In forza del più recente indirizzo espresso delle Sezioni Unite della Cassazione (ordinanze nn. 13659, 13660 e 13911 dd. 13 giugno 2006) , l’azione risarcitoria per il ristoro dei danni derivati da provvedimenti illegittimi può essere proposta anche indip

Lazzini Sonia 25/10/07
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In tema di “pregiudiziale amministrativa” merita di essere segnalato il seguente passaggio tratto dalla decisione numero 4136 del 24 luglio 2007  emessa dal Consiglio di Stato
 
< 66.   In ogni caso, anche aderendo alla tesi dell’annullabilità, la mancata tempestiva impugnazione dei provvedimenti lesivi non sarebbe idonea a spiegare effetti preclusivi nei riguardi di un’azione risarcitoria, comunque proposta nel termine di prescrizione. Va ricordato, infatti, che, in forza del più recente indirizzo espresso delle Sezioni Unite della Cassazione, l’azione risarcitoria per il ristoro dei danni derivati da provvedimenti illegittimi può essere proposta anche indipendentemente dalla tempestiva impugnazione dei provvedimenti stessi, purché sia rispettato il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
67.       Nel caso di specie, il ricorso straordinario è stato notificato ben prima della scadenza del termine di cinque anni, decorrente dall’adozione dei provvedimenti del comune di Gallipoli, in violazione delle pronunce giurisdizionali. Pertanto, la mancata impugnazione tempestiva di tali atti non può considerarsi preclusiva dell’azione risarcitoria.
68.       Né la mancata impugnazione degli atti potrebbe considerarsi come violazione del principio di autoresponsabilità, secondo cui il danneggiato deve fare tutto quanto è in proprio potere per limitare o impedire il danno lamentato. Infatti, nel caso di specie, la DITTA ALFA aveva contestato tempestivamente il provvedimento originariamente produttivo della lesione ai propri interessi patrimoniali. A fronte del chiaro tenore delle pronunce del giudice, l’amministrazione, adottando provvedimenti di segno contrario, ha assunto la responsabilità delle conseguenze risarcitorie derivanti da tali comportamenti.
69.       A fronte di condotte serbate dall’amministrazione, palesemente contrastanti con il contenuto delle decisioni cautelari e di primo grado del giudice, non si potrebbe esigere dal soggetto interessato l’onere di impugnare, uno per uno, tutti i successivi provvedimenti.>
 
 
 
si noti la tesi assolutamente contraria della sentenza numero 2503 del 18 luglio 2007 emessa dal Tar Veneto, Venezia
 
PER IL PRINCIPIO SECONDO IL QUALE , l’esercizio della pretesa risarcitoria fondata sull’affermata lesione di un interesse legittimo deve intendersi impedito a chi ha omesso di impugnare, nel termine decadenziale, il provvedimento amministrativo asseritamente produttivo del danno del quale domanda il ristoro, tutela sia la parte privata che in tal modo può sollecitamente accedere al rimedio giudiziale al fine di ottenere nella maggior parte dei casi il riconoscimento delle proprie ragioni in via diretta e non già per equivalente patrimoniale (comunque, in subordine,garantito), sia la pubblica amministrazione che – a sua volta, e soprattutto in dipendenza dei fini di interesse generale da essa perseguiti – necessita di certezza giuridica al fine di fondare la legittimità del suo operato, e senza che quest’ultimo – quindi – possa formare oggetto di contestazione entro i ben più lunghi termini di prescrizione (esigenza, questa, addirittura essenziale per le pubbliche amministrazioni che sono chiamate a svolgere funzioni che impongono celerità decisionali e, soprattutto, duratura permanenza degli effetti delle determinazioni assunte, proprio in quanto sottese agli interessi primari che intuitivamente assistono – tra l’altro – le esigenze della difesa nazionale e della tutela dell’ordine pubblico), UN DIPENDENTE PUBBLICO CHE HA SUBITO UN DANNO DA MOBBING DEVE PRIMA RICHIEDERE L’ANNULLAMENTO DEGLI ATTI A CUI TALE COMPORTAMENTO ILLECITO SI RIFERISCE ALTRIMENTI IL SUO RICORSO E’ INAMMISSIBILE, ED INOLTRE PROPRIO L’OMESSA IMPUGNAZIONE DEI PROVVEDIMENTI AUTORITATIVI , HA PER CERTO AGGRAVATO IL DANNO, RENDENDOLO IRREVERSIBILE..
 
 
Il cosiddetto mobbing consiste in una condotta del datore di lavoro sistematica e protrattasi nel tempo, con le caratteristiche della persecuzione, finalizzata all’emarginazione del lavoratore e che concreti, per le sue caratteristiche vessatorie, una lesione dell’integrità fisica e alla personalità morale del prestatore di lavoro
 
Merita di essere riportato il seguente passaggio tratto dalla sentenza numero 2503 del 18 luglio 2007 emessa dal Tar Veneto, Venezia che ci offre un’interessante panoramica giurisprudenziale sul mobbing
 
<Il mobbing può essere pure efficacemente descritto quale condotta del datore di lavoro sistematica nel tempo e diretta all’emarginazione del lavoratore, e che si qualifica per il nesso che lega i diversi atti e comportamenti del primo in un disegno unitario finalizzato a tale scopo. La sua sussistenza deve essere – quindi – desunta da un’analisi complessiva del quadro in cui si esplica la prestazione del lavoratore, attraverso indici presuntivi quali la reiterazione di richiami e sanzioni disciplinari, ovvero la sottrazione di vantaggi precedentemente acquisiti, che avvengano con carattere di ripetitività (così T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. I, 21 luglio 2006 n. 1844), oppure – e ancora – quale situazione illecita di conflittualità sistematica, persistente ed in costante progresso all’interno del luogo di lavoro, in cui gli attacchi reiterati e sistematici hanno lo scopo di danneggiare la salute, i canali di comunicazione, il flusso di informazioni, la reputazione e la professionalità della vittima, sicché quest’ultima può pretendere il risarcimento da parte dell’autore delle condotte illecite del danno biologico, morale ed esistenziale; in altri termini, deve trattarsi di diffusa ostilità proveniente dall’ambiente di lavoro che si realizza in una pluralità di condotte, frutto di una vera e propria strategia persecutoria, piuttosto che in un singolo comportamento, sia pure reiterato (così T.A.R. Campania, Salerno, Sez. I, 29 giugno 2006 n. 881).
 
