Inapplicabilità nella recente giurisprudenza dei giudici di pace del comma 4° dell’art. 91, c.p.c., come riformato dall’art 13, legge n. 17/2/2012, n. 10, in merito alla condanna al pagamento delle spese legali

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Controversa è stata, nell’ultimo anno, sulla scorta della nota nuova regolamentazione della materia dei compensi degli avvocati (d.m. giustizia 20.07.2012 n° 140) l’applicabilità ai giudizi civili dell’art. 91, comma 4°, c.p.c., aggiunto dall’art. 13 del d.l. 22.12.2011 n. 212 (conv. in legge 17.2.2012 n. 10), in merito alla liquidazione delle spese processuali, id est degli onorari di difesa.

Questo il tenore letterale della norma novellata: «Nelle cause previste dall’articolo 82, primo comma [quelle di valore fino ad € 1.100,00, n.d.r.], le spese, competenze ed onorari liquidati dal giudice non possono superare il valore della domanda».

Ebbene, più di un dubbio è stato avanzato in ordine all’applicabilità del novellato art. 91, 4° co., c.p.c., nei giudizi civili, regolamentati, quanto alle spese legali, dal d.m. n. 140/2012, per i motivi che subito s’indicano:

A- L’art. 91., ult. co., c.p.c., novellato è entrato in vigore il 21.2.2012, tempo in cui vigevano ancora le tariffe forensi di cui all’abrogato d.m. dell’8.4.2004 n. 127.

Come anticipato, la materia delle tariffe forensi è stata, successivamente, completamente ridisegnata, e segnatamente a partire dall’entrata in vigore (in data 23-8-2012) del citato d.m. n. 140/2012 (Regolamento recante la determinazione dei parametri per la liquidazione da parte di un organo giurisdizionale dei compensi per le professioni regolarmente vigilate dal Ministero della giustizia, ai sensi dell’articolo 9 del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27), introduttivo dei cc.dd. parametri forensi per scaglioni ed abrogativo, tra l’altro, della distinzione tra diritti ed onorari, di cui ancora si legge nell’art. 91 c.p.c. novellato.

Dell’inapplicabilità del novellato art. 91 ul. co. e’ espressione la nuova giurisprudenza dei Giudici di pace.

In primis, leggasi Giudice di pace di Pozzuoli, sentenza 7 novembre 2012:

La modifica dell’art. 91, ultimo comma, in relazione all’art. 82, primo comma, c.p.c. è avvenuta nella vigenza delle tariffe professionali di cui al D.M. n.127 dell’8/4/04 ed il legislatore ha inteso fissare il nuovo tetto per la liquidazione di spese, diritti ed onorari in tale contesto. Con l’abrogazione del d.m. n.127 dell’8/4/04 e l’avvento dei nuovi parametri di cui al d.m. n. 140 del 20/7/12 (entrato in vigore il 23/8/12), il suddetto tetto non è più vincolante e, le spese più le competenze (che comprendono l’intero corrispettivo per la prestazione professionale – non più suddiviso in diritti ed onorari) devono essere liquidate con le disposizioni ivi previste e, non sono vincolanti per la liquidazione stessa (Art. 1, comma 7, D.M. n.124 del 23/8/12)”.

Ciò è ancora piu’ vero se si considera – continua la sentenza in argomento -, che:

“….nella liquidazione dei compensi professionali, il Giudice deve tener conto del valore e della natura e complessità della controversia, del numero e dell’importanza e complessità delle questioni trattate, il pregio delle stesse ed il decoro della professione (art. 4, comma 2 e 3 del D.M. n.140 del 20/7/12 e art. 2233 c.c.)”. 

Deriva da quanto detto l’iniquità e la non conformità ai detti principi di una liquidazione giudiziale degli onorari rigidamente parametrata sul valore della “sorta capitale”.

