In materia di riabilitazione, il giudice ha l’obbligo di verificare se il risarcimento, offerto dal condannato in via transattiva alla vittima del reato, sia idoneo a ristorare i danni cagionati. Nota a Cass. pen., sez. I, 10/10/12, n. 42164.

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La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza in commento, ha affermato che, in materia di riabilitazione, anche nel caso di accordo transattivo tra l’autore del reato e la vittima, è onere del giudice accertare se quest’ultima sia stata effettivamente ristorata dei danno patiti a cagione di quell’illecito penale.

Difatti, i Giudici di legittimità, prendendo atto di come “il mancato adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato costituisce causa ostativa alla concessione della riabilitazione, pone a carico di colui che chiede il beneficio l’onere di provare di avere provveduto alla reintegrazione della persona offesa mediante il risarcimento in forma integrale di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali cagionati dal reato”, sono pervenuti, con questo decisum, alla conclusione secondo cui se “è vero che il requisito della integralità del risarcimento dei danni non può dirsi aprioristicamente escluso dall’esistenza di un accordo transattivo”, è altrettanto vero che è “onere del giudice di merito verificare, in base all’entità delle somme convenzionalmente pattuite e ad ogni altro elemento ritenuto rilevante, che quanto versato a seguito di accordo tra le parti corrisponda, nella sostanza, ad un risarcimento integralmente satisfattorio del diritto alla riparazione dei danni vantato dalle persone offese”.

Alla luce di siffatto principio di diritto, la Cassazione ha dunque annullato l’ordinanza emessa dal Tribunale di Sorveglianza con rinvio giacchè, in quel provvedimento, era stata del tutto omessa “qualunque valutazione comparativa al fine di verificare la concreta idoneità della somma pattuita (la cui entità non è indicata) a soddisfare sostanzialmente i diritti risarcitori delle vittime”.

Orbene, tale soluzione ermeneutica si appalesa particolarmente sensibile alla necessità che la parte offesa venga adeguatamente tutelata anche in questa sede anche se, come verrà illustrato successivamente, la portata applicativa di cotale principio si presta a diversi profili di criticità.

Ebbene, procedendo per gradi, corre innanzitutto l’obbligo di rilevare come tale criterio ermeneutico non rappresenti un episodio isolato nel panorama nomofilattico atteso che, già in precedenza, la Cassazione era pervenuta alle medesime conclusioni.

Infatti, nella decisione n. 5767 dell’8/01/2010, la Sez. I ha affermato, in egual misura, che l’ “integralità del risarcimento, richiesta per il riconoscimento della circostanza attenuante della riparazione del danno, non è esclusa dall’esistenza di un accordo transattivo”.

In quella occasione, difatti, gli Ermellini hanno affermato che “al fine di scrutinare la sussistenza della integralità del risarcimento, il Giudice del merito deve esaminare la realtà della solutio in rapporto alla consistenza del debito, senza assegnare valore satisfattivo alle formule apposte in sede di conclusione di una transazione (cfr. Cass. sent. n. 5484/1991 e n. 11207/1994), con la conseguenza per la quale la avvenuta transazione non esplica alcun effetto preclusivo sulla indagine assegnata al giudice, essa nè costituendo fonte di presunzione del risarcimento avvenuto nè. di converso, ostando in via automatica all’indagine stessa”.

Tale approdo ermeneutico, dal canto suo, è perfettamente consono a quanto stabilito dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 35535 del 12/07/2007.

Difatti, in questo obiter dictum, seppur in riferimento all’attenuante di cui all’art. 62, co. I, n. 4, c.p., venne affermato che occorre “fare riferimento a tutti i danni patrimoniali oggettivamente prodotti alla (o alle) persona(e) offesa(e) dal reato quale conseguenza diretta del fatto illecito” al fine di stabilire la sussistenza di questa circostanza.

Del resto, il fatto che tale principio di diritto sia applicabile anche per la riabilitazione o meglio, allo scopo di appurare le condizioni previste dall’art. 179, co. VI, n. 2, c.p., è comprovato da numerose pronunce in cui, seppur trattando specifici illeciti penali, la Cassazione ha affermato che la concessione della riabilitazione richiede “che il condannato provi di avere adempiuto al risarcimento integrale non solo del danno cagionato dall’impossessamento della cosa, ma anche di quello fisico e morale”[1].