 Ciò che, dunque, distingue il mobbing dalle mere situazioni di conflittualità interpersonali che sovente caratterizzano gli ambienti di lavoro (sia privati che pubblici) è la sistematicità dei comportamenti vessatori e il reiterarsi nel tempo, nonché l’unitaria e intenzionale finalizzazione di tali comportamenti allo svilimento della professionalità del lavoratore e alla mortificazione della sua dignità (cfr., puntualmente, Tribunale Milano, 4 gennaio 2006); ossia, detto altrimenti, la fattispecie del mobbing presuppone, nell’accezione che va consolidandosi (pur con varietà di accentuazioni) in dottrina e giurisprudenza, una durevole serie di reiterati comportamenti vessatori e persecutori, tali da creare una situazione di sofferenza nel dipendente: sofferenza che si concreta in un danno ingiusto, incidente sulla persona del lavoratore e, in particolare, sulla sua sfera mentale, relazionale e psicosomatica.
 
 Pertanto, concreta il mobbing una serie prolungata di atti volti ad “accerchiare” la vittima, a porla in posizione di debolezza, sulla base di un intento persecutorio sistematicamente perseguito (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 25 giugno 2004 n. 6254).
 
 Autore del mobbing (o più soggetti in concorso fra loro) può essere chiunque (sia esso solo un opportunista, o autoritario di carattere, sia esso, ben oltre le prime apparenze, anche un malvagio e perverso) che, servendosi di un potere – vantato o reale – invade sistematicamente e consapevolmente la sfera privata della vittima, con azioni che possono dirigersi contro la persona del soggetto da colpire, contro la sua funzione lavorativa, contro il suo ruolo e contro lo status della vittima: “il tutto finalizzato ad un progressivo isolamento fisico, morale e psicologico dall’ambiente di lavoro, sì da lasciare la vittima nella convinzione che è solo colpa sua se non vale nulla, per cui è meglio che se ne vada” (così T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I, 6 giugno 2006 n. 4340).
 
 Né va sottaciuto che le controversie dirette ad accertare fattispecie di mobbing comportano per loro stessa natura una penetrazione psicologica dei comportamenti, al di là di atti che possono presentarsi anche come legittimi e inoffensivi, in modo da indagarne il carattere eventualmente vessatorio, ossia dolosamente diretto a svilire, nuocere o ledere la dignità personale e professionale di un dipendente; in tal senso, quindi, la coscienza e volontà del mobber si pone rispetto al fatto non solo come elemento essenziale e costitutivo dell’illecito, ma come elemento idoneo persino a darvi significato: in altri termini, senza il dolo specifico del mobber medesimo gli atti potrebbero tutti apparire legittimi e leciti (cfr. Tribunale Trieste, 10 dicembre 2003).
 
 L’ illecito da mobbing rappresenta, innanzitutto, una violazione dell’obbligo di sicurezza posto dall’art. 2087 c.c. a carico del datore di lavoro, e si può realizzare con comportamenti materiali o provvedimenti del datore di lavoro anche indipendentemente dall’inadempimento di specifici obblighi contrattuali previsti dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato (Cass. Sez. Lav. n. 4774 del 2006 cit.), fermo restando che nell’ipotesi in cui la tutela invocata attenga a diritti soggettivi derivanti direttamente dal medesimo rapporto di lavoro, lesi da comportamenti che rappresentano l’esercizio di tipici poteri datoriali, in violazione non solo del principio di protezione delle condizioni di lavoro, ma anche della tutela della professionalità prevista dall’art. 2103 cod. civ., la fattispecie di responsabilità va ricondotta alla violazione degli obblighi contrattuali stabiliti da tali norme, indipendentemente dalla natura dei danni subiti dei quali si chiede il ristoro e dai riflessi su situazioni soggettive (quale il diritto alla salute di all’art. 32 Cost.) che trovano la loro tutela specifica nell’ambito dei rapporto obbligatorio (cfr. sul punto Cass. SS.UU. 4 maggio 2004 n. 8438).
 
 Detto altrimenti, la responsabilità da mobbing può dar luogo ad un danno esistenziale o danno alla vita di relazione, di natura sia contrattuale che extracontrattuale, che si realizza ogniqualvolta il lavoratore venga aggredito nella sfera della dignità senza che tale aggressione offra sbocchi per altra qualificazione risarcitoria (Tribunale Como, 22 maggio 2001); e se, dunque, la responsabilità del datore di lavoro assume, al riguardo, connotazione sia contrattuale a’ sensi dell’art. 2087 c.c., sia extracontrattuale a’ sensi dell’art. 2043 c.c., il regime di ripartizione dell’onere della prova è quello più favorevole al dipendente e, pertanto, quello contrattuale; conseguentemente spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente, mentre spetta al lavoratore dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’evento lesivo e il comportamento del datore di lavoro (così Tribunale Forlì, 15 marzo 2001; in termini del tutto consonanti, T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III, 22 giugno 2004 n. 6254 afferma che in tema di mobbing è ammissibile il concorso tra la responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c. e la responsabilità specifica ex art. 2087 c.c. – nella parte cui obbliga il datore di lavoro ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare la personalità morale dei prestatori di lavoro – anche alla luce dell’obbligo di eseguire il contratto secondo buona fede, e che nell’ipotesi in cui il ricorrente faccia valere un’ipotesi di responsabilità al tempo stesso contrattuale ed extracontrattuale della P.A. resistente trova in ogni caso applicazione la disciplina dell’onere probatorio più favorevole al ricorrente, ossia quello contrattuale, con la conseguenza che spetta al datore di lavoro dimostrare di aver posto in essere tutte le misure necessarie per tutelare l’integrità psico-fisica del dipendente).>
 
Ed ancora
 
<Secondo Cass. SS.UU. 4 maggio 2004 n. 3438, ad esempio, in tema di azione promossa da un dipendente nei confronti del suo datore di lavoro pubblico per il risarcimento del danno all’integrità psicofisica derivante da condotte antigiuridiche configuranti fattispecie di mobbing, il riparto di giurisdizione risulterebbe strettamente subordinato – a differenza di quanto affermato innanzi – all’accertamento della natura giuridica dell’azione di responsabilità in concreto proposta: “e ciò in quanto, se trattasi di azione contrattuale, la cognizione della domanda rientra nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo – allorquando la controversia abbia per oggetto una questione relativa ad un periodo del rapporto di lavoro antecedente al 30 giungo 1998 – mentre, se trattasi di azione extracontrattuale, la giurisdizione appartiene al giudice ordinario”., con la precisazione che “al fine di tale accertamento, deve ritenersi proposta l’azione di responsabilità extracontrattuale tutte le volte che non emerga una precisa scelta del danneggiato, mentre si può ritenere proposta l’azione di responsabilità contrattuale quando la domanda di risarcimento del danno sia espressamente fondata sull’inosservanza, da parte del datore di lavoro, di una puntuale obbligazione contrattuale>
 
attenzione però
 
<Del resto, allo stato attuale della giurisprudenza assolutamente prevalente, la proposizione della domanda di annullamento dell’atto reputato invalido costituisce, come è ben noto, un presupposto indefettibilmente necessario per poter radicare innanzi a questo stesso giudice l’ulteriore istanza risarcitoria del danno (cfr. su tale specifico punto, ad es., Cons. Stato, A.P. 26 marzo 2003 n. 4): e nel caso di specie il xxxxxxx non avendo, per l’appunto, presentato entro i termini decadenziali di cui all’art. 21, primo comma, della L. 6 dicembre 1971 n. 1034 come modificato per effetto dell’art. 1 della L. 21 luglio 2000 n. 205, la domanda di annullamento dei provvedimenti di cui trattasi, non può – ora – chiedere i danni da essi asseritamente discendenti.
 