In proposito, si rammenti che il Giudice di Pace di Pozzuoli – cui era stato richiesto dalla parte risultata soccombente di sollevare questione di costituzionalità – ha, nella citata pronuncia, reputato non sospetta di illegittimità costituzionale la novellata norma dell’art. 91, ul. co., cpc, ritenendo di ravvisare, in adesione agli indirizzi giurisprudenziali in atto, una soluzione alternativa conforme a Costituzione, che è quella della non applicabilità dell’art. 91, IV, co., cpc, e dell’applicazione, a qualsivoglia giudizio, dei nuovi parametri forensi di cui al d.m. giustizia 20.07.2012 n° 140, entrato in vigore il 23.8.2012, ed applicabile alla presente causa.

B- Il tema della iniquità di una liquidazione nei termini siffatti, che condurrebbe – si ripete –, ad applicare tout court la nuova disposizione alla liquidazione delle spese di patrocinio nelle controversie di valore inferiore ad € 1100,00, è stato affrontato da altro pronunciato, che ha posto in luce l’inevitabile “vulnus” al principio di effettività di tutela giurisdizionale che ne discenderebbe.

Così, Giudice di Pace di Salerno, 2 settembre 2012:

“….nel caso concreto, accadrà che la parte vittoriosa avrà diritto al rimborso di una somma di soli Euro 3,30, inferiore a quella che sarebbe stata liquidata in base alla tariffa professionale ed addirittura inferiore al costo del contributo unificato di Euro 37,00 corrisposto per l’iscrizione a ruolo della causa con la conseguenza che la differenza resta a carico della parte stessa, che di fatto resterà soccombente in giudizio per una somma maggiore (di circa cento volte ) rispetto alla pretesa. In altre parole, posto che il costo minimo per la sola iscrizione a ruolo è di almeno 45,00 Euro (costituiti dalla somma di Euro 37,00 per il contributo unificato e dagli ulteriori diritti di Euro 8,00 per la marca da bollo), in ipotesi di controversie inferiori all’importo di Euro 45,00 l’attore ,non solo, non potrebbe ottenere nemmeno il rimborso del contributo unificato ma, nonostante l’esito favorevole del giudizio, dovrebbe sobbarcarsi anche, il costo delle spese del proprio legale”.

Si determinerebbe, prosegue il Magistrato Salernitano, una disparita’ di trattamento tra vincitore e soccombente, in quanto il vincitore, che in sentenza vede riconosciuto un proprio diritto, risulterà in concreto il vero soccombente, essendo costretto a sobbarcarsi l’onere di pagare il proprio difensore, e perciò subire l’aggravio di un costo non solo da anticipare, ma anche all’esito del giudizio; là dove il soccombente in giudizio, seppur riconosciuto colpevole di aver violato norme di diritto, viene premiato con una condanna limitata al valore della controversia.

C- Ciò è tanto più vero se si considera che l’esaminato art. 91, ult. co., c.p.c., mirerebbe a scongiurare locupletazioni nel cd. ‘contenzioso seriale’, quale non sono
– esemplificando –, le cause nelle quali i consumatori si dolgano di un disservizio – inadempimento contrattuale (quale può essere quello in materia telefonica, postale, etc…), non già ‘seriale’ ma ‘episodico’ ed inserito all’interno di un rapporto contrattuale consumatore – professionista.

D- Esemplificando, il Giudice di Pace di Salerno, afferma quanto segue:

Orbene, quale cittadino,sapendo di non aver diritto al rimborso delle spese legali intenterà mai una causa nei confronti di queste grandi imprese o dei truffatori televisivi? Proporre l’azione sarà economicamente svantaggioso. La parte avrà di fronte a sé una scelta che razionalmente la porterà a desistere dalla lite perché le spese legali che dovrà sopportare sono ben superiori al valore del bene cui ha diritto in base alle norme di diritto sostanziale.

Inoltre, tale interpretazione potrebbe costituire un incentivo a violare le norme per la controparte abituale. Ed ancora, se i soggetti sono portati a desistere dal far valere i propri diritti, potrebbe essere che la loro controparte non sia per nulla incentivata nel rispettare le norme di diritto sostanziale perché il numero dei casi in cui soccomberà saranno ben pochi.