Difatti, è stato affermato, in sede di legittimità, che l’ “art. 179 c.p., prevedendo come condizione ostativa alla concessione della riabilitazione l’inadempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, pone a carico di colui che chiede la riabilitazione l’onere di provare di avere provveduto, sin dove è possibile, alla reintegrazione della persona offesa mediante il risarcimento integrale dei danni patrimoniali e non patrimoniali conseguenti all’illecito”[2] in virtù delle seguenti considerazioni:

  • perchè “le componenti patrimoniali del danno risarcibile non s’arrestano all’importo eventualmente sottratto alla vittima del reato, ma comprendono, oltre ad interessi e rivalutazione”[3];

  • poiché, dovendosi considerare “quantomeno le spese eventualmente sostenute per il recupero della somma nonchè l’equivalente economico del tempo impiegato e degli oneri affrontati dalla vittima: componenti tutti del danno emergente “la cui consistenza va apprezzata in termini oggettivi e nella globalità degli effetti””[4]

  • giacchè, “in assenza di prova di altri profili di danno patrimoniale, ogni fatto illecito è astrattamente idoneo a produrre quantomeno un danno morale derivante dall’aggressione posta in essere anche agli interessi non strettamente patrimoniali tutelati dalla norma incriminatrice”[5].

E’ evidente la profonda influenza civilista che connota tale obbligazione risarcitoria posto che, come rilevato giustappunto dalle Sezioni Unite nella sentenza su emarginata, l’art. 185 c.p. “concerne l’obbligo del risarcimento in via civile del danno, di cui il reato stesso in concreto sia stato causa immediata”.

Tuttavia, sempre alla luce di questo arresto giurisprudenziale, il giudizio prognostico appare essere più “sfumato” rispetto a quello richiesto nella sentenza in commento, visto che viene in esso richiesto soltanto che il giudice di merito accerti “se il danno patrimoniale sia conseguenza diretta del fatto illecito e valutare la sua gravità in termini generali e globali, senza quelle specificazioni analitiche che sarebbero richieste per la pronuncia di statuizioni civilistiche”.

Tale approdo ermeneutico pare essere preferibile rispetto a quello indicato in questa decisione visto, come già accennato in precedenza, i profili di criticità applicativa ad essa sottesi.

Difatti, appurare se l’accordo stipulato tra il condannato e la vittima sia effettivamente idoneo a ristorare il danno patito implica, in ossequio al principio di risarcibilità integrale del danno, un valutazione parcellizzata delle singole componenti risarcitorie di cui si dovrà tener conto nel verificare la corretta liquidazione del danno subito.

Senza entrare nello specifico della materia, diversi sono i criteri valutativi di cui il giudice penale si dovrà avvalere nel caso di specie.

Senza nessuna pretesa esaustiva di sorta, ad esempio nel caso di lesioni o di omicidio, in materia di danno biologico, si dovrà ricorrere, secondo quanto affermato dalla più recente giurisprudenza civile di legittimità, “al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale”[6]; quanto al danno morale soggettivo “che può essere liquidato in aggiunto al danno biologico, per avvertite esigenze di personalizzazione del risarcimento”[7] si dovrà ricorrere a presunzioni[8] così come, al medesimo metro probatorio, ci si dovrà avvalere per il danno esistenziale[9].

Il discorso, per di più, diventa ancora più complesso per quanto concerne il danno patrimoniale siccome tale torto è sottoposto a vincoli probatori molto rigidi.

Solo sinteticamente e sommariamente, basta in questa sede rilevare che questo danno deve essere accertato previa prova da parte della parte offesa del suo reddito che, a sua volta, costituisce il punto di partenza per poter calcolare quanto dovrà essere dovuto rispettivamente (sia a titolo di danno emergente sia a titolo di lucro cessante).

D’altronde, se è vero che il giudice può procedere al calcolo del quantum risarcitorio “ponendo a base del calcolo il triplo della pensione sociale anche quando il danneggiato non abbia provato l’entità del reddito perduto, costituendo tale criterio una soglia minima del risarcimento”[10], è altrettanto vero che il computo da compiersi è comunque molto complesso.

Si tratta in effetti di liquidare il danno “attraverso il metodo della capitalizzazione, e cioè moltiplicando il reddito perduto (espresso in moneta rivalutata al momento della liquidazione) per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, perché soltanto tale metodo consente di tenere debito conto del c.d. ««montante di anticipazione», e cioè del vantaggio realizzato dal creditore nel percepire oggi una somma che egli avrebbe concretamente perduto solo in futuro”[11].

Ebbene, a fronte di tale calcolo sicuramente molto difficile da compiere direttamente dal Tribunale di Sorveglianza, due sono le strade percorribili.