 A ben vedere, infatti, la sua inerzia al riguardo, proprio perché ha reso inoppugnabili i provvedimenti in questione, va riguardata quale implicita acquiescenza alle pur illegittime determinazioni assunte nei suoi confronti dall’Amministrazione qui intimata; né va sottaciuto che nello specifico caso del trasferimento a Padova tale acquiescenza è ricavabile non già in via implicita, ma in via del tutto esplicita a fronte della circostanza che lo stesso xxxxx afferma di aver sottoscritto in data 5 gennaio 2005 un assenso al proprio reimpiego. Sempre in tal senso, va pure rilevato che, anche le stesse pronunce giudiziali citate dalla difesa del xxxxxx a fondamento della sussistenza della giurisdizione di questo giudice in ordine al mobbing da questi subito – ossia la predetta sentenza n. 2 del 2004 resa da questa stessa Sezione e la decisione n. 5414 del 2002 resa dalla Sezione V del Consiglio di Stato – a loro volta ribadiscono la necessità che la pretesa risarcitoria si fondi sul previo annullamento dei provvedimenti lesivi e – allo stesso tempo – costitutivi di danno.>
 
ma non solo
 
<In considerazione della scelta del legislatore di disporre un organico sistema, nel quale la tutela risarcitoria costituisce un rimedio di tutela ulteriore per chi abbia tempestivamente e fondatamente impugnato l’atto lesivo, avvalendosi di uno dei due rimedi previsti dall’ordinamento, e cioè del ricorso giurisdizionale o di quello straordinario, non può – dunque – che ribadirsi, anche sulla scorta di quanto già puntualmente affermato da Cons. Stato, A.P., 26 marzo 2003 n. 4, che il soggetto leso da un provvedimento autoritativo può ottenere il risarcimento del danno solo ove lo abbia fondatamente impugnato nel prescritto termine di decadenza, posto che la mancanza di impugnazione rende inoppugnabile il provvedimento e comporta che la lesione vada considerata secundum ius, nel senso che il danno patrimoniale si fonda su un titolo giuridico che è divenuto insindacabile in ogni sede giurisdizionale>
 
 
CONCLUDENDO QUINDI, nella particolare fattispecie sottoposta ai giudici veneziani:
 
<.5. Va in ogni caso soggiunto che, ove pure si dovesse accedere – in esito ad una non augurabile persistenza dei sopradescritti orientamenti delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – ad una possibilità di liquidazione del danno da interesse legittimo anche in mancanza di un’impugnazione in termini dell’atto che lo ha prodotto, l’esito del giudizio non potrebbe essere ragionevolmente favorevole per l’attuale ricorrente: e ciò in relazione alla valutazione, forzatamente negativa nei riguardi della posizione giuridica di tutti i ricorrenti in consimili ipotesi, di un elemento di fondo che si preannuncerebbe – per l’appunto – come costante in tutte le fattispecie omologhe alla presente.
 
 Se è vero – infatti – che, a’ sensi dell’art. 2056 c.c., il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del medesimo codice e che il primo comma di quest’ultimo articolo – recante la rubrica “concorso del fatto colposo del creditore” – dispone, a sua volta, che “se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate”, risulterebbe ben evidente che – sotto questo specifico profilo – proprio l’omessa impugnazione, da parte del xxxxx dei predetti provvedimenti autoritativi (certamente illegittimi, ma dalla cui rimozione ope iudicis sarebbe conseguito il pieno ripristino della posizione giuridica lesa), ha per certo aggravato il danno, rendendolo irreversibile.>
 