Inoltre non si può mettere sullo stesso piano il singolo e organizzazioni come possono essere molte imprese e le amministrazioni le quali possono disporre di uffici legali interni (e la possibilità di ripartire i costi del contenzioso) ovvero, se amministrazioni, possono disporre anche di funzionari di altri Ministeri.

E- Prosegue l’estensore della sentenza:

In conclusione, una siffatta interpretazione della norma in questione, oltre a rappresentare un disincentivo alle azioni legali fondato esclusivamente sulla minor convenienza del processo rispetto al non esercitare l’azione in giudizio – tenuto anche conto del sistema processuale italiano – appare, quindi, del tutto inefficiente rispetto alla tutela dei diritti (essendo questo peraltro l’obiettivo – o uno degli obiettivi – del processo civile).

Il costo delle spese legali rappresenta un fattore determinante nella scelta in ordine a se agire e/o resistere in giudizio ma non può costituire un fattore disincentivante all’azione giudiziaria come quello oggi ipotizzato.

Alla stregua delle suesposte considerazioni, tale interpretazione non solo favorisce una parte rispetto ad un’altra ma favorisce “l’aggressore” rispetto alla “vittima”.

Nessun ordinamento giuridico degno di tale nome può tutelare un siffatto principio. Il mancato rimborso delle spese legali limita rispetta al meno abbiente l’esercizio del diritto di azione , e stabilisce, nell’esercizio del potere di agire in giudizio tutelato dall’art.24 della Cost. , dall’art.6 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e dall’art.47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, una differenza tra ricco e povero che l’art.3 in termini generali ripudia per tutti i cittadini.

In definitiva una siffatta interpretazione rende praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti ai singoli violando il principio della tutela giurisdizionale effettiva sancito sia dalla Costituzione Italiana e sia dall’ordinamento comunitario ed essendo gravemente lesiva del diritto alla tutela giurisdizionale, costituzionalmente garantito, il quale “si estende anche alle spese che devono essere sostenute per agire in giudizio” (vedi sentenza Corte cost. n. 223/2001).

E’ indubitabile ed ormai generalmente riconosciuto che se alla Corte Costituzionale spetta il potere di accertare e dichiarare in via definitiva e vincolante il significato delle formule costituzionali e quello di determinare il corretto bilanciamento tra le regole, i principi ed i valori che essi esprimono, l’interpretazione delle leggi è attività affidata ai giudici in piena indipendenza ed autonomia ai sensi dell’art.101, comma II della Costituzione.

L’attività interpretativa è un momento imprescindibile della funzione giurisdizionale; la legge vive nell’ordinamento nel momento della sua applicazione per cui non esiste un’interpretazione unica ed oggettiva se non in casi rarissimi mentre nella maggior parte dei casi è possibile ricavare più norme da una singola interpretazione.

I giudici utilizzano i tradizionali criteri di soluzione delle antinomie e gli strumenti ermeneutici previsti dalle disposizioni sulla legge in generale (interpretazione letterale, interpretazione logico-sistematica, interpretazione teleologica, estensiva o analogica)”.

F-A partire dalla sentenza n. 356/1962 della Corte Costituzionale, costituisce un principio consolidato della giurisprudenza costituzionale che sia obbligo del Giudice,prima di sollevare l’eccezione di non manifesta infondatezza della costituzionalità di una norma, di valutare se sia possibile effettuare una diversa interpretazione costituzionalmente orientata della norma ribadendo il principio per cui una legge si dichiara costituzionalmente illegittima non perché sia possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché sia impossibile darne interpretazioni conformi a Costituzione.

Il giudice ha l’onere di interpretare “secundum Constitutionem” le disposizioni legislative prima ed in luogo di devolvere l’esame alla Corte.