La prima, in ossequio a quanto statuito dall’art. 666, co. V, c.p.p. nella parte in cui permette al giudice, se occorre, di “assumere prove”, è quella di nominare un perito affinchè provveda almeno, ad una stima di massima del danno dato che in “tema di esecuzione non sussiste un onere probatorio a carico del soggetto che invochi un provvedimento giurisdizionale favorevole, ma solo un onere di allegazione, cioè un dovere di prospettare e di indicare al giudice i fatti sui quali la sua richiesta si basa, incombendo poi alla autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti”[12].

La seconda, alla luce di quanto sancito dalla Cassazione civile, sez. III, nella sentenza n. 21246 del 29/11/2012, è quella di procedere ex officio in via equitativa, alla liquidazione del danno (ivi compreso quello patrimoniale) purchè il Giudice indichi, attraverso quali canoni decisori, sia addivenuto a stabilire un dato quantum risarcitorio.

Infatti, in questa sentenza, è stato affermato che la “valutazione di cui all’art. 1226 c.c. consiste nella possibilità attribuita al giudice di ricorrere, anche d’ufficio, a criteri equitativi per supplire all’impossibilità della prova del danno risarcibile nel suo preciso ammontare” fermo restando che ciò è consentito nella misura in cui “il giudice dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale la ha adottata”.

Ebbene, tale secondo metro decisorio appare più consono al modello processualpenalistico giacchè, in sostanza, ciò che è necessario verificare nel giudizio de quo, così come una costante giurisprudenza di legittimità richiede, è soltanto appurare se, colui che chiede la riabilitazione, abbia manifestato “un’adeguata offerta riparatoria”[13] “in misura compatibile con le proprie entrate”[14] anche perché, come è noto, non vi sono le rigide preclusioni probatorie proprie del processo civile potendo la prova dell’integrale adempimento delle obbligazioni civili dipendenti dal reato “essere fornita con qualsiasi mezzo, non richiedendo la legge forme particolari”[15].

Del resto, il fatto che questa obbligazione risarcitoria presenti delle peculiarità proprie ben distinte da quelle propriamente civilistiche, trova conferma anche alla luce di quell’orientamento nomofilattico secondo il quale, ai “fini della riabilitazione, l’attivazione per l’adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato non deve essere valutata solo alla stregua delle regole proprie del c.c., ma anche quale onere imposto al condannato in funzione del valore dimostrativo dell’emenda”[16].

Lo scrivente, in conclusione, stima la sentenza in commento sicuramente condivisibile sicchè si innesta lungo il solco di un pregresso e costante orientamento nomofilattico pur ribadendo la necessità che la valutazione in ordine alla congruità del danno, così come transatto dalle “parti” avvenga, seppur in forma motivata, in via equitativa.

Avvalersi dei rigidi parametri probatori propri del processo civilistico, difatti, comporterebbe notevoli difficoltà in sede processuale sicchè, il meccanismo probatorio che connotato il procedimento di esecuzione penale, rispetto all’altro, è molto più snello e libero da prefissati vincoli formali.

[1] Cass. pen., sez. I, 3/06/10, n. 23902.

[2] Ibidem

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ibidem.

[6] Cass. civ., sez. VI, 8/11/12, n. 19376.

[7] Cass. civ., sez. III, 26/05/11, n. 11609.

[8] Cass. civ., sez. III, 27/07/06, n. 17144.

[9] Cass. civ., sez. III, 12/06/06, n. 13546: il “danno esistenziale patito dai congiunti della vittima deceduta – che consiste non già nella violazione del rapporto familiare in sé considerata, bensì nelle conseguenze che da tale fatto discendono nella sfera delle relazioni interpersonali – può essere provato anche a mezzo di presunzioni risultando quale dato normale e probabile la ricorrenza, a seguito della privazione del rapporto familiare, di ripercussioni negative nella comune vita di relazione”.

[10] Cass. civ., sez. III, 15/05/12, n. 7531.

[11] Cass. civ., sez. III, 16/03/12, n. 4252.

[12] Cass. pen., sez. V, 14/11/00, n. 4692.

[13] Ex plurimibus Cass. pen., sez. I, 23/10707, n. 43000.

[14] Cass. pen., sez. V, 21/10/09, n. 5048.

[15] Cass. pen., sez. I, 21/12/78, n. fonti: Cass pen., 1980, 403.

[16] Cass. pen., sez. I, 27/01/05, n. 9755.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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