Influenza del principio di legalità penale sancito dall’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sul diritto penale interno – natura della confisca prevista in tema di lottizzazione abusiva da

Tiziana Caboni 08/01/14
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Il principio di legalità penale, spesso indicato con il brocardo latino nullum crimen nulla poena sine lege, si caratterizza per un rilievo di priorità logica tra tutti i principi che si pongono a fondamento dell’ordinamento penale interno.

Esso ha ricevuto compiuta espressione solo a partire dall’epoca illuminista nell’ambito della cui scuola di pensiero è stato inteso come il divieto di punire a posteriori taluno per una condotta attiva od omissiva non penalmente sanzionata nel momento in cui è stata posta in essere, per quanto eticamente o giuridicamente disdicevole.

Il fondamento normativo di tale principio viene individuato, in primo luogo, nell’art. 25, comma 2 e 3, Cost., nonché, a livello primario, negli artt. 1 e 199 c.p. e art. 1 l. 689/1981 e in una serie di fonti sovranazionali, tra le quali particolare carica significativa assume l’art. 7, comma 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

Tale norma stabilisce che nessun cittadino degli Stati membri della CEDU può essere condannato per una azione od una omissione la quale, al momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale, così come non può essere inflitta una pena connotata da maggiore gravità rispetto a quella applicabile al momento in cui è stato posto in essere l’illecito penale.

Così come formulata, appare evidente che la norma non si limita alla semplice proibizione dell’applicazione retroattiva del diritto penale a discapito dell’imputato, ma consacra, in via generale, un principio comune a tutti gli Stati aderenti alla Convenzione, ossia quello della legalità dei reati e delle pene, facendo peraltro divieto agli stessi Stati di procedere all’applicazione estensiva o analogica della legge penale così da comportare un detrimento per il reo. Solo e soltanto la legge, infatti, è deputata a stabilire in modo chiaro quali fatti siano idonei ad essere criminalizzati, in quanto offensivi dei beni ritenuti meritevoli di tutela dall’ordinamento, conseguentemente prevedendo delle sanzioni proporzionate in astratto al rango del bene protetto e

in concreto alla personalità dell’imputato.

Trattasi dunque di un principio non connotato da una particolare carica innovativa, dovendosi piuttosto intendere lo stesso quale previsione volta, nell’ottica garantista alla quale si ispira la CEDU, a positivizzare un minimo comun denominatore di legalità tra gli Stati membri della Convenzione, così da evitare il verificarsi di vistose deviazioni dallo Stato di diritto.

Giova tuttavia sottolineare che l’art. 7, comma 1, CEDU è una norma che non offre un modello legale capace di incidere in positivo sulle tradizioni penali degli Stati parte in quanto non prevede tra i suoi corollari la riserva di legge, non postula l’esigenza di una norma scritta, non sancisce il principio di retroattività della legge favorevole al reo, fissato al contrario dall’art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici e, limitatamente alle sanzioni comunitarie, dall’art. 2, n. 2, Reg. CE 2988/1995, e, infine, non offre per i diritti dell’uomo un sistema di tutela più avanzata e completa rispetto a quella assicurata dalle leggi interne dei Paesi membri.

Proprio la limitata incidenza di tale norma della CEDU, convenzione che, per consolidata giurisprudenza costituzionale e comunitaria, costituisce un canone di verifica della compatibilità con i principi costituzionali delle norme interne, nonché criterio di interpretazione e di adeguamento delle stesse, ha portato la Corte di Strasburgo a riempire la citata norma di significativi contenuti tali da delineare due particolari tendenze verso le quali sarebbe volto il principio di legalità penale di cui al citato art. 7, comma 1, della Convenzione, entrambe caratterizzate dall’idoneità a produrre un effetto di innovazione e di rafforzamento della portata garantista propria dei principi di legalità e di irretroattività sottesi alla norma in esame.