 
a cura di *************
 
 
                        REPUBBLICA ITALIANA                          N.4136/07 REG. DEC.
               IN NOME DEL POPOLO ITALIANO                          N. 9983 REG. RIC.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta          ANNO 2004 
ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello n. 9983/2004, proposto dal Comune Di Gallipoli rappresentato e difeso dall’****************** con domicilio eletto in Roma Via Cosseria, 2 presso **************
contro
Soc. DITTA ALFA Transfer s.p.a. rappresentata e difesa dagli Avv. **************** e ************* con domicilio eletto in Roma Via Zara 16 presso lo studio ******** – Napolitano;
SE.T.A. EU S.P.A. rappresentata e difesa dall’Avv. ************** con domicilio eletto in Roma Via Mantegazza n. 24 presso il sig. ************
ATI DITTA BETA. SPA non costituitasi;
Interveniente ad Adiuvandum
Consorzio Co.Ge.I rappresentato e difeso dall’Avv. ****************** con domicilio eletto in Roma Piazza Crati, 15 presso lo studio **********
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, **************** di Lecce, Seconda Sezione, 25 maggio 2004, n. 3178.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del comune di Ancona ;
Esaminate le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti tutti gli atti di causa;
Relatore alla pubblica udienza del 17 ottobre 2006, il Consigliere ************;
Uditi gli avvocati L. D’Ambrosio per delega dell’avv.to Quinto per la parte appellante e gli avvocati Di ***** per delega dell’avvocato ********, *********** per delega dell’avv.to Livello per le parti appellate;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
FATTO E DIRITTO
1.         Il comune di Gallipoli bandì una gara per l’affidamento del servizio di raccolta rifiuti, raccolta differenziata, pulizia strade, derattizzazione, disinfestazione e disinfezione. All’esito della procedura, il servizio fu affidato all’associazione temporanea di imprese composta dalla società DITTA ALFA Transfer SpA (di seguito “DITTA ALFA”).
2.         Successivamente, però, il comune annullò l’affidamento, rilevando che una delle imprese associate alla DITTA ALFA era priva dei prescritti requisiti di affidabilità finanziaria. Quindi, l’amministrazione, considerando deserta la gara (in mancanza di altre valide offerte), stabilì di proseguire la negoziazione diretta con la sola ATI DITTA BETA (deliberazione della giunta municipale n. 394 del 23 luglio 1997 e determinazione dirigenziale n. 695/170 del 20 novembre 1997). Il servizio fu poi consegnato all’affidataria a far data dal 22 gennaio 1998.
3.         La DITTA ALFA impugnò gli atti di aggiudicazione e, con ordinanza del 15 maggio 1998, la Sezione, riformando parzialmente la pronuncia cautelare del tribunale, ordinò all’amministrazione di rinnovare la gara a trattativa privata, “invitando ad essa anche la DITTA ALFA”.
4.         Con delibera n. 411 del 30 novembre 1998, tuttavia, la giunta comunale stabilì “il differimento delle procedure per l’espletamento della trattativa privata disposta dal Consiglio di Stato (…) sino alla decisione del merito fissata dal TAR Puglia”.
5.         Con sentenza 3 maggio 1999, n. 323, il TAR per la Puglia annullò la determina dirigenziale n. 685 del 20 novembre 1997.
6.         Con delibera n. 194 del 9 giugno 1999, il comune affidò il servizio, a trattativa privata, all’ATI DITTA BETA.
7.         Quindi, con delibera n. 158 del 6 dicembre 2001, il comune stabilì di assegnare il servizio ad una società mista, annullò la deliberazione n. 194 del 9 giugno 1999, revocò la delibera n. 394 del 1997 e stabilì di avviare una procedura negoziata per l’affidamento temporaneo del servizio. A tale selezione fu invitata anche la DITTA ALFA, la quale, peraltro, non presentò alcuna offerta.
8.         La DITTA ALFA propose ricorso straordinario al Capo dello Stato contro la deliberazione n. 158 del 2001, con atto notificato al comune di Gallipoli il 22 aprile 2002.
9.         Con atto notificato il 23 maggio 2002, il comune di Gallipoli ha chiesto la trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario.
10.       In data 18 luglio 2002, la DITTA ALFA ha depositato l’atto di costituzione in giudizio presso la segreteria del TAR, dopo averlo notificato al comune.
11.       La sentenza appellata, disattendendo l’eccezione di inammissibilità del ricorso, lo ha accolto, in parte, con il conseguente annullamento del provvedimento impugnato. Il Tribunale ha anche condannato il comune al risarcimento del danno in favore della parte ricorrente, respingendo i motivi aggiunti presentati dalla ricorrente contro l’atto di affidamento del servizio alla società mista SE.TA.
12.       Il comune di Gallipoli impugna la sentenza.
13.       La società DITTA ALFA resiste al gravame e propone un appello incidentale. La società ****** EU SpA, costituitasi in questo grado, sostiene le ragioni dell’appellante e resiste all’appello incidentale.
14.       A sostegno dell’appello principale, interviene ad adiuvandum il Consorzio CO.GE.I., nella qualità di socio di minoranza della società ****** e di gestore di parte consistente dei servizi di igiene urbana del comune di Gallipoli (circa il 70%), in virtù di contratto di servizio stipulato con la SE.TA.
15.       L’amministrazione appellante sostiene, in primo luogo, l’inammissibilità del ricorso di primo grado, riguardante un provvedimento in materia di affidamento di servizi pubblici, perché depositato presso la segreteria del tribunale, oltre i termini perentori indicati dall’articolo 23-bis, comma 2, della legge TAR.
16.       Secondo la norma richiamata, le cui disposizioni “si applicano nei giudizi davanti agli organi di giustizia amministrativa” (comma 1), “i termini processuali previsti sono ridotti alla metà, salvo quelli per la proposizione del ricorso.” Non vi è dubbio, poi, che la controversia in oggetto rientra nel raggio di operatività astratta della norma (comma 1, lettera c), riguardante, fra l’altro, “i provvedimenti relativi alle procedure di aggiudicazione, affidamento ed esecuzione di servizi pubblici e forniture, ivi compresi i bandi di gara e gli atti di esclusione dei concorrenti.”
17.       Per stabilire la fondatezza della tesi proposta dal comune, occorre stabilire se, nel giudizio originato dal ricorso straordinario, poi trasposto in sede giurisdizionale, il termine per il deposito dell’atto con cui l’interessato insiste nel proprio ricorso, in seguito all’opposizione del controinteressato:
a)         sia qualificabile, o meno, come termine processuale;
b)         rientri, o meno, fra i termini riguardanti la “proposizione” del ricorso, sottratti alla regola del dimezzamento dei termini processuali.
18.       Va premesso che, secondo un’opinione al momento incontrastata in giurisprudenza, l’articolo 23-bis, riguarda solo i processi giurisdizionali in senso stretto e non può trovare applicazione nel procedimento introdotto con il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Tale esito interpretativo potrebbe essere rafforzato anche richiamando gli indirizzi più recenti della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, che negano il carattere giurisdizionale del ricorso straordinario.
