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8[1] non sia in contrasto con la nostra Legge fondamentale, e segnatamente per violazione dell’art. 76 della Costituzionale, nella parte in cui codesto precetto normativo non prevede l’abrogazione, trasformandolo in illecito amministrativo», del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato di cui all’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286.
Va da sé dunque che, alla luce di tale provvedimento, siffatto reato continua a rimanere tale, non potendolo considerare in alcun modo come illecito amministrativo.
Questa è quindi la novità che contraddistingue siffatta decisione.

Note


[1]Ai sensi del quale: “1. Alla legge 8 gennaio 1931, n. 234, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 8, primo comma, in fine, dopo la parola «reato» sono aggiunte le seguenti: «, o delle sanzioni amministrative pecuniarie, qualora si tratti di illeciti amministrativi»; b) all’articolo 11: 1) al primo comma, le parole «reato più grave, con una ammenda da lire 40.000 a lire 400.000 o con l’arresto fino a due anni» sono sostituite dalle seguenti: «reato, con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000»; 2) il secondo comma è sostituito dal seguente: «Chiunque commette la violazione indicata nel primo comma, dopo avere commesso la stessa violazione accertata con provvedimento esecutivo, è punito con l’arresto fino a tre anni o con l’ammenda da euro 30 a euro 309.»; 3) al terzo comma dell’articolo 11, le parole «Si fa luogo alla confisca, a termini del Codice di procedura penale» sono sostituite dalle seguenti: «Si fa luogo a confisca amministrativa»; c) l’articolo 12 è abrogato. 2. Alla legge 22 aprile 1941, n. 633, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all’articolo 171-quater, primo comma, le parole «più grave reato, è punito con l’arresto sino ad un anno o con l’ammenda da lire un milione a lire dieci milioni» sono sostituite dalle seguenti: «reato, è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000»; b) all’articolo 171-sexies, comma 2, le parole «e 171-ter e 171-quater» sono sostituite dalle seguenti: «171-ter e l’illecito amministrativo di cui all’articolo 171-quater». 3. All’articolo 3 del decreto legislativo luogotenenziale 10 agosto 1945, n. 506, sono apportate le seguenti modificazioni: a) le parole «è punito con l’arresto non inferiore nel minimo a sei mesi o con l’ammenda non inferiore a lire 2.000.000» sono sostituite dalle seguenti: «è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000»; b) le parole «la pena è dell’arresto non inferiore a tre mesi o dell’ammenda non inferiore a lire 1.000.000» sono sostituite dalle seguenti: «si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 30.000». 4. All’articolo 15 della legge 28 novembre 1965, n. 1329, secondo comma, le parole «è punito con la pena dell’ammenda da lire 150.000 a lire 600.000 o con l’arresto fino a tre mesi» sono sostituite dalle seguenti: «è soggetto alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 15.000». 5. L’articolo 16, quarto comma, del decreto-legge 26 ottobre 1970, n. 745, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 1970, n. 1034, è sostituito dal seguente: «All’installazione o all’esercizio di impianti in mancanza di concessione si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000.». 6. L’articolo 2, comma 1-bis, del decreto-legge 12 settembre 1983, n. 463, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 1983, n. 638, è sostituito dal seguente: «1-bis. L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.». 7. All’articolo 28, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, le parole «è punito, salvo che il fatto costituisca reato più grave, con l’arresto sino ad un anno o con l’ammenda da lire un milione a lire quattro milioni» sono sostituite dalle seguenti: «è soggetto, salvo che il fatto costituisca reato, alla sanzione amministrativa pecuniaria da euro 5.000 a euro 30.000»”

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

Avvocato e giornalista pubblicista. Cultore della materia per l’insegnamento di procedura penale presso il Corso di studi in Giurisprudenza dell’Università telematica Pegaso, per il triennio, a decorrere dall’Anno accademico 2023-2024. Autore di diverse pubblicazioni redatte per…Continua a leggere

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