La prima di tali tendenze è stata individuata dai giudici europei nella cosiddetta accessibilità e prevedibilità della norma penale in forza della quale si assiste ad una valorizzazione degli aspetti qualitativi della legalità non più individuati nella sola determinatezza, ma estesi alla prevedibilità ed accessibilità delle fonti legali e della correlata giurisprudenza.

Appare, tuttavia, più significativa la seconda tendenza definita come concezione autonomista dell’illecito penale e della sanzione penale dalla Corte di Strasburgo, secondo la quale, dovendosi concepire il diritto interno come punto di partenza e non come punto di arrivo, si deve procedere ad un’opera di ampliamento dell’ambito applicativo dei principi di legalità e irretroattività oltre gli illeciti e le pene formalmente intesi come penali in base al diritto interno, così da estendere tale ambito a tutte le norme e alle misure considerate intrinsecamente penali. In sostanza, secondo la concezione autonomista, la Corte, al fine di verificare se una determinata misura possa o meno essere considerata quale pena ai sensi della Convenzione, è autorizzata ad andare oltre le apparenze, da ciò derivando che le nozioni di pena e di accusa penale rilevanti per il rispetto della CEDU scaturiscono dall’interpretazione autonomamente fornita dalla stessa Corte, la quale ha peraltro affermato che devono intendersi come ricomprese nel diritto penale, in generale, tutte quelle infrazioni che espongono gli autori alla sottoposizione a pene destinate ad esercitare effetti dissuasivi e consistenti nella privazione della libertà personale e nelle ammende.

In particolare, con riferimento alla qualificazione autonoma dell’illecito penale i giudici europei hanno indicato due criteri, consistenti nella natura generale dell’infrazione e nella natura e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi, attraverso i quali può avere luogo l’estensione delle garanzie di cui all’art. 7 CEDU a tutti quegli illeciti non qualificati come aventi carattere penale dal diritto interno. Quanto al primo criterio, è stato affermato che lo stesso possa essere individuato attraverso i sottocriteri della tipologia di comportamento sanzionato dalla norma, della struttura della norma, della proiezione comparatista della violazione, delle eventuali regole procedurali alle quali è assoggettato l’illecito nonché della particolare qualifica dei relativi soggetti attivi. Con riferimento, invece, alla natura e alla gravità della sanzione volta a scopi di carattere preventivo e punitivo, posto che, sebbene l’individuazione del carattere penale della sanzione dovrebbe essere eseguita, teoricamente, guardando alla pena edittale, la stessa sia, di fatto, accertata avendo riguardo alla pena concretamente irrogata, la giurisprudenza europea ha elaborato i sottocriteri delle caratteristiche tipologiche della sanzione, del suo quantum e delle modalità di esecuzione della stessa.

La concezione autonomista, come si è detto, attiene anche alla qualificazione in termini autonomi di una misura come sanzione penale: sul punto, la Corte di Strasburgo ha affermato che tale risultato può essere conseguito solo qualora sussistano i precisi indici della qualificazione prevalente in termini penali operata dagli Stati membri, della natura generale dell’infrazione, della natura e gravità della sanzione diretta a fini preventivi e punitivi e del collegamento con una violazione penale. La ricorrenza di tali indici darebbe vita, dunque, alle cosiddette pene camuffate ossia le sanzioni e le misure non qualificabili come pene in senso stretto secondo il diritto penale interno, le quali, tuttavia, per effetto dell’applicazione rigorosa dei criteri indicati, acquisiscono carattere penale autonomo.

Non vi è dubbio, pertanto, che il principio di legalità penale sancito dall’art. 7 CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza europea, si configuri quale norma capace di incidere sui confini applicativi degli istituti di diritto interno, incidenza la quale dovrà essere oggetto di un’attenta e ponderata valutazione del giudice nazionale al fine di consentire che la norma sancita dalla Convenzione si atteggi, di fatto, a canone di interpretazione e di adeguamento del diritto interno.