In altre parole, al giudice, nel caso in cui la possibile interpretazione susciti dubbi consistenti di incostituzionalità, viene richiesto di verificare se il testo legislativo possa avere un significato compatibile con quello costituzionale, offrendo un’adeguata motivazione in quanto costituzionalmente orientata.

Inoltre, non va sottaciuto, che in un sistema giuridico che non è più solo interno ma che deve essere compatibile con quello comunitario,il giudice deve confrontarsi anche con la legislazione comunitaria che è tenuto a conoscere ed applicare in un continuo dialogo con il Giudice Costituzionale e la Corte di Giustizia.

E’ appena il caso di ricordare che costituisce principio consolidato della giurisprudenza comunitaria che qualsiasi giudice nazionale ha l’obbligo di applicare integralmente il diritto comunitario e di tutelare i diritti che questo attribuisce ai singoli,disapplicando le disposizioni eventualmente contrastanti della legge interna, sia anteriore che successiva alla norma comunitaria. Inoltre, la Corte di Giustizia con i casi Kobler e Francovich ha sancito che in ipotesi di violazione della norma comunitaria e di nesso causale diretto tra la violazione ed il danno subito dalle parti lese, scatta la responsabilità dello Stato”.

G- Da ultimo, tornando alla citata sentenza del Giudice di Pace di Pozzuoli del 7 novembre 2012, valga il richiamo ai seguenti ultimi passaggi significativi, che conducono inevitabilmente:

– all’applicazione del nuovo d.m. n. 140/2012 al governo delle spese di lite;

– nonché alla consequenziale disapplicazione del novellato art. 91 c.p.c..

Queste le premesse: del Magistrato dell’Ufficio Puteolano:

i) l’art. 91 c.p.c. sarebbe stato modificato alla luce della legge professionale in vigore di cui al D.M. n. 127 dell’8/4/04 e nel rispetto dei principi in esso contenuti;

ii) la suddetta legge è stata abrogata a seguito dell’entrata in vigore del d.m. n. 140 del 27/7/12, secondo cui le spese e le competenze professionali devono essere liquidate secondo i nuovi parametri e non più secondo le tariffe di cui al d.m., abrogato, dell’8.4.2004;

iii) l’attività difensiva portata al vaglio del Gdp di Pozzuoli – e questo vale anche per la causa che ci occupa – è terminata dopo l’entrata in vigore del nuovo regolamento di cui al d.m. n. 140/2012, entrato in vigore il 23/8/12.

Questa la conclusione:

iv) “Appare opportuno ed equo liquidare le spese di soccombenza in base ai parametri previsti dal Regolamento, ancorché alcune attività siano state svolte nella vigenza delle previgenti tariffe.

E ciò anche in adesione alla giurisprudenza della S. C. che in due recenti sentenze ha statuito, da un lato, l’unitarietà e la non frazionabilità in ordine alle diverse prestazioni eseguite dell’incarico conferito al professionista, e, dall’altro che in caso di successione di tariffe professionali, per stabilire in base a quale di essa debba essere liquidato il compenso, occorre tenere conto della natura dell’attività professionale e, se, per la complessa portata dell’opera, il compenso deve essere liquidato con criterio unitario, la tariffa applicabile è quella che vige alla data della liquidazione anche se l’esplicazione dell’attività ha avuto inizio quando era vigente altra tariffa (Cassazione civile, Sez. II, Sentenza n.16561 del 28/9/12; Cassazione SSUU civile, Sentenze n.17405 e n.17406 del 12/10/12, n. 18027 del 24 /10/12).

Pertanto, le spese di giudizio seguono la soccombenza e vanno liquidate, d’ufficio, come in dispositivo, tenendo conto del Regolamento di cui al D.M. 20/7/12 n.140, entrato in vigore il 23/8/12, dell’attività processuale svolta ed in particolare delle prescrizioni di cui agli artt. 1, 4 e 11 del medesimo d.m. n. 140/2012”.

Vanacore Giorgio

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