Il fatto
Un indagato veniva attinto da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere del Giudice per le indagini preliminare del Tribunale di Catanzaro i delitti di partecipazione all’associazione di tipo mafioso denominata “ndrangheta” e di usura aggravata (capi A e B2 dell’incolpazione).
Lo stesso Tribunale, in funzione di giudice del riesame, con l’ordinanza impugnata, confermava detto provvedimento.
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I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato proponeva ricorso per Cassazione il difensore del ristretto adducendo i seguenti motivi: 1) vizio logico della motivazione nella parte in cui erano stati ritenuti sussistenti i gravi indizi di partecipazione dell’indagato alla “ndrangheta”; 2) illogicità della motivazione con riferimento al concorso del ricorrente con altro indagato nel delitto di usura; 3) sempre in relazione a tale delitto di usura, si revocava in dubbio, con la terza doglianza, la configurabilità dell’aggravante dello stato di necessità della vittima, sia sotto il profilo oggettivo, che con riferimento alla necessaria conoscibilità da parte dell’agente dell’eventuale esistenza di essa, denunciandosi l’assenza di motivazione, su tale punto, nell’ordinanza impugnata.
Si legga anche:”Profili strutturali del delitto associativo: Art. 416 c.p.”
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il primo motivo veniva reputato fondato per le seguenti ragioni.
Si osservava a tal proposito come il Tribunale avesse individuato correttamente il criterio discretivo tra “imprenditore mafioso” ed “imprenditore colluso”, elaborato dalla giurisprudenza della Cassazione, pur però facendone, ad avviso del Supremo Consesso, un’applicazione errata.
In particolare, dopo essersi fatto presente che, come affermato dalle sentenze citate nella stessa ordinanza impugnata (Sez. 6, n. 37520 del 18/04/2019; Sez. 6, n. 32384 del 27/03/2019), l’impresa “mafiosa” presuppone la totale sovrapposizione con la consorteria criminale della quale condivide progetti e dinamiche operative con una conseguente commistione obiettiva delle rispettive attività o comunque implica che l’intera attività d’impresa sia inquinata dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti (Sez. 6, n. 39911 del 04/06/2014) ovvero, in ulteriore alternativa, richiede comunque che l’impresa sia pur sempre direttamente sottoposta al controllo dell’associazione mafiosa (Sez. 6, n. 13296 del 30/01/2018), gli Ermellini evidenziavano come, nel caso di specie, i giudici del riesame avessero ravvisato tale rapporto di sostanziale immedesimazione tra impresa e cosca essenzialmente in ragione del personale impegno profuso dal capo-clan affinché la ditta del ricorrente acquisisse delle importanti commesse ritenendo tale circostanza giustificabile soltanto in forza di un rapporto societario occulto tra i due o, altrimenti, in ragione dell’intraneità dell’odierno ricorrente al sodalizio mafioso.
Orbene, secondo il Supremo Consesso, tale argomentare era di per sé ellittico poiché, in linea generale, non si vedeva per quale ragione l’interessamento del capo non potesse trovare giustificazione in un interesse rilevante per la cosca ma, comunque, soltanto indiretto, come nel caso in cui dalla relativa situazione potessero derivare per il sodalizio significative ricadute di tipo economico o sul piano dell’autorevolezza criminale.
Inoltre, dopo essere stati enunciati ulteriori profili di criticità che, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, sarebbero emersi dalle risultanze investigative, veniva quindi ritenuto come non fosse in alcun modo possibile escludere che il ricorrente, senza far parte della struttura organizzativa del sodalizio criminale e senza alcuna affectio societatís, si fosse limitato a “scendere a patti” con la cosca ossia ad instaurare con essa, su un piano di sostanziale parità e per propria libera scelta, un rapporto volto a conseguire reciproci vantaggi consistenti, per l’imprenditore, nell’imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l’organizzazione mafiosa, nell’ottenere risorse, servizi od utilità; anzi, in questo senso deporrebbero logicamente proprio le vicende usurarie di cui quegli sarebbe rimasto vittima e, comunque, il ruolo di schermo da lui svolto per le attività di tal fatta compiute dal ricorrente.
Non solo.
Semmai così fosse, allora, per la Suprema Corte, egli – come specificato negli anzidetti precedenti di legittimità – avrebbe potuto delinearsi quale c.d. “imprenditore colluso” con l’associazione mafiosa e dunque autore di una condotta giuridicamente qualificabile in termini di “concorso esterno” alla stessa ma non di “partecipazione“.
Su questo aspetto, pertanto, per gli Ermellini, si rendeva necessario un supplemento argomentativo od anche, se necessario, di tipo istruttorio, per dare corretta applicazione agli enunciati princìpi di diritto.
Ciò posto, venendo ad esaminare il secondo motivo, esso veniva considerato manifestamente infondato oltre che generico mentre, invece, per quanto attiene la terza doglianza, essa veniva ritenuta fondata in quanto, a detta del Supremo Consesso, essa correttamente evidenziava un difetto di motivazione nel senso che, con l’istanza di riesame, effettivamente l’indagato aveva contestato l’ipotizzabilità della circostanza aggravante dello stato di necessità della vittima e, sul punto, l’ordinanza impugnata non conteneva alcuna risposta.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante nella parte in cui viene spiegato quando una impresa può ritenersi mafiosa.
Difatti, in tale pronuncia, citandosi giurisprudenza conforme, viene a tal proposito affermato che l’impresa “mafiosa” presuppone la totale sovrapposizione con la consorteria criminale della quale condivide progetti e dinamiche operative con una conseguente commistione obiettiva delle rispettive attività o comunque implica che l’intera attività d’impresa sia inquinata dall’ingresso nelle casse dell’azienda di risorse economiche provento di delitto di tal che risulti impossibile distinguere tra capitali illeciti e capitali leciti ovvero, in ulteriore alternativa, richiede comunque che l’impresa sia pur sempre direttamente sottoposta al controllo dell’associazione mafiosa.
Questa sentenza, dunque, può essere presa nella dovuta considerazione al fine di appurare se un’associazione possa ritenersi (o meno) mafiosa.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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