Tale problema di incidenza applicativa si è posto con particolare riferimento alla tematica della natura della confisca di cui all’art. 44, comma 2, d.p.r. 380/2001 dettata dal legislatore in tema di lottizzazione abusiva, fattispecie criminosa, inizialmente prevista e punita ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 20 l. 47/1985 e successivamente confluiti negli artt. 30 e 44 del citato d.p.r., consistente in una complessa attività materiale o negoziale a formazione progressiva capace di comportare la sottrazione del territorio alla sua normale e corretta destinazione urbanistica.

Preliminarmente all’esame della natura giuridica, particolarmente dibattuta, della confisca urbanistica, è d’uopo sottolineare che, come recentemente sancito dalla Corte Costituzionale, la confisca può presentarsi con varia natura, per cui se il suo contenuto è rappresentato dalla privazione di beni aventi carattere economico, essa può essere disposta per differenti motivi e per varie finalità, così da assumere, a seconda dei casi, natura di sanzione penale, di misura di sicurezza o di misura avente carattere civile o amministrativo.

Ora, mentre la confisca ordinaria prevista dall’art. 240 c.p. è una misura di sicurezza patrimoniale basata sulla pericolosità della cosa alla quale la giurisprudenza, dopo un’iniziale tendenza volta a ricondurla nella categoria dei provvedimenti amministrativi al pari degli atti amministrativi di polizia, ha riconosciuto natura di vera e propria sanzione penale, con conseguente assoggettamento al principio di legalità di cui all’art. 25, comma 3, Cost., la questione si pone in termini evidentemente più intricati per la confisca disciplinata dalla legislazione urbanistica.

Essa prevede, infatti, all’art. 44, comma 2, d.p.r. 380/2001 che con la sentenza definitiva che accerta la sussistenza del reato di lottizzazione abusiva il giudice penale deve disporre la confisca dei terreni oggetto di lottizzazione abusiva e delle opere abusivamente costruite su di essi. Tali terreni, per effetto della confisca, vengono acquisiti di diritto e gratuitamente al patrimonio del comune nel cui territorio è avvenuta la lottizzazione.

Un risalente orientamento della giurisprudenza di legittimità aveva classificato la confisca in esame quale sanzione penale, come tale applicabile unicamente ai beni dell’imputato riconosciuto colpevole del reato di lottizzazione abusiva, conformemente all’art. 240 c.p.

Diversamente, l’elaborazione giurisprudenziale successiva, stante la caratteristica della confisca urbanistica di espropriazione non a favore dell’autorità statale, come nel caso di quella ordinaria, ma di quella comunale, le ha attribuito il carattere reale di sanzione amministrativa obbligatoria disposta dal giudice penale in funzione di supplenza rispetto alla pubblica amministrazione, semplicemente sulla base dell’accertata sussistenza dell’elemento oggettivo del reato, ossia la lottizzazione abusiva, a prescindere dall’elemento soggettivo, potendo pertanto il giudice penale disporla anche in caso di sentenza di assoluzione, tranne che la formula di proscioglimento fosse quella più ampia dell’insussistenza del fatto. Tale orientamento ha ricevuto autorevole avallo anche dalla Corte Costituzionale, non patendo, peraltro, alcun mutamento neanche a seguito dell’entrata in vigore del Testo unico in materia edilizia, il citato d.p.r. 380/2001 appunto, nonostante la previsione della confisca fosse inserita nel corpo di una norma rubricata “sanzioni penali”.

Una chiave di volta in materia si è verificata con il recentissimo intervento della Corte di Strasburgo, chiamata in due differenti occasioni a statuire sulla vicenda della lottizzazione abusiva di Punta Perotti, ossia su un procedimento penale piuttosto lungo conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati dalle contravvenzioni in materia urbanistica, edilizia e ambientale loro ascritte per mancanza dell’elemento soggettivo e dunque con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Con la sentenza il giudice nazionale aveva inoltre disposto la confisca dei terreni abusivamente lottizzati nonché dei complessi immobiliari realizzati su taluni dei terreni oggetto di lottizzazione illecita.