19.       La Sezione condivide questa impostazione interpretativa: nonostante la formulazione dell’articolo 23-bis, innovando rispetto al vecchio articolo 19 del decreto legge n. 67/1999 faccia riferimento, in senso ampio, ai giudizi proposti dinanzi agli organi di giustizia amministrativa e non più solo ai giudizi dinanzi al Tar e al Consiglio di Stato, risulta evidente che la disciplina speciale sia stata concepita per i processi giurisdizionali.
20.       Occorre considerare, peraltro, la particolare vicenda costituita dalla opposizione al ricorso straordinario e alla conseguente trasposizione in sede giurisdizionale.
21.       Secondo un isolato orientamento (riferito, peraltro, all’applicazione del citato articolo 19), intervenuta la trasposizione, tutto il giudizio acquisterebbe, anche retroattivamente, carattere giurisdizionale, con la conseguente integrale applicazione delle norme processuali speciali (comprese quelle relative al dimezzamento dei termini) anche agli atti adottati prima della trasposizione stessa.
22.       Questa opinione non può essere condivisa. A parere della Sezione, il passaggio dal ricorso straordinario alla sede giurisdizionale segna anche la modifica del regime degli atti. Essi sono qualificabili come processuali, ma solo nel momento in cui si è realizzata, definitivamente, la trasposizione dal piano del ricorso straordinario a quello del ricorso giurisdizionale, senza alcuna irragionevole retroattività delle regole, che determinerebbe una palese violazione dell’affidamento delle parti.
23.       Dunque, per stabilire l’applicabilità dell’articolo 23-bis, occorre individuare il momento in cui il procedimento assume la connotazione propriamente giurisdizionale. Al riguardo, occorre considerare che la trasposizione, in forza dell’articolo 10 del D.P.R. n. 1199/1971, si svolge secondo la seguente disciplina: “I controinteressati, entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione del ricorso, possono richiedere, con atto notificato al ricorrente e all’organo che ha emanato l’atto impugnato, che il ricorso sia deciso in sede giurisdizionale. In tal caso, il ricorrente, qualora intenda insistere nel ricorso, deve depositare nella segreteria del giudice amministrativo competente, nel termine di sessanta giorni dal ricevimento dell’atto di opposizione, l’atto di costituzione in giudizio, dandone avviso mediante notificazione all’organo che ha emanato l’atto impugnato ed ai controinteressati e il giudizio segue in sede giurisdizionale secondo le norme del titolo III del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e del regolamento di procedura, approvato con regio decreto 17 agosto 1907, n. 642.”
24.       La norma, quindi, richiede che, dopo la notifica dell’opposizione, l’interessato, entro il prescritto termine di sessanta giorni, provveda tanto alla notifica dell’atto, quanto al suo deposito. Secondo il prevalente indirizzo giurisprudenziale, peraltro, il deposito deve seguire la notifica dell’atto, con modalità analoghe a quelle riguardanti la proposizione dell’ordinario ricorso giurisdizionale. È vero, infatti, che la norma non delinea in modo preciso la sequenza tra i due atti, ma sarebbe privo di senso immaginare un preventivo deposito di un atto non ancora notificato. La differenza dal modulo ordinario, quindi, consisterebbe nella previsione di un unico termine finale (pari a sessanta giorni), entro il quale devono essere compiute entrambe le operazioni di notifica e di deposito.
25.       Il passaggio alla fase giurisdizionale, quindi, si attua attraverso le seguenti tappe:
a)         la notifica dell’atto di opposizione;
b)         la notifica dell’atto con cui il ricorrente straordinario dichiara di insistere nel ricorso, davanti al TAR;
c)         il deposito, presso la segreteria del tribunale competente, dell’atto notificato dal ricorrente.
26.       Il primo atto non sembra assumere ancora connotati tipicamente processuali e giurisdizionali, ma costituisce l’ultimo segmento della fase di svolgimento del procedimento di trattazione del ricorso straordinario. Infatti, una volta intervenuta l’opposizione, potrebbe accadere che l’originario ricorrente ometta di insistere nella propria volontà di impugnazione. In tal caso, l’opposizione determinerebbe la sola conseguenza di rendere improcedibile il ricorso straordinario, senza provocare alcuna pronuncia del giudice amministrativo.
27.       Il secondo atto (la notifica) presenta invece, natura processuale, perché ha lo scopo di trasferire davanti al giudice l’intera controversia. Non vale obiettare che, tuttavia, l’atto di “insistenza”, pur notificato, potrebbe non essere depositato e, quindi, potrebbe sfuggire, di fatto, alla valutazione del giudice.
28.       Al riguardo, è sufficiente osservare che l’eventualità del mancato deposito del ricorso ritualmente notificato è verificabile, normalmente, anche nell’ordinario processo giurisdizionale. Ma nessuno dubita della natura processuale del ricorso, anche se solo notificato e non depositato. Del resto, per quanto interessa in questa sede, l’inconveniente pratico derivante dalla incertezza causata da un’opposizione seguita da un atto non depositato potrebbe essere agevolmente superato mediante il deposito dell’atto ad iniziativa delle altre parti, finalizzato alla pronuncia di inammissibilità del ricorso giurisdizionale, oppure dalla pronuncia di inammissibilità del ricorso straordinario, per il solo fatto dell’intervenuta opposizione.
29.       In ogni caso, la natura processuale dell’atto di deposito deve essere affermata con certezza. Il rapporto processuale si costituisce sin dalla notifica dell’atto con cui l’interessato dichiara di insistere nel ricorso. Il deposito costituisce un atto meramente consequenziale. D’altro canto, la natura processuale del deposito correlato alla notifica dell’ordinario ricorso giurisdizionale è costantemente affermata dalla giurisprudenza.
30.       Va ora stabilito se i termini per la notifica e per il deposito dell’atto con cui l’interessato dichiari di insistere nell’originario ricorso straordinario debbano essere considerati, o meno, inerenti alla “proposizione” del ricorso, e, quindi, sottratti alla regola del dimezzamento di cui all’articolo 23-bis.
31.       A parere del Collegio, occorre distinguere tra la notifica dell’atto e il suo deposito, che presentano diversa natura giuridica, anche in coerenza con gli indirizzi manifestati dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio.
32.       È vero, infatti, che una parte della dottrina riguardante il processo speciale accelerato ha affermato, sinteticamente, che l’intera fase di insistenza del ricorso dovrebbe ricondursi al concetto di proposizione del ricorso. Tuttavia, questa opinione si connette alla tesi (non condivisa dall’Adunanza Plenaria), secondo la quale, in linea generale, il deposito del ricorso deve sempre qualificarsi come segmento necessario dell’attività, complessa, di proposizione del ricorso.
33.       Ma una volta affermata, nel diritto vivente, la distinzione tra notifica e deposito del ricorso, questa deve coerentemente applicarsi anche all’atto con cui l’interessato dichiara la propria volontà di insistere nel ricorso.
34.       La notifica dell’atto con cui si insiste nell’impugnazione ha la funzione di radicare la controversia, per la prima volta, dinanzi al giudice. Se è vero che tale atto si deve porre in rapporto di stretta connessione con il ricorso straordinario, resta però indiscutibile che esso esprima la volontà del soggetto interessato di “proporre” un ricorso, non più al Capo dello Stato, ma davanti al giudice.
35.       Questa circostanza sembra sufficiente per affermare, allora, che il termine per la notifica dell’atto, pur essendo processuale, resta sottratto alla regola del dimezzamento dei termini, perché riconducibile, indiscutibilmente, alla categoria dei termini per la proposizione del ricorso.
36.       A diverse conclusioni si deve pervenire con riguardo al termine, successivo, per il deposito dell’atto. Questo è senz’altro un termine processuale, ma non è affatto riconducibile alla nozione, pure ampia, di attività di “proposizione del ricorso”, quanto meno nel contesto dell’articolo 23-bis. A tale riguardo, la Sezione ritiene che possano essere utilizzati i risultati cui è pervenuta la prevalente giurisprudenza – nonostante le notevoli perplessità della dottrina – con riferimento alla disciplina applicabile al termine per il deposito del ricorso di primo grado: questo non si sottrae alla regola del dimezzamento del termine, in quanto la formula proposizione del ricorso va intesa con il significato – più ristretto – di “notificazione”.
37.       Secondo il tribunale, invece, anche il termine per il deposito dell’atto andrebbe escluso dalla regola del dimezzamento, in forza della seguente argomentazione: “se, in generale, la sequenza introduttiva del giudizio amministrativo si articola in notifica del ricorso (da effettuare sempre nel termine decadenziale di 60 giorni) e successivo deposito (da effettuare, in generale, entro 30 giorni dall’ultima notifica, che si riducono a 15 nelle controversie ex art. 23-bis), nella fattispecie di cui all’art. 10 DPR n. 1199/71 la sequenza è invertita, in quanto la legge prevede che il ricorrente in sede straordinaria che voglia proseguire nel giudizio di fronte al giudice amministrativo a seguito di opposizione notificata dalle controparti, deve depositare l’atto di costituzione presso la segreteria del TAR entro 60 giorni dal ricevimento dell’atto di opposizione, dandone avviso mediante notifica all’amministrazione resistente ed ai controinteressati. Pertanto, il primo atto della sequenza è il deposito dell’atto di costituzione, che, agli effetti dell’applicazione dell’art. 23-bis, deve essere equiparato alla notifica e quindi vale per esso il termine ordinario di 60 giorni. Qualsiasi altra interpretazione sarebbe da considerare in contrasto con il diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto non esiste alcuna valida ragione per penalizzare, sotto questo profilo, il ricorrente in sede straordinaria che si vede notificare l’atto di opposizione ex art. 10 DPR n. 1199/71.”
38.       La tesi del tribunale non può essere condivisa, perché non considera l’interpretazione vivente delle modalità di attuazione della fase di trasposizione, la quale si svolge secondo una diversa successione di atti, nelle quali la notifica deve precedere il deposito dell’atto, anche per esigenze pratiche di verifica della concreta realizzazione del contraddittorio processuale.
39.       Oltretutto, nel caso di specie, la notifica ha effettivamente preceduto il deposito dell’atto.
40.       Non sembra persuasivo nemmeno l’ulteriore argomento svolto dal tribunale, secondo cui “considerato che il termine per la riassunzione del ricorso straordinario di fronte al TAR è esattamente uguale a quello previsto in generale per l’impugnazione (il che significa che il Legislatore del 1971 ha ritenuto che il ricorrente in sede straordinaria, per decidere se proseguire nel giudizio di fronte al TAR, deve disporre dello stesso termine previsto in generale per la notifica del ricorso). Pertanto, tale termine non deve ritenersi soggetto a dimidiazione, anche se si verte in una delle controversie di cui all’art. 23-bis.” In tal modo, infatti, si dà peso alla circostanza, del tutto estrinseca, che il termine previsto normativamente per il compimento di un determinato atto processuale sia uguale a quello stabilito per la notifica del ricorso, mentre l’eccezione al dimezzamento dei termini è riferita esclusivamente al compimento di atti riconducibili alla categoria della “proposizione del ricorso”, indipendentemente dalla loro durata.
41.       In definitiva, quindi, deve essere affermato che contrariamente a quanto ritenuto dal tribunale, il ricorso di primo grado è inammissibile, a causa del tardivo deposito dell’atto di trasposizione del ricorso straordinario.
42.       Tuttavia, a parere della Sezione, la novità e la complessità delle questioni giuridiche affrontate costituiscono elementi idonei per affermare la sussistenza di tutti i presupposti per riconoscere all’interessato il beneficio della rimessione in termini per errore scusabile. Pertanto, l’appello deve essere esaminato, nel merito, in relazione alle altre censure proposte dal comune di Gallipoli.
43.       Sempre sul piano processuale, l’appellante sostiene che la decisione di primo grado sia viziata per ultrapetizione. In particolare, il comune deduce che il ricorso straordinario non contenesse una domanda di risarcimento del danno in senso stretto, poiché la ricorrente si era limitata a censurare la mancata previsione, nel provvedimento impugnato, di “un congruo indennizzo che tenga indenne l’appaltatore dalle conseguenza dello scioglimento unilaterale del vincolo”.
44.       La tesi del comune non è condivisibile. È vero, infatti, che l’impostazione letterale del ricorso fa leva sull’asserita illegittimità del provvedimento contestato. Ma ciò deriva, in qualche misura, dalla struttura impugnatoria del ricorso straordinario e dalla tradizionale inammissibilità – in tale sede – di domande risarcitorie o di accertamento e non impedisce al giudice di qualificare la pretesa dell’interessato in funzione del suo effettivo petitum e della sua ragione giustificativa.
45.       Una volta realizzata la trasposizione del ricorso in sede giurisdizionale, la domanda, formalmente costruita come richiesta di annullamento, deve essere interpretata nel suo significato sostanziale, senza fermarsi al dato puramente letterale. Da questo punto di vista, la qualificazione del motivo di ricorso come richiesta di risarcimento del danno risulta corretta.
46.       Con un ulteriore gruppo di censure, l’appellante afferma l’erroneità della decisione del tribunale nella parte in cui essa ha condannato il comune al risarcimento del danno.
47.       Il motivo è parzialmente fondato.
48.       Il comune pone correttamente in luce la circostanza che il provvedimento impugnato in primo grado, pur nella sua complessità, è basato sulla decisione essenziale di rimeditare a fondo i contenuti e le modalità di affidamento del servizio, attraverso una nuova formulazione del capitolato e la costituzione di un’apposita società mista.
49.       Al tempo stesso, però, il provvedimento costituisce l’ultimo segmento delle determinazioni comunali concernenti l’affidamento temporaneo del servizio a trattativa privata.
50.       In questa prospettiva, quindi, la decisione del tribunale non è condivisibile nella parte in cui reputa illegittima la decisione di attivare una nuova trattativa privata per affidare il servizio fino all’avvio dell’attività della nuova società mista.