La principale questione affrontata dalla giurisprudenza europea attiene alla configurabilità della confisca in esame come sanzione penale, invece che come sanzione amministrativa, e dunque contrariamente a quanto affermato dai giudici nazionali.

La Corte pone a fondamento della sua opzione ermeneutica il principio di legalità di cui all’art. 7 CEDU ritenendo di dover attribuire ad esso una portata applicativa più ampia rispetto a quella riservatagli dal diritto interno. Più esattamente, secondo i giudici di Strasburgo, deve trovare accoglimento la concezione autonomista in precedenza citata con conseguente possibilità di estendere il principio di legalità, ed il correlato principio di irretroattività, a tutte le nome e le sanzioni connotate da un intrinseco carattere penale, andando dunque oltre ciò che appare in prima battuta in modo da poter verificare se un dato fatto e una data sanzione possano dirsi, rispettivamente, reato e pena ai sensi della Convenzione. I caratteri che consentono secondo la Corte di ritenere che una sanzione abbia un autonomo carattere penale vengono individuati nel collegamento con un illecito accertato dal giudice penale, nella natura generale dell’infrazione, nella natura e nella gravità della sanzione caratterizzata da fini, non riparatori, ma preventivi e punitivi, e, infine, nella qualificazione prevalente nel senso di un illecito penale fornita dagli Stati membri. Nel caso di specie, i giudici di Strasburgo sono giunti a statuire la natura penale della confisca urbanistica escludendo che la mancanza di una pronuncia di condanna, essendo gli imputati stati assolti per mancanza dell’elemento morale, possa di per sé precludere l’applicazione della confisca come sanzione penale laddove vi siano altri elementi sintomatici di tale natura, quali la qualificazione legislativa contenuta nella rubrica dell’art. 44, comma 2, d.p.r. 380/2001, lo scopo preventivo e punitivo della sanzione, individuato nella necessità di evitare la commissione di altri reati e nell’immissione degli immobili nel mercato immobiliare, e la gravità della stessa desumibile dall’ampia portata della norma di riferimento.

Proprio la riconosciuta natura penale ha portata la giurisprudenza europea ad interrogarsi sulla sua compatibilità con l’art. 7 CEDU qualora ai fini dell’applicazione della confisca urbanistica si prescinda dalla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

La Corte parte dall’assunto secondo cui, pur essendo previsti dal citato art. 7 i soli principi di legalità e irretroattività, e non anche quello di colpevolezza, quest’ultimo deve intendersi quale presupposto del primo, da ciò derivando che la norma deve essere interpretata nel senso della necessità che sussista, ai fini della punizione, un legame di natura intellettuale individuato nella coscienza e nella volontà, così da poter ascrivere un elemento di responsabilità in capo all’autore materiale del reato.

Nella vicenda di Punta Perotti, al contrario, il giudice nazionale aveva, disponendo la confisca, violato il suddetto principio di colpevolezza giacché era stata accertata la mancanza dell’elemento soggettivo a causa di un errore inevitabile e scusabile derivante dalla non prevedibilità e accessibilità da parte degli imputati della normativa regionale di riferimento. Ciò ha dunque portato i giudici di Strasburgo a statuire l’incompatibilità tra la confisca, intesa come sanzione avente carattere penale, e il principio di legalità sancito dall’art. 7 CEDU qualora, pur essendo stata accertata la sussistenza dell’elemento oggettivo del reato di lottizzazione abusiva, l’imputato sia stato prosciolto con la formula assolutoria “perché il fatto non costituisce reato” e dunque per mancanza dell’elemento morale.

La nuova natura in tal modo sancita della confisca urbanistica, nel rispetto della legalità penale di cui alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, è stata oggetto di analisi ad opera della giurisprudenza nazionale, tanto di merito quanto di legittimità, la quale si è parzialmente adeguata all’orientamento dei giudici di Strasburgo.