51.       Infatti, non si riscontra alcuna irragionevolezza nella scelta di ridurre al minimo la durata dell’affidamento a terzi (mediante trattativa privata), una volta compiuta l’opzione, che costituisce legittimo esercizio di un potere discrezionale, di ricorrere al modulo dello svolgimento del servizio attraverso una società mista.
52.       Non vale obiettare che le imprese diverse dalla DITTA BETA. (all’epoca del provvedimento attuale gestrice del servizio) non avrebbero interesse economico ad assumere l’incarico per un periodo “così breve”, pari a soli quattro mesi. Per un verso, si tratta di un’affermazione indimostrata, posto che, al contrario, nulla esclude di ipotizzare che il mercato avrebbe potuto evidenziare l’interesse di altre imprese a svolgere il servizio in questione. Per altro verso, poi, la sequenza dei fatti in cui si colloca il provvedimento censurato in primo grado induce a ritenere che la decisione del comune di procedere ad un temporaneo affidamento a trattativa privata non sia stata affatto strumentale o discriminatoria, ed elusiva di precedenti pronunce del giudice, ma sia perfettamente coerente con il passaggio alla gestione diretta del servizio mediante l’affidamento dell’attività ad una società mista.
53.       Ne deriva, quindi, che, in questa parte, la decisione del tribunale deve essere riformata: non sussiste la denunciata illegittimità del provvedimento impugnato e alla ******à DITTA ALFA non spetta alcun risarcimento del danno in relazione al periodo successivo all’indizione della nuova procedura negoziata.
54.       Infine, l’appellante svolge una serie di censure riferite alla determinazione dell’entità del risarcimento del danno liquidato dal tribunale in favore della Di Vizia, correlato alla durata del servizio e alla perdita di chance dell’interessata.
55.       Anzitutto, è esatta l’affermazione del comune, secondo cui il periodo di risarcimento del danno deve decorrere dal 22 gennaio 1998 (data di effettiva consegna del servizio), anziché dal 20 novembre 1997 (data di adozione della illegittima delibera di affidamento).
56.       Il comune sostiene, ancora, che nel periodo considerato per il risarcimento del danno non dovrebbe essere computato l’intervallo temporale intercorrente tra la delibera n. 411 del 30 novembre 1998 e la pubblicazione della sentenza del TAR (3 maggio 1999), in quanto, con la delibera n. 411/1998 era stato disposto il differimento delle procedure per l’espletamento della trattativa privata. Analoga tesi sostiene il comune con riguardo al periodo successivo alla delibera n. 194 del 9 giugno 1999, con cui il comune medesimo aveva disposto un nuovo affidamento a trattativa privata, fino alla decisione del Consiglio di Stato.
57.       Secondo l’appellante, il ricorrente di primo grado avrebbe dovuto tempestivamente impugnare questi due provvedimenti. In mancanza, nessuna pretesa risarcitoria potrebbe essere basata sulla loro asserita illegittimità.
58.       La tesi prospettata dall’appellante richiede l’approfondimento di alcune questioni essenziali.
59.       Anzitutto, si tratta di stabilire quale sia la sorte di provvedimenti amministrativi adottati in contrasto con pronunce cautelari o con sentenze di primo grado, non sospese, del giudice amministrativo.
60.       La legge n. 15/2005, con una previsione generalmente ritenuta come meramente ricognitiva degli indirizzi giurisprudenziali dominanti (quindi utilizzabile anche in relazione a provvedimenti adottati prima della sua entrata in vigore), ha introdotto l’articolo 21-septies nel corpo della legge n. 241/1990, delineando la categoria legislativa del provvedimento amministrativo nullo. In base al comma 1, “è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi espressamente previsti dalla legge”. Il comma 2 dello stesso articolo, poi, precisa che “2. Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo”.
61.       Lo scopo della norma legislativa è quello di codificare il principio interpretativo secondo cui la nullità del provvedimento amministrativo si verifica solo in presenza di circostanze tipiche e determinate dalla legge. Di regola, infatti, la difformità dai parametri normativi di riferimento comporta la sola annullabilità del provvedimento amministrativo. Si potrebbe affermare, allora, che, in base al nuovo disegno legislativo, solo il contrasto con pronunce giurisdizionali qualificabili, in senso stretto, come giudicato (secondo i principi dell’articolo 324 del codice di procedura civile) possa determinare la nullità del provvedimento. Negli altri casi, la difformità rispetto ad altre pronunce giurisdizionali, non assistite dalla forza del giudicato, provocherebbe la sola annullabilità dell’atto.
62.       Questo esito interpretativo non è però convincente. Si può obiettare, in primo luogo, che, nel contesto della disposizione, il concetto di giudicato potrebbe essere inteso in senso più ampio, comprensivo di tutte le pronunce immediatamente esecutive, quanto meno con riferimento alla portata del cosiddetto “giudicato cautelare”, intesa come stabilità processuale della decisione non più appellabile (modificabile solo attraverso lo strumento della revocazione, oppure in presenza di circostanze sopravvenute).
63.       Ma vi è di più. Anche la pronuncia cautelare di primo grado e la sentenza del tribunale non sospesa contengono un “comando giurisdizionale”, che si impone inderogabilmente alle amministrazioni destinatarie, con il solo limite delle sopravvenienze di fatto o di diritto. Le innovazioni portate dalla legge n. 205/2000 hanno confermato questa impostazione, regolando in modo puntuale le modalità esecutive di pronunce, che non presentano i caratteri propri del giudicato in senso stretto.
64.       In tale contesto sistematico, è inevitabile configurare il contrasto con ogni pronuncia esecutiva del giudice come una forma di patologia del provvedimento amministrativo certamente più grave della semplice annullabilità. Del resto, l’inquadramento nella categoria della nullità può essere affermato non solo per ragioni di ordine sistematico, ma anche con argomenti di tipo testuale, costituiti sia dalla lettura estensiva del concetto di giudicato, sia dalla attitudine della pronuncia del giudice a delimitare i confini delle attribuzioni concrete dell’amministrazione. Quindi, il provvedimento adottato in antitesi alla pronuncia giurisdizionale potrebbe essere assimilato a quello emanato in “difetto assoluto di attribuzione”, che determina comunque la nullità, per espressa previsione legislativa.
65.       In definitiva, quindi, a giudizio della Sezione, i provvedimenti contrastanti con pronunce giurisdizionali sono affetti da nullità e non richiedono di essere impugnati nel termine di decadenza.
66.       In ogni caso, anche aderendo alla tesi dell’annullabilità, la mancata tempestiva impugnazione dei provvedimenti lesivi non sarebbe idonea a spiegare effetti preclusivi nei riguardi di un’azione risarcitoria, comunque proposta nel termine di prescrizione. Va ricordato, infatti, che, in forza del più recente indirizzo espresso delle Sezioni Unite della Cassazione, l’azione risarcitoria per il ristoro dei danni derivati da provvedimenti illegittimi può essere proposta anche indipendentemente dalla tempestiva impugnazione dei provvedimenti stessi, purché sia rispettato il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
67.       Nel caso di specie, il ricorso straordinario è stato notificato ben prima della scadenza del termine di cinque anni, decorrente dall’adozione dei provvedimenti del comune di Gallipoli, in violazione delle pronunce giurisdizionali. Pertanto, la mancata impugnazione tempestiva di tali atti non può considerarsi preclusiva dell’azione risarcitoria.
68.       Né la mancata impugnazione degli atti potrebbe considerarsi come violazione del principio di autoresponsabilità, secondo cui il danneggiato deve fare tutto quanto è in proprio potere per limitare o impedire il danno lamentato. Infatti, nel caso di specie, la DITTA ALFA aveva contestato tempestivamente il provvedimento originariamente produttivo della lesione ai propri interessi patrimoniali. A fronte del chiaro tenore delle pronunce del giudice, l’amministrazione, adottando provvedimenti di segno contrario, ha assunto la responsabilità delle conseguenze risarcitorie derivanti da tali comportamenti.
69.       A fronte di condotte serbate dall’amministrazione, palesemente contrastanti con il contenuto delle decisioni cautelari e di primo grado del giudice, non si potrebbe esigere dal soggetto interessato l’onere di impugnare, uno per uno, tutti i successivi provvedimenti.
70.       Quindi l’appello principale è fondato nei soli limiti indicati in motivazione.
71.       La DITTA ALFA propone, a sua volta, un articolato appello incidentale, contestando i capi della sentenza ad essa sfavorevoli.
72.       Anzitutto, l’appellante incidentale sostiene che il provvedimento impugnato in primo grado andrebbe annullato per intero, anche nella parte riguardante la revoca delle precedenti determinazioni riguardanti le modalità di gestione del servizio.
73.       La censura è infondata. In questa parte, la decisione adottata dal comune non risulta affatto elusiva delle pronunce giurisdizionali relative alla procedura di gara svolta a trattativa privata, ma rappresenta il legittimo esercizio delle facoltà discrezionali spettanti all’amministrazione.
74.       Come correttamente rilevato dal tribunale, la revoca opera solo per il futuro e non cancella l’illegittimità degli atti precedenti (riconosciuta dalla stessa amministrazione nel provvedimento di autotutela), anche in funzione delle conseguenze risarcitorie derivanti dall’esecuzione degli atti.
75.       La limitata salvezza degli effetti prodotti dagli atti annullati e revocati deve essere circoscritta ai soli rapporti interni con la società DITTA BETA, senza precludere la valutazione di illegittimità degli stessi, anche in relazione alla richiesta di indennizzo e di risarcimento del danno formulata dalla DITTA ALFA.
76.       A fronte di una legittima determinazione di svolgere il servizio mediante il modulo della società mista, a partire dalla data di adozione del provvedimento (e solo da tale momento), perde di attualità l’obbligo – imposto dalle pronunce giurisdizionali – “di condurre una seria trattativa” con la società DITTA ALFA.
77.       Va precisato, poi, che il dovere di invitare alla trattativa privata la DITTA ALFA non potrebbe determinare, di per sé, alcuna maturazione del diritto ad ottenere l’affidamento novennale del servizio. Al riguardo, è sufficiente osservare che la pronunce giurisdizionali invocate dall’appellante incidentale non affermavano affatto l’obbligo di affidare il servizio alla DITTA ALFA, e nemmeno l’obbligo di invitare solo tale soggetto alla rinnovata trattativa, alla quale avrebbero ben potuto partecipare anche altri soggetti.
78.       In ogni caso, poi, anche se alla trattativa privata avesse partecipato la sola DITTA ALFA, non vi è alcuna certezza che essa avrebbe ottenuto l’affidamento del servizio, né è possibile stabilire il corrispettivo e la durata concordati dalle parti all’esito della negoziazione. Infine, anche un eventuale affidamento del servizio alla DITTA ALFA non avrebbe impedito al comune di adottare successive decisioni di revoca, riguardanti l’assetto organizzativo del servizio, se del caso giustificate anche attraverso la previsione di apposite clausole di scioglimento anticipato del rapporto per motivi di sopravvenuto interesse pubblico.
79.       Per le stesse ragioni è destituito di fondamento anche il secondo motivo dell’appello incidentale, mediante il quale la DITTA ALFA contesta, per illegittimità derivata, il provvedimento di affidamento del servizio alla società ****** Tale atto costituisce l’esito della nuova – e pienamente legittima – determinazione del comune di Gallipoli di abbandonare lo schema dell’affidamento a terzi del servizio, scegliendo, invece, lo strumento giuridico della costituzione di un’apposita società mista.
80.       Al riguardo, la Sezione rileva che la società ******, costituitasi in appello, ha eccepito la nullità della sentenza di primo grado (con il conseguente annullamento con rinvio al primo giudice), nella parte in cui essa non ha rispettato i termini dilatori a difesa intercorrenti tra la notifica dei motivi aggiunti e la discussione del ricorso.
81.       Tuttavia, i motivi di nullità della sentenza di primo grado si convertono in motivi di impugnazione della sentenza e non sono rilevabili d’ufficio in mancanza di tempestivo appello sul punto.
82.       Infine, con un terzo motivo, la DITTA ALFA contesta la misura del risarcimento del danno liquidato dal tribunale.
83.       Anche tale mezzo è privo di pregio. Contrariamente a quanto ritenuto dall’appellante incidentale, nessuna pronuncia giurisdizionale aveva mai affermato l’incondizionato diritto della DITTA ALFA ad ottenere l’affidamento del servizio.
84.       Quindi, la pronuncia appellata ha esattamente determinato la misura del risarcimento del danno, considerando, per un verso, la sola “perdita di chance” dell’interessato (opportunamente determinata nella metà del presumibile profitto, pari al 10% del corrispettivo), per altro verso non la durata novennale del contratto, ma solo il periodo di effettivo illegittimo affidamento del servizio alla società DITTA BETA.
85.       Conclusivamente, quindi, l’appello principale deve parzialmente accolto, e deve essere rigettato per il resto, mentre l’appello incidentale deve essere interamente respinto, con la conseguente parziale riforma della sentenza impugnata.
86.       Sussistono, peraltro, giusti motivi per disporre l’integrale compensazione tra le parti delle spese di lite.
PER QUESTI MOTIVI
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, accoglie, in parte, l’appello principale e respinge l’appello incidentale, compensando le spese;
ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 17 ottobre 2006:
*****************                            Presidente
Chiarenza Millemaggi Cogliani           Consigliere
***************                                 Consigliere
MARCO LIPARI                                           Consigliere Estensore
MARZIO BRANCA                          Consigliere
 
L’ESTENSORE                                            IL PRESIDENTE
    f.to ************                                 f.to *****************
 
IL SEGRETARIO
f.to *******************
 
 
DEPOSITATA IN SEGRETERIA
il……….24/7/2007…………………………………
(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)
IL DIRIGENTE
f.to **************

Lazzini Sonia

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