In particolare, la giurisprudenza di merito, ritenendo che della opzione ermeneutica prospettata dalla Corte europea debba essere accolta la necessità di una legalità che si fonde con il principio di colpevolezza, è giunta alla pronuncia di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, per violazione degli artt. 3, 25, comma 2, e 27, comma 1, Cost., qualora, in presenza di una accertata lottizzazione abusiva, venga disposta la confisca di cui all’art. 44, comma 2, d.p.r. 380/2001, per terreni e opere abusivamente costruite anche a prescindere da un giudizio di responsabilità e nei confronti di persone estranee al reato.

Quanto alle pronunce della Corte di Cassazione, quest’ultima, pur ritenendo che la confisca urbanistica non debba essere intesa una sanzione penale, ma conservi natura amministrativa con carattere sanzionatorio, ha ritenuto di dover applicare alla stessa i principi dettati dalla l. 689/1981 in tema di sanzioni amministrative, ed in particolare quelli di cui agli artt. 2, 3 e 6, i quali stabiliscono, ai fini della applicabilità di una sanzione amministrativa, la necessità della capacità di intendere e di volere e il requisito della coscienza e della volontà per l’azione, sia essa dolosa o colposa, posta in essere. Diretta conseguenza di tali principi viene così individuata nella impossibilità di applicare una sanzione amministrativa a soggetti terzi in buona fede che non abbiano commesso alcuna violazione e, con specifico riferimento alla confisca di cui al Testo unico edilizio, alla luce di un’interpretazione costituzionalmente compatibile dell’art. 44, comma 2, d.p.r. 380/2001, l’esclusione della confisca per quei beni appartenenti a soggetti terzi estranei al reato e dei quali sia stata accertata la buona fede.

Proprio il rapporto tra la confisca urbanistica e la buona fede dei soggetti terzi acquirenti degli immobili abusivamente lottizzati si pone al centro delle attenzioni della giurisprudenza di legittimità, la quale ha recentemente sancito il principio di diritto secondo cui tali soggetti, pur avendo materialmente contribuito con il proprio atto di acquisto al reato di lottizzazione abusiva, possono essere destinatari della misura della confisca in esame solo qualora sia ravvisabile una condotta colposa circa il carattere abusivo della lottizzazione negoziale o materiale. Non solo, ma è stato ulteriormente precisato che la qualità di acquirente di per sé non è sufficiente a ritenere tale soggetto un terzo rispetto alla lottizzazione abusiva; ciononostante egli, pur avendo materialmente partecipato alla lottizzazione, può dimostrare di aver agito in buona fede, ossia non sapendo, pur avendo impiegato la normale diligenza, di partecipare ad una operazione di lottizzazione abusiva.

La natura di sanzione amministrativa, regolata da disposizioni diverse rispetto a quelle proprie del diritto penale, è stata sostenuta di recente dalla Corte di Cassazione anche in relazione ai profili di compatibilità della stessa con la declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione, negando dunque che l’asserita compatibilità possa di fatto estrinsecarsi in una violazione del combinato disposto degli artt. 117 Cost. e 7, comma 1, CEDU, in quanto la confisca conserva la sua natura sanzionatoria, pur in presenza della suddetta declaratoria, sia perché legata ad un reato estinto ma storicamente esistente, sia perché applicata da un organo che esercita la giurisdizione penale.

In sostanza, la giurisprudenza di legittimità si pone in linea con l’orientamento della Consulta secondo il quale tra le sentenze di proscioglimento ve ne sono alcune che non comportano l’inflizione della pena, ma, attraverso forme e gradazioni differenti, determinano un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o comunque dell’attribuzione del fatto illecito allo stesso.

Pare evidente, dunque, che l’art. 7 CEDU, nel porsi come canone di adeguamento delle norme degli Stati membri della Convenzione, pur consentendo di cogliere la natura intrinsecamente penale della confisca urbanistica, produce sul diritto penale interno un effetto limitativo richiedendo, ai fini dell’applicabilità della confisca in esame, che il reato venga accertato in tutti i suoi elementi costitutivi e non più solamente in quello oggettivo.

Tiziana Caboni

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